“L’integrazione come nuovo paradigma per l’immigrazione: lavoro, lingua e rispetto delle regole come pilastri fondamentali. Approfondimenti su strategie di integrazione, politiche migratorie e il principio della ReImmigrazione per chi non si integra
In Italia il dibattito sull’immigrazione continua a muoversi tra due poli opposti che, a ben vedere, hanno più in comune di quanto sembri.
Da un lato persiste un’idea di accoglienza automatica, quasi indipendente dalle reali capacità del Paese di costruire percorsi di integrazione solidi e controllabili.
Dall’altro cresce la spinta verso la remigrazione forzata, presentata come la soluzione finale a un sistema che non ha mai funzionato davvero.
È un pendolo che si ripete da anni: prima apriamo senza criteri, poi chiudiamo in ritardo, quando il contesto sociale è già compromesso.
La remigrazione, così come viene evocata nel dibattito politico, nasce sempre dopo il fallimento. Arriva quando i quartieri sono già diventati enclaves, quando il mercato del lavoro ha assorbito manodopera senza offrire strumenti di integrazione, quando i servizi pubblici sono già sotto pressione e quando l’opinione pubblica percepisce la presenza straniera come un problema di sicurezza. È una reazione tardiva, emotiva, l’ultimo stadio di un modello che non si è mai dotato di una vera architettura di gestione. E infatti la remigrazione, intesa come risposta di massa, finisce quasi sempre per scontrarsi con i limiti giuridici del nostro ordinamento: norme europee, vincoli convenzionali, garanzie procedurali. È la toppa messa a un sistema che non ha mai preteso integrazione prima di concedere stabilità.
La ReImmigrazione si colloca su un piano completamente diverso. Non interviene dopo la crisi: la previene. Immagina l’ingresso non come un atto definitivo, ma come l’avvio di un rapporto condizionato tra la persona straniera e lo Stato italiano.
Un rapporto che richiede impegno reciproco. Lo Stato offre percorsi – lingua, orientamento, formazione – ma pretende risultati verificabili, non vaghe dichiarazioni d’intenti. L’integrazione diventa un obbligo e non un’opzione. E quando questo obbligo non viene assolto, la permanenza non può essere illimitata: si attiva un percorso di ritorno ordinato, regolato, assistito, deciso fin dall’inizio e non improvvisato dopo anni di inerzia. È un processo trasparente, non una punizione collettiva.
Questa impostazione consente di leggere il Decreto Flussi 2025 con uno sguardo più lucido. L’Italia ha perfezionato la macchina di ingresso, definendo quote, procedure più rapide, corsi pre-partenza e accordi con i Paesi terzi. Ma tutto questo riguarda solo il primo tratto del percorso. Dopo l’ingresso, si torna al vecchio schema: rinnovi automatici, integrazione lasciata all’iniziativa individuale, assenza totale di verifiche sostanziali.
È questo vuoto che, negli anni, si trasforma in tensione sociale e che alimenta la domanda politica di “rimandarli a casa”. Un sistema che non distingue tra chi si integra e chi non lo fa è un sistema che prepara da solo le condizioni per la remigrazione emergenziale.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” risponde esattamente a questa lacuna. Impone che l’Italia, accanto alla programmazione dei flussi e alla gestione iniziale degli ingressi, definisca finalmente i criteri di permanenza: quando un percorso di integrazione può dirsi riuscito, quali standard devono essere rispettati, quali conseguenze derivano dall’assenza totale di integrazione. Non c’è nulla di punitivo.
È semplicemente la logica del patto: diritti in cambio di doveri, stabilità in cambio di integrazione.
La scelta, in fondo, è tutta qui. Continuare con l’alternanza fra apertura incontrollata e remigrazione forzata significa condannare il Paese allo stesso ciclo vizioso che osserviamo da vent’anni. Costruire un modello fondato sulla ReImmigrazione significa, invece, superare il pendolo e fondare la politica migratoria italiana su regole chiare, verificabili e sostenibili.
È il passo che l’Italia non ha ancora compiuto e che, prima o poi, dovrà compiere se vuole coniugare sicurezza, coesione sociale e dignità delle persone.
Avv. Fabio Loscerbo Lobbista – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea ID 280782895721-36
La legge di conversione del decreto-legge 3 ottobre 2025, n. 146, rappresenta l’ennesimo tentativo di intervenire sul meccanismo dei flussi di ingresso dei lavoratori stranieri attraverso una serie di aggiustamenti tecnici rivolti alla razionalizzazione amministrativa.
Il legislatore ha scelto di concentrare il proprio intervento sulla fase genetica della procedura, rafforzando strumenti di controllo, interoperabilità, verifica documentale e uniformazione delle tempistiche.
È un impianto che, sotto il profilo strettamente procedurale, appare coerente con l’intento di rendere più ordinato il processo autorizzatorio e di ridurre le disfunzioni accumulatesi negli ultimi anni.
Tuttavia, l’attenzione dedicata alla dimensione amministrativa del fenomeno evidenzia un limite strutturale che ormai caratterizza in modo ricorrente la politica italiana in materia di immigrazione: l’ingresso è regolato con precisione crescente, mentre l’integrazione continua a essere un territorio privo di una disciplina organica.
La legge di conversione affina il procedimento di rilascio dei nulla osta, istituzionalizza la precompilazione, rende sistematici i controlli di veridicità e interviene sui margini di discrezionalità dei datori di lavoro.
Il risultato è una procedura più controllata e più prevedibile, capace di ridurre la proliferazione di domande non attendibili o presentate in assenza di un reale fabbisogno.
Si tratta, senza dubbio, di elementi utili a ristabilire un minimo di serietà nel sistema.
Tuttavia, questa cura per la parte iniziale del percorso non trova corrispondenza nella fase successiva, quella che più incide sulla coesione sociale e sulla stabilità a lungo termine del rapporto tra Stato e cittadino straniero. L’ingresso, infatti, è solo il primo segmento del processo migratorio; ciò che realmente determina gli esiti nel medio periodo è la permanenza, ed è proprio qui che la legge tace.
L’intervento normativo dedica spazio ai percorsi di inserimento socio-lavorativo solo quando si occupa delle categorie particolarmente vulnerabili, come le vittime di tratta, di sfruttamento lavorativo o di violenza domestica.
È un segmento importante, che risponde a esigenze specifiche e giustificate. Ma non riguarda la massa dei lavoratori che accederà al territorio nazionale attraverso i flussi ordinari, i quali, anche in questa riforma, continuano a essere privi di un quadro normativo che disciplini il percorso di integrazione linguistica, culturale e valoriale.
L’idea che il semplice svolgimento di un’attività lavorativa sia sufficiente a garantire l’integrazione è un presupposto che l’esperienza comparata smentisce da tempo e che, nonostante ciò, continua a rimanere alla base del sistema italiano.
La legge non considera i tre elementi fondamentali che determinano la possibilità di una permanenza equilibrata: il lavoro come strumento di autonomia economica, la lingua come veicolo di partecipazione sociale e il rispetto delle regole come presupposto del patto di cittadinanza.
Senza un intervento normativo che renda questi elementi parte integrante del percorso di permanenza, il sistema continuerà a produrre esiti casuali, nei quali la stabilizzazione del soggiorno dipende da fattori formali più che dal reale radicamento dello straniero nella comunità.
La coesione sociale, invece, richiede un modello strutturato che definisca obblighi, tappe e verifiche, superando definitivamente l’idea che l’integrazione sia un fenomeno spontaneo o una responsabilità delegata alla sola dimensione territoriale.
Il decreto flussi convertito in legge, pur migliorando la fase procedurale, lascia dunque intatto il vuoto più rilevante: l’assenza di una politica nazionale dell’integrazione che definisca ciò che accade dopo l’ingresso.
È un approccio che conferma la distanza tra il modello attuale e il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”.
Questo paradigma parte da un principio che il legislatore continua a ignorare: la permanenza non può essere un dato automatico; deve essere una responsabilità reciproca che si fonda su un percorso verificabile nel tempo.
L’Italia può continuare a ottimizzare moduli, piattaforme e automatismi, ma senza un sistema che colleghi la stabilizzazione del soggiorno a un’effettiva integrazione, la politica migratoria rimarrà intrappolata nello stesso schema degli ultimi decenni, capace di gestire l’ingresso ma non le conseguenze della permanenza.
La legge di conversione del 2025 consolida il controllo sui flussi, ma non affronta ciò che determina davvero il successo o il fallimento di una politica migratoria: l’integrazione effettiva delle persone che vengono ammesse nel territorio nazionale.
È un limite che non può più essere ignorato. Se l’obiettivo è costruire un modello capace di tutelare al tempo stesso sicurezza, coesione e sviluppo, allora la linea da seguire è chiara: l’Italia deve adottare un paradigma che renda l’integrazione un obbligo e non un’opzione, e che preveda un’alternativa ordinata e responsabile per chi, pur ammesso, non riesce o non vuole integrarsi.
È questa la logica di “Integrazione o ReImmigrazione”, ed è esattamente ciò che manca nella legge appena approvata.
Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36
La vicenda che ha portato allo scioglimento di Muslim Interaktiv in Germania non è un episodio isolato né un fenomeno marginale. È una finestra sul futuro dell’Europa e, soprattutto, sul futuro dell’Italia se continuerà a muoversi dentro il vecchio modello migratorio.
A colpire non è soltanto la retorica del califfato portata in piazza, né la capacità di mobilitare centinaia di giovani attraverso un linguaggio ibrido tra propaganda religiosa e cultura pop.
A colpire è l’identità di chi guidava quel movimento: un cittadino tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo, appartenente a quella seconda generazione che avrebbe dovuto testimoniare il successo dell’integrazione europea.
Non siamo davanti a radicali arrivati dall’estero, ma a giovani europei che rifiutano il modello occidentale nel cuore stesso dell’Occidente.
È il segno più evidente che l’integrazione, se lasciata alla spontaneità, semplicemente non avviene. E che il multiculturalismo soft, quello che per anni ha creduto che la sola convivenza territoriale generasse appartenenza culturale, è fallito in modo fragoroso.
La Germania paga oggi il prezzo di un approccio fondato sull’idea che il tempo, da solo, bastasse. Che la cittadinanza potesse sostituire il lavoro culturale, educativo e valoriale. Che la scuola, senza strumenti né visione, potesse assorbire tutto.
Ma la realtà mostra un’altra immagine: giovani nati in Europa, perfettamente alfabetizzati nella lingua del Paese ospitante, attratti da ideologie radicali che promettono identità rigide, appartenenza assoluta e un progetto politico-religioso alternativo allo Stato democratico.
Il problema non riguarda la Germania soltanto. Riguarda l’Italia, forse più della Germania. Perché oggi vediamo dinamiche che sono identiche a quelle che la Germania mostrava quindici anni fa: seconde generazioni nate qui, o arrivate da piccole, che vivono in quartieri a forte concentrazione etnica, spesso prive di un reale ancoraggio ai valori costituzionali.
Una parte significativa di questa popolazione cresce senza un percorso obbligatorio di integrazione, senza verifica della lingua, senza un rapporto chiaro con le regole e con la cultura del Paese in cui vive.
Molti operatori culturali, scolastici o religiosi provengono da contesti che non trasmettono valori occidentali, ma identità separate. E nelle piattaforme social prospera una nuova forma di islamismo pop, che parla ai giovani con linguaggi immediati, estetici, emozionali. È qui che si costruisce il terreno della radicalizzazione futura. Non nei centri di accoglienza, non nei porti, ma negli smartphone.
Il vero tallone d’Achille dell’Europa non è la gestione degli arrivi: è la gestione del dopo. Ed è esattamente qui che si gioca la partita italiana. Perché ciò che accade oggi ad Amburgo può accadere a Milano, Torino, Bologna o Roma nel giro di qualche anno, se non cambiamo l’impianto culturale e normativo del nostro modello migratorio.
Non possiamo più pensare che l’integrazione sia un processo spontaneo, volontario, affidato al buon senso o alla buona volontà. L’integrazione deve diventare un obbligo giuridico, strutturato, verificabile.
Un percorso che si fonda su tre pilastri chiari e misurabili: lavoro, lingua e rispetto delle regole. Tre elementi che costruiscono appartenenza reale e che, se non presenti, rendono incoerente la permanenza nel Paese.
Ed è qui che entra in gioco il paradigma Integrazione o ReImmigrazione: non un’idea punitiva, ma un modello razionale di gestione a lungo termine della convivenza democratica.
Significa creare percorsi strutturati con verifiche periodiche; significa avere indicatori oggettivi di integrazione; significa poter affermare che chi partecipa pienamente alla vita del Paese ha diritto a restare, mentre chi rifiuta sistematicamente quei valori fondamentali deve essere accompagnato — volontariamente o coattivamente — verso un progetto di rientro.
Non esiste alternativa se l’obiettivo è evitare in Italia ciò che oggi vediamo in Germania. La cittadinanza non è un vaccino contro la radicalizzazione. L’appartenenza formale non sostituisce l’appartenenza culturale. La Germania, più avanzata di noi nella gestione storica dei flussi migratori, ci mostra che non basta crescere in Europa per sentirsi europei.
Il caso di Muslim Interaktiv non è un incidente. È un campanello d’allarme chiaro, forte, inequivocabile. L’Italia ha ancora il tempo per evitare la stessa deriva. Ma deve farlo ora, adottando un paradigma nuovo, che non teme di dire le cose come stanno e che riconosce che senza integrazione reale — e misurata — non ci sarà mai sicurezza, né coesione sociale, né futuro.
Avv. Fabio Loscerbo Lobbista – EU Transparency Register ID 280782895721-36
FOCUS 1 – Che cos’era davvero Muslim Interaktiv
Muslim Interaktiv non nasce come un’associazione tradizionale con statuti, sedi periferiche o un organigramma formale.
È qualcosa di diverso, più moderno e più insidioso: un collettivo islamista che si forma ad Amburgo attorno al 2020 e che cresce quasi esclusivamente attraverso i social media, parlando a una generazione giovane, digitale e culturalmente sospesa.
Le autorità tedesche lo hanno definito un gruppo “apertamente anticostituzionale”, una definizione utilizzata chiaramente nel comunicato ufficiale del Verfassungsschutz, in cui si legge che l’organizzazione promuoveva idee incompatibili con l’ordine democratico tedesco (fonte: https://www.verfassungsschutz.de/SharedDocs/kurzmeldungen/DE/2025/2025-11-05-verbot.html).
La particolarità di Muslim Interaktiv è proprio questa natura ibrida: non rappresenta il classico circuito dell’estremismo islamista degli anni Duemila, fatto di predicatori clandestini, moschee parallele e reti verticali.
Al contrario, si presenta come un movimento pop, visivo, “accattivante”, con video molto curati, slogan brevi e un’estetica volutamente giovanile. I contenuti girano rapidamente su TikTok, Instagram e YouTube, e la loro narrazione religiosa si fonde con musica, linguaggi urbani e modalità tipiche degli influencer. È un modo nuovo, più efficace e immediato, di veicolare un messaggio antico: la superiorità della Sharia sulla legge democratica.
Proprio per questa capacità di attrarre giovani, in particolare giovani musulmani di seconda generazione, Muslim Interaktiv diventa presto una presenza visibile nelle strade di Amburgo.
Una delle manifestazioni più citate dalla stampa internazionale è quella del 2024, dove il gruppo parlò apertamente dell’obiettivo di instaurare un califfato in Germania. Il riferimento si trova nella ricostruzione dell’agenzia Reuters, che ha descritto con precisione sia la forza mobilitante del collettivo sia la risposta dello Stato tedesco (fonte: https://www.reuters.com/world/germany-bans-muslim-interaktiv-association-searches-properties-2025-11-05/).
Il movimento agiva con grande abilità nel creare un’identità alternativa per i giovani musulmani europei: non un’identità integrata nella società tedesca, ma un’identità separata, più rigida e totalizzante.
E questa è la ragione per cui le autorità tedesche hanno adottato una misura drastica. L’azione del governo, infatti, non si è limitata allo scioglimento formale: sono state ordinate perquisizioni in varie città, tra cui Amburgo, Berlino e l’Assia, come riportato anche da Euronews nella cronaca delle operazioni, che descrive nel dettaglio l’intervento coordinato del Ministero dell’Interno (fonte: https://it.euronews.com/2025/11/05/germania-vietata-lassociazione-muslim-interactive-maxi-perquisizioni-contro-gruppi-islamis).
La stampa specializzata ha inoltre documentato il legame tra Muslim Interaktiv e una nuova forma di radicalismo digitalizzato, che non utilizza più strutture fisiche ma agisce attraverso reti fluide di attivisti e simpatizzanti.
Anche media esteri come la Radiotelevisione Svizzera hanno raccontato la vicenda con toni molto netti, spiegando come Muslim Interaktiv cercasse esplicitamente di normalizzare l’idea del califfato e presentarlo come una “alternativa politica” all’ordinamento democratico tedesco.
La sintesi è semplice: Muslim Interaktiv non era un fenomeno marginale, ma un laboratorio di radicalizzazione giovanile nel cuore dell’Europa. Un movimento capace di usare i codici comunicativi della modernità per promuovere un progetto politico-religioso arcaico e incompatibile con l’ordine democratico.
Lo scioglimento deciso dalla Germania non è stato un atto simbolico, ma una reazione necessaria a un processo di radicalizzazione interno, radicato nei nostri stessi territori.
FOCUS 2 – Raheem Boateng: il volto della seconda generazione che rifiuta l’Europa
Il leader informale di Muslim Interaktiv, Raheem Boateng — indicato in diverse ricostruzioni anche come Joe Adade Boateng — è diventato, suo malgrado, il simbolo di un fenomeno che l’Europa non può più permettersi di ignorare: la radicalizzazione interna delle seconde generazioni.
Boateng non è un predicatore arrivato clandestinamente dall’estero, non è un emissario di qualche organizzazione jihadista straniera, e non è la proiezione di conflitti mediorientali importati in Germania. È, invece, un prodotto interamente europeo: nato e cresciuto ad Amburgo, cittadino tedesco, con un percorso di vita apparentemente identico a quello di migliaia di suoi coetanei.
A renderlo centrale nel dibattito pubblico è la constatazione che la sua radicalizzazione non è avvenuta ai margini della società, ma all’interno di essa.
Secondo le ricostruzioni giornalistiche, Boateng era un giovane molto conosciuto negli ambienti islamisti europei per la sua capacità comunicativa, per la presenza sui social e per il linguaggio “ibrido” tra religione, identità, cultura urbana e codici estetici contemporanei.
Proprio questa manifestazione è diventata uno spartiacque. In quell’occasione, Boateng salì sul palco con microfono alla mano e parlò apertamente della necessità di instaurare un califfato in Germania.
La scena, ripresa e diffusa sui social, ha fatto il giro dei media internazionali. L’agenzia Reuters, ricostruendo l’intera vicenda nel giorno dello scioglimento di Muslim Interaktiv, ha dedicato un passaggio specifico alla leadership di Boateng, descrivendolo come il principale referente e portavoce del collettivo (fonte: https://www.reuters.com/world/germany-bans-muslim-interaktiv-association-searches-properties-2025-11-05/).
Il suo profilo è ancora più significativo perché, secondo vari media tedeschi, Boateng avrebbe anche frequentato l’Università di Amburgo, dove si sarebbe presentato come un giovane impegnato e carismatico, integrato nel contesto accademico, e tuttavia parallelamente attivo nella costruzione di contenuti islamisti online.
Il paradosso è evidente. Boateng è, a tutti gli effetti, il volto di una generazione che l’Europa pensava di avere già “integrato”. Giovane, istruito, cittadino tedesco, digitalmente competente, pienamente parte della società dal punto di vista formale.
Eppure, proprio per la debolezza del modello europeo, ha sviluppato un’identità alternativa, impermeabile ai valori democratici, attratta da un progetto politico-religioso incompatibile con lo Stato di diritto. Come ha scritto la Radiotelevisione Svizzera in un commento che ha fatto molto discutere, Boateng rappresenta “il nuovo tipo di attivista islamista europeo” capace di costruire discorsi radicali con forme comunicative moderne (fonte: https://www.rsi.ch/info/mondo/Un-califfato-ad-Amburgo-Lo-vuole-Muslim-Interaktiv–2150101.html).
La sua figura dimostra un punto essenziale: non basta nascere in Europa per diventare europei. La cittadinanza, da sola, non crea appartenenza culturale. La scuola, senza strumenti adeguati, non può sostituire un sistema valoriale coerente. Le istituzioni, se rinunciano a chiedere integrazione reale, lasciano spazio a identità parallele più rigide e totalizzanti.
Boateng è il prodotto di un modello fallito. Un modello che l’Italia, oggi, sta replicando in modo inconsapevole. Se la Germania rappresenta il futuro che ci attende, la sua storia è il monito più chiaro e più urgente di tutti: quando l’integrazione non è pretesa, qualcun altro occuperà quello spazio.
Bienvenido a un nuevo episodio del podcast “Integración o ReInmigración”. Hoy analizamos un acontecimiento que marca un punto de inflexión en el debate internacional sobre la gestión de los flujos migratorios. Nos referimos a la declaración pública en la que Donald J. Trump afirmó que “solo la Reverse Migration puede resolver la situación”. Una frase que ha recorrido el mundo y que merece ser examinada con atención, porque no se trata de un comentario impulsivo ni de una simple provocación. Es una orientación política que ya está influyendo en la conversación global.
Lo primero que debemos aclarar es que el concepto de Reverse Migration no nace como una provocación. Describe un marco estratégico preciso: intervenir no solo en las entradas futuras, sino también en el conjunto de la población extranjera que ya reside en el país. Este enfoque rompe con la lógica tradicional de las políticas migratorias occidentales. Durante décadas, la atención se ha centrado en los criterios de entrada, en los visados y en el control de fronteras. Lo que casi nunca se ha abordado es la cuestión de lo que ocurre después, cuando la persona ya forma parte del sistema social y económico del país de acogida.
La declaración de Trump coloca en primer plano una idea que muchos gobiernos occidentales han tratado con prudencia: la permanencia del extranjero no es automática. Depende de tres factores. El primero es la utilidad social, es decir, la capacidad de aportar de manera positiva a la comunidad. El segundo es la compatibilidad cultural, que se refiere a la adhesión a los valores fundamentales de la sociedad que recibe. El tercero es la seguridad, porque ningún sistema puede tolerar la presencia de individuos que representan un riesgo real para el orden público. Estos tres pilares están definiendo la nueva etapa del debate migratorio.
Lo más relevante es que este planteamiento no se limita a quienes desean entrar en Estados Unidos. También afecta a quienes ya se encuentran dentro. Aquí se abre una ruptura clara respecto al modelo estadounidense tradicional, basado en la idea de que la migración es un proceso prácticamente irreversible. La perspectiva cambia: la migración se convierte en un proceso condicionado, revisable y, cuando es necesario, revocable. Es un concepto que Europa ha empezado a explorar en los últimos años, especialmente en el debate sobre la protección complementaria, pero que nunca antes se había formulado con tanta claridad.
El mensaje estadounidense afirma algo muy sencillo: sin integración real, no puede existir una permanencia estable. Y cuando la integración no se produce, la solución no es mirar hacia otro lado, sino recurrir a la Reverse Migration. En este sentido, la declaración de Trump representa una confirmación internacional de lo que venimos sosteniendo desde hace tiempo: la integración no puede ser opcional; es un deber. Y la ReInmigración no es una medida excepcional, sino un componente estructural del modelo.
Este giro en Estados Unidos tendrá consecuencias también para Europa. Es probable que en los próximos meses veamos una revisión de los paradigmas culturales y jurídicos que han orientado las políticas migratorias durante décadas. La presión demográfica, la cuestión de la seguridad y la creciente distancia entre las políticas y la realidad están obligando a los sistemas jurídicos a redefinir las condiciones básicas de la convivencia social. No se trata de cerrar las puertas, sino de establecer criterios claros y verificables que permitan distinguir entre quienes se integran y fortalecen la comunidad y quienes rechazan sus reglas fundamentales.
La afirmación “Only Reverse Migration” transmite un mensaje contundente: el viejo modelo ya no funciona y ha comenzado una nueva etapa. Una etapa en la que integración y permanencia se vuelven inseparables y en la que el retorno regulado pasa a ser una parte esencial de la gobernanza migratoria. Esto no significa debilitar los derechos fundamentales, sino establecer un marco en el que derechos y deberes estén equilibrados de manera responsable. Es una dirección que Italia y Europa deberán evaluar con mucha atención, porque el contexto internacional está cambiando rápidamente.
Gracias por escuchar este nuevo episodio de “Integración o ReInmigración”. Seguiremos analizando los desarrollos en Estados Unidos y su impacto en el debate europeo, porque lo que ocurre hoy al otro lado del Atlántico suele anticipar las tendencias que llegan a nosotros mañana. Hasta la próxima.
Benvenuto a un nuovo episodio del podcast “Integrazione o ReImmigrazione”. Oggi affrontiamo un passaggio che segna un punto di svolta nel dibattito internazionale sulla gestione dei flussi migratori. Parliamo della dichiarazione pubblica con cui Donald J. Trump ha affermato che “solo la Reverse Migration può risolvere la situazione”. Una frase che ha fatto il giro del mondo e che merita di essere analizzata con attenzione, perché non si tratta di uno slogan estemporaneo, ma di un vero indirizzo politico che sta già influenzando il discorso globale.
La prima cosa da chiarire è che il concetto di Reverse Migration non nasce come provocazione. Indica un quadro strategico preciso: intervenire non soltanto sugli ingressi futuri, ma sull’insieme della popolazione straniera già residente sul territorio. È un approccio che ribalta la logica tradizionale delle politiche migratorie occidentali. Per decenni ci siamo concentrati sull’ingresso, sulla regolazione dei visti, sul rafforzamento delle frontiere. Quasi mai si è affrontato il tema di cosa accade dopo, quando la persona entra nel sistema sociale ed economico del Paese ospitante.
La dichiarazione di Trump mette al centro un’idea che molti governi occidentali hanno trattato con prudenza: la permanenza dello straniero non è automatica, ma dipende da tre elementi. Il primo è l’utilità sociale, cioè la capacità di contribuire in maniera positiva alla comunità. Il secondo è la compatibilità culturale, che riguarda l’adesione ai valori fondamentali della società ospitante. Il terzo è la sicurezza, perché nessun sistema può tollerare la presenza di soggetti che rappresentano un rischio concreto per l’ordine pubblico. È su questi tre assi che si gioca la nuova stagione del dibattito migratorio.
L’elemento più interessante è che questa impostazione non si limita a fissare criteri per chi vuole entrare negli Stati Uniti. Riguarda anche chi è già dentro. E qui emerge una frattura rispetto al vecchio modello americano, costruito sull’idea che la migrazione sia un percorso tendenzialmente irreversibile. La prospettiva cambia radicalmente: la migrazione diventa un processo condizionato, aggiornabile, e soprattutto revocabile. È un concetto che l’Europa ha iniziato a trattare negli ultimi anni, soprattutto attraverso la discussione sulla protezione complementare, ma che non è mai stato espresso in modo così netto.
Il messaggio americano afferma una cosa molto semplice: senza integrazione reale, non può esistere una permanenza stabile. E se l’integrazione non si realizza, la soluzione non è lasciar correre, ma ricorrere alla Reverse Migration. In questo senso, la dichiarazione di Trump rappresenta una conferma internazionale di ciò che stiamo sostenendo da tempo: l’integrazione non può essere una scelta opzionale, ma un obbligo, e la ReImmigrazione non è una misura eccezionale, bensì un elemento strutturale del modello.
La situazione americana avrà conseguenze anche per l’Europa. È probabile che nei prossimi mesi assisteremo a una revisione dei paradigmi culturali e normativi che hanno guidato le politiche migratorie degli ultimi decenni. La pressione demografica, la questione della sicurezza e il crescente divario tra politiche e realtà stanno costringendo i sistemi giuridici a ridefinire i parametri della convivenza civile. Non si tratta di chiudere le porte, ma di stabilire criteri chiari e verificabili che consentano di distinguere chi si integra e arricchisce la comunità da chi non ne accetta le regole fondamentali.
La dichiarazione “Only Reverse Migration” contiene quindi un messaggio potente: il vecchio modello ha perso la sua efficacia, e una nuova stagione è iniziata. Una stagione in cui integrazione e permanenza sono due elementi inseparabili, e in cui il rimpatrio regolato diventa parte integrante della governance migratoria. Questo non significa negare i diritti fondamentali, ma definire un quadro in cui i diritti e i doveri siano bilanciati in modo responsabile. È una direzione che l’Italia e l’Europa dovranno valutare con grande attenzione, perché il contesto internazionale sta cambiando rapidamente.
Ti ringrazio per aver ascoltato questo nuovo episodio di “Integrazione o ReImmigrazione”. Continueremo a seguire l’evoluzione della situazione negli Stati Uniti e le ripercussioni sul dibattito europeo, perché ciò che accade oggi oltreoceano anticipa spesso i trend che, tra qualche mese, arrivano anche da noi. A presto.
Welcome to a new episode of the “Integration or ReImmigration” podcast. Today we examine a development that marks a turning point in the international debate on how to manage migration. We are talking about the public statement in which Donald J. Trump declared that “only Reverse Migration can fix the situation.” The phrase quickly went around the world, and it deserves careful analysis, because it is not an impulsive remark or a rhetorical flourish. It is a policy direction, and it is already influencing the global conversation.
The first thing to clarify is that the concept of Reverse Migration is not intended as a provocation. It describes a precise strategic framework: addressing not only future entries but the entire foreign population already living within the country. This approach overturns the traditional logic of Western migration policy. For decades, the focus has been on entry rules, visa procedures, and border enforcement. What has been largely avoided is the question of what happens after the person is admitted into the social and economic system of the host country.
Trump’s declaration brings to the forefront an idea that many Western governments have treated with caution: the permanence of a foreign national is not automatic. It depends on three factors. The first is social utility — the ability to contribute positively to the community. The second is cultural compatibility — the extent to which one accepts the foundational values of the host society. The third is security — because no system can tolerate the presence of individuals who represent a real risk to public order. These three pillars are now shaping the next phase of the migration debate.
What stands out is that this approach is not limited to screening those who want to enter the United States. It also concerns those who are already inside the system. This marks a clear break with the old American model, which was built on the assumption that migration was largely irreversible. The perspective now shifts: migration becomes a conditional, reviewable, and — where necessary — revocable process. This is a concept Europe has begun to explore in recent years, especially through discussions on complementary protection, but it has never before been articulated with such clarity.
The American message makes a simple point: without real integration, there can be no stable long-term stay. And when integration does not occur, the answer is not to ignore the problem but to apply Reverse Migration. In this sense, Trump’s declaration is an international confirmation of what we have been arguing for some time: integration cannot be optional; it is an obligation. And ReImmigration is not an extraordinary measure but a structural component of the model.
This shift in the United States will have consequences for Europe as well. Over the next months, we are likely to see a revision of the cultural and legal paradigms that have guided migration policy for decades. Demographic pressure, security concerns, and the widening gap between policy and reality are forcing legal systems to redefine the basic conditions of social coexistence. The goal is not to close the door, but to establish clear and measurable criteria that make it possible to distinguish those who integrate and strengthen the community from those who reject its fundamental rules.
The statement “Only Reverse Migration” carries a powerful message: the old model no longer works, and a new era has begun. An era in which integration and legal residence are inseparable, and in which regulated return becomes an essential part of migration governance. This does not mean weakening fundamental rights. It means building a framework in which rights and responsibilities are balanced in a realistic, sustainable way. It is a direction that both Italy and Europe will need to evaluate carefully, because the international context is shifting quickly.
Thank you for listening to this new episode of “Integration or ReImmigration.” We will continue to monitor developments in the United States and the impact they will have on the European debate, because what happens today across the Atlantic often anticipates the trends that will reach us tomorrow. See you next time.
In Italia parlare di sicurezza nazionale significa, quasi sempre, parlare di tutto tranne che del suo fondamento: la capacità dello Stato di distinguere, classificare e decidere.
Per anni il dibattito sull’immigrazione si è limitato a slogan contrapposti, oscillando tra chi invoca chiusure drastiche e chi immagina soluzioni indefinite, senza mai affrontare seriamente ciò che determina la stabilità di un Paese. Il dossier “Il paradigma Integrazione o ReImmigrazione: una proposta per la sicurezza nazionale” nasce proprio da questa consapevolezza: senza un metodo, la sicurezza non esiste.
Il punto centrale è semplice: uno Stato che non valuta in modo oggettivo l’integrazione non può difendere se stesso.
Da questa premessa prende forma il paradigma Integrazione o ReImmigrazione, che mette ordine in un sistema che oggi appare frammentato, disomogeneo e incapace di essere prevedibile. La mancanza di prevedibilità è il vero nemico della sicurezza nazionale. Un Paese è sicuro quando ogni soggetto presente sul territorio è identificato, tracciato e valutato; non quando rimane sospeso in una zona grigia amministrativa che, paradossalmente, lo Stato stesso contribuisce a produrre.
Il dossier evidenzia come una parte significativa delle irregolarità non sia generata da comportamenti antisociali, ma dalla lentezza delle procedure, dalla mancanza di criteri omogenei e dall’assenza di collegamento tra le banche dati delle diverse amministrazioni. Questa disorganizzazione crea un effetto domino: persone in attesa, percorsi bloccati, titoli scaduti, ricorsi giudiziari, incertezza diffusa. E l’incertezza, in un contesto migratorio, è sempre vulnerabilità. Una vulnerabilità che ricade su tutti: cittadini italiani, stranieri regolari, imprese, istituzioni.
Da qui la necessità di un nuovo paradigma. Integrazione o ReImmigrazione introduce tre criteri essenziali — lavoro effettivo, conoscenza della lingua italiana, rispetto delle regole — che permettono allo Stato di valutare l’idoneità di un individuo a rimanere stabilmente sul territorio.
Non si tratta di criteri astratti o ideologici, ma di indicatori concreti, verificabili, che molti Paesi europei hanno già adottato da tempo.
Il dossier insiste sul fatto che la sicurezza nazionale non può essere garantita senza un modello che renda obbligatoria questa valutazione.
Permettere l’ingresso e la permanenza di persone senza verificare il loro livello di integrazione significa rinunciare alla capacità di gestione.
Allo stesso modo, trattenere per anni chi non ha alcuna intenzione di integrarsi significa alimentare zone di marginalità che diventano terreno fertile per conflitti sociali, microcriminalità e radicalizzazione. La sicurezza non è repressione: è selezione razionale.
All’interno del dossier trova spazio anche una riflessione sul ruolo della protezione complementare, che oggi rappresenta un vero laboratorio italiano. Quando l’Amministrazione valuta correttamente l’integrazione lavorativa, linguistica e sociale, lo Stato è in grado di stabilizzare chi merita e di evitare che persone pienamente integrate scivolino verso l’irregolarità per errori amministrativi o ritardi procedurali. Un sistema che integra chi rispetta le regole è un sistema che riduce il rischio e rafforza la sicurezza.
In definitiva, questo dossier non si limita a proporre un’analisi: mette sul tavolo un metodo. Un metodo che permette allo Stato di passare dall’immobilismo decisionale a un processo trasparente, prevedibile e coerente con l’interesse nazionale. Integrazione o ReImmigrazione non è un compromesso, né una formula politica.
È una struttura concettuale che può ridare stabilità a un settore da troppo tempo lasciato alla casualità.
L’Italia ha bisogno di criteri. Ha bisogno di una linea chiara. Ha bisogno di un paradigma che unisca integrazione e sicurezza in un unico schema logico.
Questo dossier è un passo in quella direzione.
Lobbista Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
La vicenda del nuovo sondaggio francese, balzato alle cronache con percentuali allarmanti sulla preferenza per la Sharia tra i giovani musulmani, è più di un fatto di attualità.
È un campanello d’allarme sullo stato dell’integrazione in Europa e sul prezzo che si paga quando uno Stato rinuncia a esercitare, con chiarezza e continuità, il proprio ruolo formativo, culturale e civico.
Secondo quanto riportato da CNEWS, oltre la metà degli intervistati nella fascia 15-24 anni considererebbe la Sharia superiore alle leggi della Repubblica.
È un dato che impressiona non soltanto per la percentuale, ma per ciò che rivela: una parte rilevante della seconda generazione, nata e cresciuta in Europa, percepisce l’ordinamento giuridico del Paese in cui vive come secondario rispetto a un codice religioso.
È un segnale evidente di una frattura interna che nessuna società occidentale può permettersi di ignorare.
La Francia è stata a lungo considerata un laboratorio avanzato di integrazione. Il modello repubblicano, astratto e universalista, presupponeva che bastasse l’uguaglianza formale davanti alla legge per costruire coesione sociale. Ma quell’assunto si è dimostrato insufficiente. Le banlieue hanno generato spazi paralleli, la formazione civica è stata percepita più come imposizione che come appartenenza, e la sinistra culturale ha sistematicamente evitato di affrontare il tema della compatibilità tra identità religiose e valori repubblicani.
Si è preferito negare il problema, evocare stereotipi antirazzisti e rimuovere ogni conflitto potenziale, mentre sul territorio prendevano forma comunità sempre più impermeabili al resto della società.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se una parte dei giovani musulmani francesi non riconosce la supremazia dell’ordinamento statale, non è perché sia “intrinsecamente radicale”, ma perché nessuno ha preteso da loro un reale processo di integrazione. Nessuno ha chiesto e verificato l’acquisizione dei valori fondamentali della Repubblica.
Nessuno ha sostenuto, con autorevolezza e continuità, la superiorità del diritto positivo sul diritto religioso, come principio necessario per vivere in una democrazia moderna.
Il fondamentalismo cresce sempre dove lo Stato arretra. E l’arretramento francese è stato culturale prima ancora che politico: si è rinunciato a difendere il proprio modello, a trasmettere il proprio patrimonio giuridico e a far valere la propria identità. In questa dinamica, ciò che appare come un problema religioso è in realtà un problema di integrazione fallita.
Per l’Italia e per l’intera Unione Europea, il caso francese deve essere un monito. Le società che non chiedono integrazione, finiscono per impostare la convivenza su appartenenze separate. Le società che non chiedono rispetto delle regole, producono territori sottratti all’ordinamento. Le società che non pretendono lealtà costituzionale, si trovano di fronte generazioni che non riconoscono l’autorità dello Stato.
È qui che il paradigma Integrazione o ReImmigrazionetrova la sua ragion d’essere: non esiste neutralità possibile. O si integrano realmente i cittadini stranieri e le seconde generazioni – attraverso lavoro, lingua e rispetto delle norme – oppure si accetta la nascita di segmenti sociali autoregolati, dove la legge formale non è più il riferimento principale.
L’alternativa non è tra accoglienza e chiusura, ma tra Stato e non-Stato. Tra ordine giuridico e frammentazione. Tra un modello di integrazione serio e credibile, e un modello di sopravvivenza civile che prima o poi implode.
La Francia sta pagando il prezzo del proprio ritardo. L’Italia ha ancora il margine per evitarlo. Ma solo se sceglierà con decisione la strada che per troppo tempo ha esitato a imboccare: chiedere integrazione, verificarla, pretenderla, e applicare coerentemente – nei casi in cui l’integrazione non c’è – il paradigma della ReImmigrazione.
L’intervento pubblico con cui Donald J. Trump ha dichiarato che “solo la Reverse Migration può risolvere la situazione” non è una semplice uscita polemica né un gesto retorico legato alla polarizzazione interna. È, al contrario, una presa di posizione organica che definisce un nuovo paradigma della politica migratoria occidentale. Il contenuto del messaggio indica un evidente cambio di passo: dal controllo dei flussi in ingresso alla riorganizzazione della popolazione straniera già presente sul territorio. Un passaggio concettuale che l’Europa discute da anni senza mai esplicitarlo fino in fondo.
Il dato politico è chiaro. Nel messaggio, Trump individua quattro direttrici che si intrecciano: la sospensione permanente dell’immigrazione dai Paesi del cosiddetto Terzo Mondo; la revoca delle ammissioni concesse durante l’Amministrazione Biden; l’allontanamento di chi non rappresenta un “asset netto” per la società americana; e la possibilità di denaturalizzare coloro che minacciano la stabilità interna. È proprio la combinazione di queste misure a segnare un mutamento di schema: non più una gestione fondata sull’apertura controllata, ma una politica selettiva rivolta anche a chi è già integrato nel ciclo amministrativo statunitense.
La categoria nuova è la “compatibilità”. Trump la evoca esplicitamente quando afferma che dovrà essere espulso chi non è compatibile con la civiltà occidentale. È un criterio politico, sociale e culturale, che supera la mera valutazione giuridica della regolarità del soggiorno. In questo senso, la dichiarazione di Trump si inserisce in una tendenza che sta emergendo in molte giurisdizioni: l’idea che la permanenza dello straniero non sia automatica né incondizionata, ma subordinata alla capacità di contribuire alla comunità, rispettarne le regole e condividerne i valori.
Da un punto di vista sistemico, è significativo che il tema della sicurezza non sia trattato come emergenza temporanea ma come struttura permanente del modello migratorio. L’attacco avvenuto a Washington nelle ore precedenti ha sicuramente accelerato la tempistica, ma la strategia che emerge dal messaggio non è di impulso emotivo: è un’impostazione che mira a ripensare il rapporto tra ingresso, integrazione e permanenza, collocando la “Reverse Migration” — il rientro regolato verso i Paesi d’origine — al centro dell’architettura normativa.
Questo approccio introduce due elementi di riflessione che non possono essere ignorati. Il primo è il ritorno dell’utilità sociale come parametro di valutazione del soggiorno. Il secondo è la considerazione del percorso migratorio come un processo condizionato: l’immigrazione non è più vista come una traiettoria irreversibile, ma come una condizione revocabile in base al comportamento individuale e all’impatto sulla sicurezza collettiva.
A livello internazionale, la presa di posizione di Trump avrà un effetto di trascinamento. I sistemi giuridici occidentali stanno già mostrando segni di saturazione, soprattutto nei modelli fondati su protezioni ampie e automatismi procedurali. L’esperienza italiana degli ultimi anni, con il dibattito sulla protezione complementare e sulle forme di soggiorno legate all’integrazione effettiva, dimostra che gli Stati sono alla ricerca di soluzioni che bilancino diritti individuali e stabilità sociale. Il concetto di “Reverse Migration”, nella sua formulazione americana, offre una sintesi che molti governi europei guarderanno con attenzione.
Si apre dunque una nuova fase. L’Occidente entrerà sempre più in una stagione in cui la distinzione decisiva non sarà tra migrante regolare e irregolare, ma tra chi è in grado di integrarsi nel tessuto sociale e chi non lo è. La postura americana anticipa un ciclo in cui l’integrazione diventa un obbligo giuridico e sociale, non un’opzione volontaria. È la conferma che il vecchio modello — fondato sull’ingresso esteso e sulla permanenza automatica — non è più in grado di reggere l’urto della realtà geopolitica, demografica e securitaria.
In questo scenario, la dichiarazione “Only Reverse Migration” segna l’inizio di una fase storica. E rappresenta, inevitabilmente, un precedente politico che rimodellerà il discorso europeo nei prossimi anni. Le categorie di utilità, compatibilità e sicurezza — oggi al centro del dibattito americano — diventeranno presto il baricentro anche delle politiche migratorie dell’Unione Europea. Non sarà un processo immediato, ma è un movimento già in atto.
La vera domanda, ora, non è se questo paradigma emergerà, ma come le democrazie occidentali sapranno strutturarlo garantendo equilibrio, certezza del diritto e coesione sociale.
Avv. Fabio Loscerbo Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea ID 280782895721-36
Il caso dell’Imam Mohamed Shahin, esploso nelle ultime settimane a Torino, non è un episodio isolato né un cortocircuito improvviso.
È, piuttosto, la manifestazione più evidente di un modello di integrazione che per anni abbiamo considerato sufficiente solo perché non produceva rumore.
Un modello “soft”, privo di criteri verificabili, costruito sull’idea che la convivenza si potesse garantire semplicemente evitando di chiedere troppo.
Un modello che oggi mostra, senza più possibilità di negazione, tutti i suoi limiti.
L’integrazione, quando è pensata come un atto di gentilezza unilaterale dello Stato, finisce inevitabilmente per trasformarsi in una gestione passiva.
Non si valuta l’effettiva adesione ai valori costituzionali, non si controlla ciò che accade nei luoghi di culto, non si misurano i segnali di disagio o radicalizzazione.
Si dà per scontato che tutto proceda bene finché non esplode un caso che costringe l’opinione pubblica e le istituzioni a guardare ciò che per anni è rimasto fuori fuoco.
Il percorso dell’imam Shahin rientra precisamente in questo schema. Presenza ultraventennale in Italia, riconoscimento pubblico come guida religiosa, rapporti consolidati con reti associative e comunitarie.
Eppure, tutto questo tempo non è bastato a costruire un quadro chiaro sulla sua reale posizione valoriale nei confronti dello Stato italiano. I segnali di radicalità sono affiorati in modo discontinuo, gestiti senza un vero sistema di monitoraggio e affrontati solo quando le sue dichiarazioni sulla Palestina hanno travolto la narrazione rassicurante del “problema che non c’è”.
È proprio qui che il paradigma dell’integrazione “soft” mostra la sua fragilità strutturale: confonde l’assenza di conflitto con il successo. Non coglie le dinamiche sotterranee. Non pone obblighi precisi né verifica quelli già esistenti. Trasforma l’integrazione da processo reale in un atto formale, privo di responsabilità reciproca.
Il risultato è che lo Stato interviene tardi, quando il danno è già evidente, e spesso con strumenti emergenziali.
Il caso Shahin rivela, in realtà, che abbiamo rinunciato per anni a definire cosa significhi davvero “essere integrati”.
Abbiamo tollerato una zona grigia in cui chiunque poteva vivere, predicare, diffondere idee potenzialmente incompatibili con l’ordinamento senza che nessuno si chiedesse se quel percorso rispecchiasse le condizioni necessarie per permanere stabilmente sul territorio nazionale.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce esattamente per colmare questo vuoto. Non propone soluzioni drastiche, ma criteri certi. Non si limita a gestire l’immigrazione come un fenomeno economico, ma la considera un processo di responsabilità reciproca. Chiede che l’integrazione diventi un obbligo misurabile, non una fiducia generica. E stabilisce che chi rifiuta questo percorso, o lo ostacola, deve essere indirizzato verso un ritorno ordinato e rispettoso, senza zone opache o impunità culturale.
Il caso Shahin ci ricorda che la sicurezza nazionale e la coesione sociale non si difendono con reazioni sporadiche. Si difendono con un metodo. Serve passare da un modello basato sulla speranza a uno basato sulla verifica. Da un modello permissivo a uno esigente. Da un’idea di integrazione “che prima o poi succederà” a un paradigma in cui lo Stato conosce, controlla e valuta.
Se l’Italia vuole davvero garantire convivenza, prevenzione dei radicalismi e tutela dei propri valori costituzionali, non può più permettersi un’integrazione morbida e discontinua. Il caso Shahin non è la causa del problema: è la lente che permette finalmente di vederlo. Ora sta al Paese decidere se continuare con un modello che non protegge più nessuno, o se adottare un approccio capace di guardare al futuro con lucidità, rigore e responsabilità.
Avv. Fabio Loscerbo Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
La decisione del Tribunale di Bologna del 17 ottobre 2025 (R.G. 12832/2024) consente di cogliere una dinamica spesso trascurata nel dibattito pubblico: il diritto italiano tutela l’integrazione autentica, ma proprio questa centralità dell’integrazione rende necessaria la definizione di un modello ordinato di ReImmigrazione per coloro che non instaurano alcun percorso significativo nel nostro Paese.
La protezione complementare, letta nella sua evoluzione normativa e giurisprudenziale, mostra chiaramente come il sistema distingua già oggi tra chi partecipa alla vita sociale italiana e chi rimane ai margini.
È una distinzione che funziona sul piano della tutela, ma che necessita di un corrispettivo speculare sul piano del governo dei flussi.
1. La decisione e il suo significato sistemico Il provvedimento del Tribunale di Bologna, che ha riconosciuto la protezione complementare a un cittadino stabilmente presente in Italia da oltre un decennio, conferma la centralità del parametro dell’integrazione.
L’autorità giudiziaria ha rilevato la presenza di una rete familiare consolidata, un percorso lavorativo continuativo, una conoscenza adeguata della lingua e un grado di autosufficienza che rendeva sproporzionato l’allontanamento.
Si tratta di una lettura coerente con l’art. 19 del Testo Unico Immigrazione, nella formulazione introdotta dal decreto-legge n. 130 del 2020, che non si limita a richiamare formalmente l’art. 8 CEDU ma ne recepisce la logica sostanziale, fondata sulla tutela della vita privata e familiare quale insieme di relazioni radicate sul territorio. La sentenza non introduce elementi di novità, ma fotografa con chiarezza il funzionamento attuale del sistema: l’Italia riconosce diritti aggiuntivi solo quando la persona dimostra, attraverso comportamenti verificabili, di avere costruito una vita reale nel Paese ospitante.
Il tribunale, nel caso di specie, non fa che applicare in maniera lineare questa impostazione.
2. L’aspetto trascurato: un sistema che premial’integrazione richiede, per coerenza, un modello di ReImmigrazione Il punto decisivo non risiede nella tutela concessa al ricorrente, bensì nell’implicazione che deriva da questa tutela.
Se il sistema riconosce che l’integrazione costituisce un limite sostanziale all’allontanamento, allora deve assumere un assetto altrettanto chiaro per i casi in cui tale integrazione non esiste.
Un ordinamento che valorizza percorsi autentici di inclusione sociale non può rimanere indeterminato di fronte a situazioni in cui il radicamento è assente o inesistente.
La discrezionalità, in questi casi, genera contraddizioni e produce spazi di marginalità che né la società né la persona interessata sono in grado di sostenere. La sentenza del Tribunale di Bologna è, da questo punto di vista, illuminante perché mostra che il nostro diritto si fonda su criteri oggettivi, verificabili e non ideologici. Il lavoro regolare, la vita familiare stabile, l’autonomia abitativa e la partecipazione alla società sono indicatori che il diritto riconosce e tutela.
Ciò significa, però, che la permanenza in Italia non può essere priva di condizioni e che la mancanza di un percorso di integrazione non può essere considerata un elemento neutro.
La protezione complementare funziona perché si rivolge a un profilo specifico di persone; ma proprio per questo evidenzia che l’ordinamento non dispone ancora di un quadro altrettanto definito per i casi opposti. Ed è qui che si comprende la necessità istituzionale della ReImmigrazione come politica pubblica.
Se il diritto premia l’integrazione, deve prevedere anche un percorso ordinato di rientro per chi non intende o non riesce a integrarsi. Non per ragioni punitive, ma per coerenza strutturale. La sentenza meticolosamente ricostruisce gli elementi dell’integrazione positiva. Resta tuttavia irrisolta la domanda speculare: che cosa accade quando tali elementi non sussistono?
3. Un ordinamento che evolve verso un binario duale: integrazione verificabile e rientro regolato Il quadro europeo si sta già muovendo in questa direzione. Paesi come il Regno Unito, la Danimarca e l’Olanda stanno definendo modelli in cui l’integrazione è concepita come un dovere e non come un’opzione, con un corrispettivo di rientro assistito o imposto nei casi di mancato inserimento. L’Italia, attraverso pronunce come quella del Tribunale di Bologna, ha chiaramente consolidato la prima metà del modello; manca però un completamento sul piano istituzionale, amministrativo e normativo. La sentenza dimostra che il diritto ha già definito gli indicatori dell’integrazione, individuando comportamenti che legittimano la permanenza.
È logico, sul piano sistemico, che tali indicatori possano anche definire i limiti oltre i quali la permanenza non è più giustificata.
La ReImmigrazione, in questo senso, non è un concetto ideologico, ma la naturale evoluzione di un sistema che ha ormai codificato la tutela dell’integrazione e che deve stabilire, per equilibrio interno, il destino delle situazioni in cui tale tutela non trova applicazione.
4. Conclusioni La decisione del Tribunale di Bologna non solo ribadisce la protezione complementare per chi ha costruito una vita autentica in Italia, ma mostra, in maniera altrettanto significativa, la necessità di definire una cornice normativa e amministrativa di ReImmigrazione per tutte quelle situazioni che non rientrano nei parametri dell’integrazione.
Un sistema che riconosce diritti sulla base di comportamenti oggettivi non può lasciare indeterminate le conseguenze per chi tali comportamenti non li realizza. La coerenza dell’ordinamento, la tutela della società ospitante e la credibilità delle politiche migratorie richiedono un modello che unisca le due dimensioni: protezione per chi si integra, ReImmigrazione per chi resta estraneo ai valori, alle regole e alle dinamiche della comunità nazionale.
La sentenza, senza dirlo esplicitamente, indica proprio questa direzione.
Avv. Fabio Loscerbo Lobbista – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36
C’è un paradosso che attraversa ormai stabilmente il diritto dell’immigrazione e che raramente viene detto in modo netto: lo Stato pretende integrazione, ma spesso è il primo a renderla giuridicamente impossibile. Non per una scelta politica dichiarata, ma per una disfunzione amministrativa strutturale. È una contraddizione che mina alla radice la credibilità delle regole e… Leggi tutto: ReImmigrazione e legalità: perché le regole devono funzionare per tutti
Nelle democrazie occidentali il percorso che conduce dal titolo di soggiorno alla cittadinanza è sempre più concepito come una traiettoria lineare, quasi automatica. Un tempo si trattava di un cammino esigente, scandito da verifiche sostanziali, fondato sull’idea che la permanenza stabile e, a maggior ragione, l’ingresso nella comunità politica richiedessero un progressivo e reale radicamento… Leggi tutto: Dal titolo di soggiorno alla cittadinanza: integrazione mancata e rischio sistemico
For years, immigration has been discussed almost exclusively through an economic lens. Migrants are described as “workers needed by the market,” as a demographic solution to aging societies and labor shortages. This approach, while seemingly pragmatic, is deeply flawed. It reduces a complex social and political phenomenon to a purely instrumental function, ignoring its long-term… Leggi tutto: Without Integration, the State Loses: ReImmigration — Not Remigration — Against the Economic Illusion
In Italia si continua a parlare di immigrazione come se fosse una questione umanitaria episodica, emergenziale, da gestire con interventi tampone e narrazioni rassicuranti. Ma la realtà è molto più dura, e soprattutto molto più strutturale. La mancanza di integrazione non è più un problema sociale marginale: è diventata un fattore diretto di conflitto interno… Leggi tutto: Italia, mancanza di integrazione e conflitto interno: una crisi di governabilità annunciata
Depuis plusieurs années, la question migratoire est abordée presque exclusivement sous un angle économiciste. L’immigration est présentée comme une réponse mécanique au vieillissement démographique et aux pénuries de main-d’œuvre, réduisant des trajectoires humaines complexes à de simples variables d’ajustement du marché du travail. Cette approche peut sembler pragmatique, mais elle est aujourd’hui profondément insuffisante et,… Leggi tutto: Sans intégration, l’État perd : la Ré-Immigration, et non la rémigration, contre l’illusion économiciste
Negli ultimi anni il fenomeno migratorio è stato quasi sempre affrontato attraverso una lente riduttiva: quella economicista. Una visione che legge l’immigrazione come una semplice risposta funzionale al calo demografico e alla carenza di manodopera, trattando le persone come fattori produttivi e i flussi come variabili di compensazione. È un approccio che può apparire pragmatico,… Leggi tutto: Senza integrazione lo Stato perde: ReImmigrazione, non remigrazione, contro l’illusione economicista
Welcome to a new episode of the podcast Integration or ReImmigration.My name is Fabio Loscerbo. I am an Italian lawyer and an EU-registered lobbyist working on immigration and asylum law. Today I would like to address a question that is increasingly central in the United Kingdom, yet often framed in overly simple terms: is the… Leggi tutto: Beyond Removal: When the Right to Remain Becomes Conditional
Welcome to a new episode of the podcast Integration or ReImmigration.My name is Fabio Loscerbo. I am an Italian attorney and an EU-registered lobbyist working on migration and asylum law. Today I want to speak directly to an American audience about an idea that is often missing from the U.S. immigration debate: the idea that… Leggi tutto: The Right to Stay Is Not Automatic: Inside the Logic of Conditional Residence
La recente vicenda che ha portato all’arresto di Hannoun, figura nota dell’attivismo pro-palestinese in Italia, come ricostruita da diverse testate nazionali, pone una questione che va ben oltre la rilevanza penale delle singole condotte contestate. I fatti sono noti e documentati: secondo l’inchiesta, Hannoun sarebbe inserito in una rete di raccolta fondi ritenuta dagli inquirenti… Leggi tutto: Oltre la responsabilità penale: il problema della compatibilità con lo Stato
Willkommen zu einer neuen Folge des Podcasts Integration oder ReImmigration.Mein Name ist Fabio Loscerbo. Ich bin italienischer Rechtsanwalt und bei der Europäischen Union registrierter Lobbyist im Bereich Migrations- und Asylrecht. Heute möchte ich mich direkt an ein deutsches Publikum wenden und eine Frage aufgreifen, die im deutschen Aufenthaltsrecht zunehmend an Bedeutung gewinnt: Ist das Bleiberecht… Leggi tutto: Jenseits der Abschiebung: Wenn das Bleiberecht bedingt wird
Comunicato – Pubblicazione del libro su Amazon È disponibile su Amazon il volume Integrazione o ReImmigrazione: Sovranità, Responsabilità, Ritorno, a firma di Avv. Fabio Loscerbo, avvocato del Foro di Bologna ed esperto in diritto dell’immigrazione. L’opera propone un’analisi giuridica strutturata delle politiche migratorie contemporanee, muovendo da un presupposto essenziale: l’ingresso e il soggiorno sul territorio… Leggi tutto: È disponibile su Amazon il volume Integrazione o ReImmigrazione: Sovranità, Responsabilità, Ritorno
Benvenuti a un nuovo episodio del podcast “Integrazione o ReImmigrazione”. Nel precedente episodio abbiamo chiarito perché il sistema binario fondato esclusivamente su asilo e protezione internazionale non sia più in grado di governare la complessità delle migrazioni contemporanee. Oggi entriamo nel cuore di quella zona intermedia che il diritto, per molto tempo, ha faticato a… Leggi tutto: La protezione complementare: tutela senza stabilizzazione automatica
Welcome to a new episode of the podcast Integration or ReImmigration.My name is Fabio Loscerbo, I am an Italian attorney, and in this episode I want to address a central issue in today’s immigration debate: the relationship between complementary protection and ReImmigration, in light of recent decisions by Italian courts. In recent years, the idea… Leggi tutto: Complementary Protection and ReImmigration: When Integration Becomes a Legal Criterion
Nelle democrazie occidentali la doppia cittadinanza è stata progressivamente normalizzata, fino a diventare un istituto dato per scontato. Presentata come strumento di inclusione e modernizzazione, è stata raramente interrogata nei suoi effetti strutturali sul rapporto tra individuo e Stato. Eppure, se osservata senza filtri ideologici, la doppia cittadinanza solleva una questione centrale: a chi appartiene… Leggi tutto: Doppia cittadinanza e lealtà divisa: un altro punto cieco delle democrazie occidentali
La giurisprudenza amministrativa continua a ricordare, con una chiarezza che spesso manca nel dibattito pubblico, che la permanenza dello straniero sul territorio nazionale non è un diritto incondizionato, ma il risultato di un equilibrio delicato tra interessi individuali e beni collettivi primari. La sentenza del TAR Lazio del 2025, intervenuta su un provvedimento di espulsione… Leggi tutto: ReImmigrazione come difesa costituzionale: sicurezza nazionale prima dell’integrazione apparente
Bienvenidos a un nuevo episodio del podcast Integración o ReInmigración.Mi nombre es Fabio Loscerbo, soy abogado en Italia, y en este episodio quiero abordar un tema central en el debate actual sobre inmigración: la relación entre la protección complementaria y la ReInmigración, a la luz de las decisiones más recientes de los tribunales italianos. En… Leggi tutto: Protección complementaria y ReInmigración: cuando la integración se convierte en un criterio jurídico
Nel dibattito pubblico e istituzionale italiano sull’immigrazione si continua a insistere su percezioni emergenziali o sull’idea che la soluzione si esaurisca nella sola accoglienza e integrazione. Ma chi governa la permanenza sul territorio, chi verifica nel tempo condizioni giuridiche e fattuali, chi decide in concreto chi resta, chi integra e chi viene rimesso in moto… Leggi tutto: Senza una polizia dell’immigrazione lo Stato abdica alla sovranità
Willkommen zu einer neuen Folge des Podcasts Integration oder ReImmigration.Mein Name ist Fabio Loscerbo, ich bin Rechtsanwalt in Italien, und in dieser Folge möchte ich ein zentrales Thema der aktuellen Migrationsdebatte behandeln: das Verhältnis zwischen komplementärem Schutz und ReImmigration im Lichte der jüngsten Entscheidungen der italienischen Gerichte. In den letzten Jahren hat sich die Vorstellung… Leggi tutto: Komplementärer Schutz und ReImmigration: Wenn Integration zum rechtlichen Kriterium wird
Il tema della sicurezza e dell’ordine pubblico rappresenta il punto cieco del dibattito europeo sull’immigrazione. Se ne parla solo in chiave emergenziale, quando l’allarme è già esploso, quando il fatto di cronaca impone una risposta immediata, spesso emotiva, quasi mai strutturale. Manca, invece, una riflessione di sistema che tenga insieme diritto, responsabilità e permanenza sul… Leggi tutto: Integrare non significa tollerare tutto: sicurezza e ReImmigrazione
In der deutschen Migrationsdebatte wird das Aufenthaltsrecht häufig entlang einer klaren administrativen Trennlinie diskutiert: auf der einen Seite der rechtmäßige Aufenthalt, auf der anderen Seite die Aufenthaltsbeendigung durch Abschiebung. Dieses Modell betont die Steuerungsfunktion des Staates und die Bedeutung des Vollzugs, wird jedoch zunehmend durch die gerichtliche Kontrolle und insbesondere durch das Verhältnismäßigkeitsprinzip relativiert. Aktuelle… Leggi tutto: Jenseits der Abschiebung: Die rechtliche Logik des bedingten Bleiberechts
Benvenuti a un nuovo episodio del podcast Integrazione o ReImmigrazione.Io sono l’avvocato Fabio Loscerbo e in questa puntata voglio affrontare un tema centrale nel dibattito attuale sull’immigrazione: il rapporto tra protezione complementare e ReImmigrazione, alla luce delle più recenti decisioni dei tribunali italiani. Negli ultimi anni si è diffusa l’idea che la protezione complementare rappresenti… Leggi tutto: Protezione complementare e ReImmigrazione: quando l’integrazione diventa un criterio giuridico
L’Europa contemporanea si muove dentro un paradosso che raramente viene esplicitato: pretende coesione sociale rinunciando a definire l’appartenenza. Nel lessico istituzionale europeo, la cittadinanza è diventata una nozione neutra, quasi tecnica, mentre l’integrazione è stata trasformata in un processo presunto, dato per acquisito, sottratto a qualsiasi verifica sostanziale. È qui che prende forma il fallimento… Leggi tutto: L’Europa post-nazionale e il fallimento dell’integrazione automatica
Titolo dell’episodio: Il laboratorio italiano: come la protezione complementare dimostra la validità del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”
Benvenuto a un nuovo episodio del podcast “Integrazione o ReImmigrazione”. Oggi voglio condividere una riflessione che nasce direttamente dall’osservazione della giurisprudenza italiana più recente, e in particolare da una decisione del Tribunale di Bologna che, senza alcuna enfasi ideologica, conferma in modo quasi chirurgico quanto il nostro paradigma sia ormai il punto di riferimento necessario per governare l’immigrazione con serietà, responsabilità e rispetto delle regole.
Il cuore della questione è semplice: l’Italia ha già un meccanismo che permette di distinguere in modo equilibrato tra chi dimostra un percorso reale di integrazione e chi, invece, non manifesta alcuna volontà di inserirsi nel tessuto sociale, culturale e lavorativo del Paese. Questo meccanismo si chiama protezione complementare. Ed è proprio questa forma di tutela, spesso sottovalutata nel dibattito pubblico, a mostrare come un ordinamento possa garantire diritti fondamentali senza rinunciare alla necessità di selezionare, con criteri oggettivi, chi merita di restare.
La decisione del Tribunale di Bologna lo evidenzia in modo cristallino: il giudice non si limita a verificare se nel Paese d’origine esista un rischio generalizzato, ma valuta la vita costruita in Italia, la rete di relazioni, la stabilità lavorativa, l’affidabilità sociale, la presenza di figli integrati nelle scuole, la capacità di contribuire al territorio. Non esiste un automatismo. Non esiste un diritto presunto a restare. Esiste un principio molto più serio: la permanenza in Italia si giustifica se la vita privata e familiare radicata sul territorio è autentica, solida, verificabile.
Questo modo di ragionare è esattamente ciò che propone “Integrazione o ReImmigrazione”: chi partecipa alla comunità, resta; chi non si integra, torna nel proprio Paese. Nessuna discriminazione. Nessuna indulgenza ingiustificata. Solo responsabilità.
Nell’episodio giudiziario esaminato, lo straniero presenta lavoro stabile, figli iscritti a scuola, un contratto di affitto, assenza di precedenti penali, una moglie occupata e un percorso di vita costruito passo dopo passo. È evidente che un ritorno forzato nel Paese d’origine romperebbe una rete di relazioni ormai consolidata. E infatti il Tribunale riconosce la protezione complementare proprio sulla base di questo radicamento. Ma lo fa con un dettaglio importante: la decisione non premia l’immobilismo. Premia lo sforzo.
Ecco perché questa forma di protezione è un laboratorio perfetto: non costringe l’Italia a tollerare chi non rispetta le regole, e allo stesso tempo tutela chi ha costruito qui la propria identità sociale. Si tratta di un equilibrio che molti Paesi europei non sono ancora riusciti a raggiungere. E invece la giurisprudenza italiana sta già tracciando la strada, senza slogan, senza estremismi, applicando la legge e la Costituzione.
Oggi, più che mai, questo approccio dovrebbe essere guardato come un punto di riferimento anche a livello europeo. Perché se l’immigrazione continuerà a crescere, e continuerà, l’unica risposta seria è un sistema capace di selezionare in base all’integrazione, non in base all’emergenza. La protezione complementare dimostra che questo è possibile, che esiste già uno strumento che funziona e che permette di distinguere con chiarezza tra chi contribuisce alla società e chi non lo fa.
Ed è per questo che, ancora una volta, emerge la centralità del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: una visione semplice, concreta, che valorizza lo sforzo, premia la responsabilità e restituisce dignità tanto allo Stato quanto alle persone che scelgono di costruire la propria vita in Italia.
Grazie per aver ascoltato questo episodio. Ci sentiamo nel prossimo appuntamento del podcast “Integrazione o ReImmigrazione”.
Titre : Le laboratoire italien : comment la protection complémentaire démontre la validité du paradigme “Intégration ou RéImmigration”
Bienvenue dans un nouvel épisode du podcast « Intégration ou RéImmigration ». Aujourd’hui, je souhaite partager une réflexion qui naît directement de la jurisprudence italienne la plus récente. Une décision du Tribunal de Bologne montre, avec une précision quasi chirurgicale et sans aucune charge idéologique, pourquoi notre paradigme devient progressivement le point de référence indispensable pour gérer l’immigration avec sérieux, responsabilité et respect des règles.
L’essentiel est très simple : l’Italie dispose déjà d’un mécanisme juridique capable de distinguer, de manière équilibrée et objective, entre ceux qui s’intègrent réellement dans la société et ceux qui n’en montrent aucune volonté. Ce mécanisme s’appelle protection complémentaire. Et c’est précisément cette forme de protection — souvent sous-estimée dans le débat public — qui démontre comment un système juridique peut garantir les droits fondamentaux tout en conservant la capacité d’évaluer, selon des critères concrets, qui mérite de rester dans le pays.
La décision du Tribunal de Bologne l’illustre parfaitement. Le juge ne se limite pas à examiner s’il existe un risque généralisé dans le pays d’origine. Il évalue la vie construite en Italie : le travail, les relations sociales, la stabilité familiale, l’intégration scolaire des enfants, le logement et la conduite personnelle. Il n’existe aucun droit automatique à rester. Aucune présomption. Il existe un principe beaucoup plus sérieux : la personne peut demeurer en Italie lorsque sa vie privée et familiale sur le territoire est authentique, stable et objectivement vérifiable.
Cette approche correspond exactement à ce que propose « Intégration ou RéImmigration » : ceux qui participent à la communauté restent ; ceux qui ne s’intègrent pas retournent dans leur pays d’origine. Sans discrimination. Sans indulgence injustifiée. Simplement avec responsabilité.
Dans le cas examiné par le tribunal, la personne étrangère avait un emploi stable, des enfants scolarisés, un contrat de location, aucun antécédent pénal, une épouse employée et une vie construite pas à pas en Italie. La renvoyer dans son pays d’origine aurait brisé un réseau de relations profondément enraciné. Et en effet, le Tribunal a accordé la protection complémentaire précisément en raison de ce radicement démontré. Mais — et c’est essentiel — la décision ne récompense pas l’inertie. Elle récompense l’effort.
C’est pour cette raison que la protection complémentaire constitue un laboratoire parfait : elle n’oblige pas l’Italie à tolérer ceux qui ne respectent pas les règles et protège en même temps ceux qui ont construit ici leur identité sociale. C’est une solution équilibrée que de nombreux pays européens n’ont pas encore atteinte. La jurisprudence italienne, elle, montre déjà la voie — sans slogans, sans extrémisme, en appliquant la loi et la Constitution.
Aujourd’hui plus que jamais, cette approche devrait être considérée comme un modèle au niveau européen. Car si les flux migratoires continueront d’augmenter — et ils augmenteront — la seule réponse crédible est un système capable de sélectionner sur la base de l’intégration, et non de l’urgence. La protection complémentaire démontre que cela est possible. C’est un mécanisme qui fonctionne déjà et qui permet de distinguer clairement entre ceux qui contribuent à la société et ceux qui ne le font pas.
Et c’est pourquoi, une fois de plus, la centralité du paradigme « Intégration ou RéImmigration » apparaît avec évidence : une vision simple et concrète qui valorise l’effort individuel, promeut la responsabilité et redonne de la dignité tant à l’État qu’aux personnes qui choisissent de construire leur vie en Italie.
Merci d’avoir écouté cet épisode. On se retrouve dans le prochain épisode du podcast « Intégration ou RéImmigration ».
Título: El laboratorio italiano: cómo la protección complementaria demuestra la validez del paradigma “Integración o ReInmigración”
Bienvenido a un nuevo episodio del pódcast “Integración o ReInmigración”. Hoy quiero compartir una reflexión que nace directamente de la jurisprudencia italiana más reciente. En particular, una decisión del Tribunal de Bolonia muestra, con precisión quirúrgica y sin ninguna carga ideológica, por qué nuestro paradigma se está convirtiendo en el punto de referencia necesario para gestionar la inmigración con seriedad, responsabilidad y respeto por las normas.
El núcleo del asunto es muy sencillo: Italia ya dispone de un mecanismo jurídico capaz de distinguir, de manera equilibrada y objetiva, entre quienes realmente están integrándose en la sociedad y quienes no muestran ninguna intención de hacerlo. Este mecanismo se llama protección complementaria. Y es precisamente esta forma de protección —a menudo ignorada en el debate público— la que demuestra cómo un ordenamiento puede garantizar derechos fundamentales sin renunciar a evaluar, con criterios concretos, quién merece permanecer en el país.
La decisión de Bolonia lo deja muy claro. El juez no se limita a analizar si existe un riesgo generalizado en el país de origen. Evalúa la vida construida en Italia: el trabajo, las relaciones sociales, la estabilidad familiar, la integración escolar de los hijos, la vivienda y la conducta personal. No existe un derecho automático a quedarse. No existe ninguna presunción. Existe un principio mucho más serio: el derecho a permanecer en Italia cuando la vida privada y familiar en el territorio es auténtica, estable y objetivamente verificable.
Este enfoque coincide exactamente con lo que propone “Integración o ReInmigración”: quien participa en la comunidad se queda; quien no se integra regresa a su país de origen. Sin discriminación. Sin indulgencias injustificadas. Solo responsabilidad.
En el caso examinado por el tribunal, la persona extranjera tenía un empleo estable, hijos escolarizados, un contrato de alquiler, ningún antecedente penal, una esposa empleada y una vida construida paso a paso en Italia. Obligarle a regresar habría roto una red de relaciones profundamente arraigada. Y, de hecho, el Tribunal reconoció la protección complementaria precisamente por este radicamiento demostrado. Pero —y esto es esencial— la decisión no premia la pasividad. Premia el esfuerzo.
Por eso la protección complementaria es el laboratorio perfecto: no obliga a Italia a tolerar a quienes no respetan las reglas y, al mismo tiempo, protege a quienes han construido aquí su identidad social. Es una solución equilibrada que muchos países europeos aún no han conseguido. La jurisprudencia italiana, en cambio, ya está marcando el camino: sin eslóganes, sin extremismos, aplicando la ley y la Constitución.
Hoy, más que nunca, este enfoque debería considerarse un modelo a nivel europeo. Porque si la inmigración seguirá aumentando —y seguirá—, la única respuesta seria es un sistema capaz de seleccionar en función de la integración, no de la emergencia. La protección complementaria demuestra que esto es posible. Es un mecanismo que ya funciona y que permite distinguir con claridad entre quienes aportan a la sociedad y quienes no.
Y por eso, una vez más, emerge con fuerza la centralidad del paradigma “Integración o ReInmigración”: una visión simple y concreta que recompensa el esfuerzo personal, promueve la responsabilidad y devuelve dignidad tanto al Estado como a las personas que eligen construir su vida en Italia.
Gracias por escuchar este episodio. Nos encontramos en el próximo capítulo del pódcast “Integración o ReInmigración”.
Title: The Italian Laboratory: How Complementary Protection Proves the Validity of the “Integration or ReImmigration” Paradigm
Welcome to a new episode of the “Integration or ReImmigration” podcast. Today I want to share a reflection that comes directly from the most recent Italian jurisprudence. In particular, a decision issued by the Tribunal of Bologna shows, with surgical precision and without ideological overtones, why our paradigm is increasingly becoming the necessary reference point for managing immigration with seriousness, responsibility, and respect for the rules.
At the heart of the matter is something very simple: Italy already has a legal mechanism that distinguishes, in a balanced and objective way, between those who are genuinely integrating into society and those who show no intention of doing so. This mechanism is called complementary protection. And it is precisely this form of protection—often ignored in public debate—that demonstrates how a legal system can safeguard fundamental rights while maintaining the ability to assess, using concrete criteria, who has earned the right to remain.
The Bologna decision makes this point very clearly. The judge does not merely examine whether there is a generalized risk in the country of origin. Instead, the court evaluates the life the individual has built in Italy: work, social relations, family stability, school integration of the children, housing, and personal conduct. There is no automatic right to stay. There is no presumption. There is a much more serious principle: the right to remain exists when a person’s private and family life in Italy is real, stable, and objectively verifiable.
This approach is exactly what “Integration or ReImmigration” proposes: those who participate in the community stay; those who do not integrate return to their home country. No discrimination. No unjustified leniency. Only responsibility.
In the case examined by the court, the foreign national had stable employment, children enrolled in school, a rental contract, no criminal record, a spouse with a job, and a life built step by step in Italy. Forcing him to return to his home country would have destroyed a network of relations deeply rooted in Italy. And indeed, the Tribunal granted complementary protection precisely because of this demonstrated integration. But—and this is essential—the decision does not reward passivity. It rewards effort.
This is why complementary protection is the perfect laboratory: it doesn’t force Italy to tolerate those who ignore the rules, and at the same time it protects those who have built their social identity here. It is a balanced solution that many European countries have not yet achieved. Italian jurisprudence, instead, is already showing the way—without slogans, without extremism, applying the law and the Constitution.
Today, more than ever, this approach should be seen as a model at the European level. Because if immigration flows continue to rise—and they will—the only serious response is a system capable of selecting based on integration, not based on emergency. Complementary protection proves that this is possible. It is a framework that already works and that allows us to distinguish clearly between those who contribute to society and those who do not.
And this is why, once again, the centrality of the “Integration or ReImmigration” paradigm emerges: a simple, concrete vision that rewards personal effort, promotes responsibility, and restores dignity both to the State and to the people who choose to build their future in Italy.
Thank you for listening to this episode. We’ll meet again in the next installment of the “Integration or ReImmigration” podcast.
Titel: Das italienische Labor: Wie der ergänzende Schutz die Gültigkeit des Paradigmas „Integration oder ReImmigration“ bestätigt
Willkommen zu einer neuen Folge des Podcasts „Integration oder ReImmigration“. Heute möchte ich einen Gedanken mit dir teilen, der direkt aus der jüngsten italienischen Rechtsprechung entsteht. Eine Entscheidung des Gerichts von Bologna zeigt mit nahezu chirurgischer Präzision – und ohne jede ideologische Aufladung –, warum unser Paradigma zunehmend zum notwendigen Bezugspunkt wird, um Migration ernsthaft, verantwortungsvoll und im Einklang mit den Regeln zu steuern.
Der Kern der Sache ist sehr einfach: Italien verfügt bereits über einen rechtlichen Mechanismus, der klar und ausgewogen zwischen Personen unterscheidet, die sich tatsächlich in die Gesellschaft integrieren, und solchen, die keinerlei Bereitschaft dazu zeigen. Dieser Mechanismus heißt ergänzender Schutz. Und gerade diese Schutzform – in der öffentlichen Debatte oft unterschätzt – zeigt, wie ein Rechtssystem Grundrechte sichern kann, ohne auf die Fähigkeit zu verzichten, anhand konkreter Kriterien zu entscheiden, wer das Recht hat, im Land zu bleiben.
Die Entscheidung des Gerichts von Bologna macht das sehr deutlich. Das Gericht prüft nicht nur, ob im Herkunftsland ein allgemeines Risiko besteht. Es bewertet das Leben, das die Person in Italien aufgebaut hat: die Arbeit, die sozialen Beziehungen, die familiäre Stabilität, die schulische Integration der Kinder, die Wohnsituation und das persönliche Verhalten. Es gibt kein automatisches Bleiberecht. Keine Vorannahmen. Es gibt ein viel ernsteres Prinzip: Eine Person darf in Italien bleiben, wenn ihr Privat- und Familienleben im Land authentisch, stabil und objektiv nachweisbar ist.
Dieser Ansatz entspricht genau dem, was „Integration oder ReImmigration“ fordert: Wer an der Gemeinschaft teilnimmt, bleibt; wer sich nicht integriert, kehrt in sein Herkunftsland zurück. Keine Diskriminierung. Keine ungerechtfertigte Nachsicht. Nur Verantwortung.
Im Fall, den das Gericht geprüft hat, verfügte die betroffene Person über eine stabile Beschäftigung, über Kinder, die die Schule besuchen, über einen Mietvertrag, über ein einwandfreies Führungszeugnis, über eine berufstätige Ehefrau und über ein Leben, das Schritt für Schritt in Italien aufgebaut wurde. Eine Rückführung hätte ein enges soziales Gefüge zerstört, das inzwischen tief verwurzelt war. Und genau aus diesem Grund hat das Gericht den ergänzenden Schutz gewährt. Doch – und das ist entscheidend – die Entscheidung belohnt keine Passivität. Sie belohnt die Anstrengung.
Deshalb ist der ergänzende Schutz das perfekte Labor: Er zwingt Italien nicht dazu, Personen zu dulden, die die Regeln nicht respektieren, und er schützt gleichzeitig diejenigen, die hier ihre soziale Identität aufgebaut haben. Es ist eine ausgewogene Lösung, die viele europäische Staaten noch nicht erreicht haben. Die italienische Rechtsprechung hingegen weist bereits den Weg – ohne Schlagworte, ohne Extreme, basierend auf Gesetz und Verfassung.
Mehr denn je sollte dieser Ansatz heute als Modell auf europäischer Ebene betrachtet werden. Denn wenn die Migrationsbewegungen weiter zunehmen – und das werden sie –, dann ist die einzige ernsthafte Antwort ein System, das anhand der Integration entscheidet und nicht anhand von Notlagen. Der ergänzende Schutz beweist, dass das möglich ist. Es ist ein Instrument, das bereits funktioniert und klar zwischen jenen unterscheidet, die zur Gesellschaft beitragen, und jenen, die es nicht tun.
Aus diesem Grund tritt die zentrale Bedeutung des Paradigmas „Integration oder ReImmigration“ erneut deutlich hervor: eine einfache, konkrete Vision, die individuelle Anstrengung belohnt, Verantwortung fördert und sowohl dem Staat als auch den Menschen, die ihr Leben in Italien aufbauen wollen, Würde zurückgibt.
Vielen Dank fürs Zuhören. Wir hören uns in der nächsten Folge des Podcasts „Integration oder ReImmigration“.
Titre : Le tabou de la sécurité : comment l’antiracisme empêche l’Italie de gouverner l’immigration
Bienvenue dans un nouvel épisode du podcast Intégration ou RéImmigration. Aujourd’hui, je veux expliquer une dynamique très particulière du débat italien sur l’immigration, une dynamique importante aussi pour ceux qui nous écoutent depuis l’étranger. Il ne s’agit pas seulement de statistiques ou de politique. Il s’agit de la manière dont, en Italie, la question de la sécurité disparaît souvent du débat public, parce qu’elle est immédiatement déplacée sur un terrain moral.
En Italie, il arrive très souvent que lorsqu’on tente de parler du lien entre immigration et sécurité, la discussion ne reste pas centrée sur les faits ou sur les données réelles. Elle se transforme rapidement en un jugement sur les intentions de celui qui parle. La question n’est plus : « quels sont les problèmes ? », mais plutôt : « pourquoi en parles-tu ? ». Ainsi, la sécurité cesse d’être un sujet normal de politique publique et devient un sujet suspect, presque interdit.
Ces derniers mois, cette dynamique est redevenue très visible. Plusieurs interventions dans les médias ont insisté sur l’idée que les inquiétudes concernant la sécurité seraient exagérées, déformées ou fondées sur des préjugés culturels. Mais cette approche produit un effet prévisible : elle empêche de traiter ce qui se passe réellement sur le terrain. Les difficultés des communes, les tensions sociales, les problèmes quotidiens de certains quartiers… tout cela est relégué au second plan. Le problème cesse d’être la réalité elle-même. Le problème devient la personne qui ose la décrire.
Pour un public international, cela peut sembler surprenant. Mais c’est exactement ce qui se passe. L’Italie ne rejette pas l’immigration. Elle est coincée dans une forme de paralysie. Une partie du débat public craint que parler de sécurité signifie automatiquement criminaliser les immigrés. Et cette confusion crée un dommage profond : l’analyse est prise pour de l’hostilité, et la responsabilité est confondue avec du préjugé.
Les conséquences sont très concrètes. Si l’État ne peut pas parler ouvertement des problèmes, il ne peut pas les résoudre. Il ne peut pas distinguer entre ceux qui s’intègrent et ceux qui ne s’intègrent pas. Il ne peut pas intervenir dans les zones où l’intégration échoue. Et surtout, il ne peut pas maintenir un équilibre clair entre droits et devoirs.
C’est ici qu’intervient le paradigme « Intégration ou RéImmigration ». Ce n’est pas un slogan politique. Ce n’est pas une position idéologique. C’est une méthode de gouvernance. Cela signifie que toute personne qui arrive en Italie doit suivre un parcours clair, mesurable et vérifiable. Un parcours fondé sur le travail, l’apprentissage de la langue et le respect des règles. Quand ce parcours fonctionne, la présence en Italie devient naturelle. Lorsqu’il échoue, cette présence ne peut pas devenir un droit automatique.
La RéImmigration n’est pas une punition. C’est la conséquence logique d’un système qui veut être cohérent et crédible. Un système qui évalue, distingue et décide. Un système qui n’a pas peur d’aborder la sécurité simplement parce que certains risquent d’accuser les autres de racisme.
Aujourd’hui, l’Italie ne dit pas « non » à l’immigration. Elle dit « non » à l’idée qu’on ne puisse pas en parler. Elle dit « non » au fait que les catégories morales remplacent l’analyse des faits. Et elle cherche à construire un modèle qui replace la réalité au centre du débat.
Le paradigme « Intégration ou RéImmigration » est né précisément pour cela. Il sert à redonner à la sécurité sa place dans la politique publique. Il permet à l’État de gouverner réellement les flux migratoires. Et il propose un équilibre durable, fondé sur les droits et les responsabilités — et non sur la peur ou le silence.
Je suis l’avocat Fabio Loscerbo, et je vous invite à lire davantage d’analyses et de contenus sur www.reimmigrazione.com.
Titolo: Il tabù della sicurezza: come l’antirazzismo impedisce all’Italia di governare l’immigrazione
Benvenuto a un nuovo episodio del podcast Integrazione o ReImmigrazione. In questa puntata voglio spiegare, anche a chi ci ascolta dall’estero, una dinamica molto particolare del dibattito italiano sull’immigrazione. Una dinamica che influisce profondamente sulla capacità del Paese di governare i flussi e di proteggere la sicurezza dei cittadini.
In Italia succede spesso questo: quando si prova a parlare del rapporto tra immigrazione e sicurezza, la discussione non rimane sui dati o sui fatti concreti. Si sposta subito sul piano morale. La domanda non diventa “quali sono i problemi?” ma “perché ne stai parlando?”. E, troppo spesso, il tema sicurezza viene interpretato come un segnale di ostilità verso gli stranieri, invece che come una normale questione di gestione pubblica.
Negli ultimi mesi questa dinamica è tornata evidente. Alcuni interventi molto diffusi sui media hanno insistito sull’idea che la sicurezza sia un tema “distorto”, legato a percezioni sbagliate o addirittura a retaggi culturali. È una lettura che, però, ha un effetto preciso: impedisce di affrontare ciò che accade davvero nei territori. Le difficoltà dei comuni, le tensioni sociali, i quartieri che vivono criticità quotidiane, finiscono sullo sfondo. Il problema non è più la realtà. Il problema diventa chi prova a descriverla.
Per un pubblico internazionale questo può sembrare sorprendente, ma è esattamente ciò che succede. Non siamo davanti a una guerra culturale. Siamo davanti a una forma di paralisi. Una parte del discorso pubblico teme che parlare di sicurezza significhi automaticamente discriminare gli immigrati. E così si crea una confusione dannosa: l’analisi viene scambiata per ostilità, la responsabilità viene scambiata per pregiudizio.
Questa confusione ha conseguenze concrete. Se lo Stato non può parlare apertamente dei problemi, non può nemmeno risolverli. Non può distinguere tra chi si integra e chi non lo fa. Non può intervenire nei territori dove l’accoglienza non funziona. E, soprattutto, non può garantire un equilibrio tra diritti e doveri.
È proprio qui che entra in gioco il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”. Non è uno slogan politico. Non è un discorso ideologico. È un metodo di governo. Significa che chi arriva in Italia deve seguire un percorso chiaro, misurabile e verificabile. Un percorso fatto di lavoro, impegno nella lingua e rispetto delle regole. Quando questo percorso funziona, la permanenza è naturale. Quando non funziona, la permanenza non può trasformarsi in un diritto automatico.
La ReImmigrazione non è una punizione. È la conseguenza logica di un sistema che vuole essere serio. Un sistema che distingue, valuta e decide. E che non si lascia paralizzare dalla paura di essere accusato di razzismo ogni volta che affronta il tema della sicurezza.
L’Italia oggi non rifiuta l’immigrazione. Rifiuta l’idea che non si possa parlarne. Rifiuta l’idea che le categorie morali sostituiscano l’analisi dei fatti. E sta cercando un modello che rimetta al centro la realtà, non le narrazioni.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce da questa esigenza. Serve per riportare la sicurezza nel campo della politica pubblica. Serve per restituire allo Stato la capacità di governare davvero i flussi migratori. E serve per costruire un equilibrio sostenibile, basato su diritti e doveri, non su paure e silenzi.
Io sono l’avvocato Fabio Loscerbo, e ti invito a leggere analisi, approfondimenti e dati aggiornati su www.reimmigrazione.com.
Title: The Security Taboo: How Anti-Racism Prevents Italy from Governing Immigration
Welcome to a new episode of Integration or ReImmigration. In this episode, I want to explain a dynamic that plays a major role in the Italian debate on immigration — a dynamic that international listeners need to understand in order to see what is really happening inside the country. It’s not just about statistics or political arguments. It’s about the way the issue of security is often removed from the public conversation by shifting everything onto a moral level.
In Italy, whenever someone tries to talk about the relationship between immigration and security, the discussion rarely stays focused on facts or data. It immediately moves toward judging the intentions of the speaker. The question becomes: “Why are you bringing this up? Are you suggesting something discriminatory?” As a result, security is no longer treated as a normal area of public policy. It becomes a suspicious topic — something you’re not supposed to touch.
Over the past months, this pattern has become very clear. Several public statements and media interventions have insisted on the idea that security concerns are exaggerated, distorted, or the product of cultural bias. This approach has one predictable effect: it makes it impossible to address what is actually happening on the ground. The challenges faced by local authorities, the tensions in certain neighborhoods, and the daily problems experienced by residents are pushed into the background. The issue is no longer the reality itself. The issue becomes the person who dares to describe it.
For an international audience, this may sound unusual. But this is exactly the point: Italy is not rejecting immigration. It is stuck in a form of paralysis. A part of the public debate is afraid that talking about security automatically means criminalizing immigrants. And this confusion creates a damaging overlap: analysis is mistaken for hostility, and responsibility is mistaken for prejudice.
This confusion has very real consequences. If the State cannot speak openly about problems, it cannot solve them. It cannot distinguish between people who integrate and people who do not. It cannot intervene in areas where integration is failing. And, above all, it cannot maintain a clear balance between rights and duties.
This is where the “Integration or ReImmigration” paradigm comes into play. It is not a political slogan. It is not an ideological stance. It is a method of governance. It means that anyone who comes to Italy must follow a clear, measurable, verifiable path. A path built on work, language learning, and respect for the rules. When this path succeeds, staying in Italy becomes natural. When it does not, staying cannot become an automatic right.
ReImmigration is not a punishment. It is the logical consequence of a system that wants to be coherent and credible. A system that evaluates, distinguishes, and decides. A system that is not afraid to address security just because someone might misuse the word “racism”.
Italy today is not rejecting immigration. It is rejecting the idea that immigration cannot be discussed. It is rejecting the idea that moral categories should replace factual analysis. And it is trying to build a model that puts reality back at the center of the conversation.
“Integration or ReImmigration” was created for this purpose. It helps return security to the field of public policy. It restores the State’s ability to actually govern migration flows. And it offers a sustainable balance based on rights and responsibilities — not silence and fear.
I’m attorney Fabio Loscerbo, and I invite you to read more analyses and insights at www.reimmigrazione.com.
Titel: Das Sicherheits-Tabu: Wie Antirassismus Italien daran hindert, die Migration zu steuern
Willkommen zu einer neuen Folge des Podcasts Integration oder ReImmigration. In dieser Episode möchte ich eine Dynamik erklären, die den italienischen Migrationsdiskurs stark beeinflusst – und die auch für internationale Zuhörer wichtig ist, um zu verstehen, was in Italien wirklich passiert. Es geht nicht nur um Statistiken oder Politik. Es geht darum, wie das Thema Sicherheit im öffentlichen Gespräch oft ausgeblendet wird, weil es sofort auf eine moralische Ebene verschoben wird.
In Italien passiert häufig Folgendes: Sobald jemand über das Verhältnis zwischen Migration und Sicherheit sprechen möchte, bleibt die Diskussion selten bei Fakten oder realen Daten. Sie verwandelt sich schnell in eine Bewertung der Absichten der Person, die spricht. Die Frage lautet nicht mehr: „Welche Probleme gibt es?“, sondern: „Warum redest du darüber?“. Damit wird Sicherheit nicht mehr als normales Thema der öffentlichen Politik angesehen, sondern als etwas Verdächtiges oder sogar Unangemessenes.
In den letzten Monaten ist diese Dynamik sehr deutlich geworden. Mehrere mediale Beiträge betonen, dass Sicherheitsbedenken übertrieben, verzerrt oder kulturell bedingt seien. Doch dieser Ansatz hat eine klare Folge: Er verhindert, dass man sich mit der tatsächlichen Situation vor Ort auseinandersetzt. Die Schwierigkeiten der Kommunen, soziale Spannungen und die Probleme bestimmter Stadtteile geraten in den Hintergrund. Das Problem ist nicht mehr die Realität selbst. Das Problem wird die Person, die es wagt, sie zu beschreiben.
Für ein internationales Publikum mag das überraschend klingen. Aber genau das geschieht in Italien. Das Land lehnt Migration nicht ab. Es steckt in einer Art Blockade fest. Ein Teil der öffentlichen Debatte fürchtet, dass jede Diskussion über Sicherheit automatisch bedeutet, Migranten zu kriminalisieren. Und diese Verwechslung richtet großen Schaden an: Analyse wird mit Feindseligkeit verwechselt, Verantwortung mit Vorurteil.
Die Folgen sind sehr konkret. Wenn der Staat nicht offen über Probleme sprechen kann, kann er sie auch nicht lösen. Er kann nicht unterscheiden, wer sich integriert und wer nicht. Er kann nicht in Regionen eingreifen, in denen Integration scheitert. Und vor allem kann er kein klares Gleichgewicht zwischen Rechten und Pflichten aufrechterhalten.
Hier kommt das Paradigma „Integration oder ReImmigration“ ins Spiel. Es ist kein politischer Slogan. Es ist keine ideologische Position. Es ist eine Methode des Regierens. Es bedeutet, dass jeder, der nach Italien kommt, einen klaren, messbaren und überprüfbaren Weg gehen muss. Einen Weg, der auf Arbeit, Spracherwerb und Respekt vor den Regeln basiert. Wenn dieser Weg funktioniert, wird der Aufenthalt selbstverständlich. Wenn er nicht funktioniert, kann der Aufenthalt kein automatisches Recht werden.
ReImmigration ist keine Strafe. Sie ist die logische Folge eines Systems, das glaubwürdig und konsequent sein möchte. Ein System, das bewertet, unterscheidet und entscheidet. Ein System, das keine Angst davor hat, über Sicherheit zu sprechen, nur weil manche das Wort „Rassismus“ missbrauchen könnten.
Italien sagt heute nicht „Nein“ zur Migration. Es sagt „Nein“ zu der Vorstellung, dass man darüber nicht sprechen darf. Es sagt „Nein“ dazu, moralische Kategorien an die Stelle der Analyse von Fakten zu setzen. Und es versucht, ein Modell zu schaffen, das die Realität wieder in den Mittelpunkt rückt.
Das Paradigma „Integration oder ReImmigration“ ist genau dafür entstanden. Es soll der Sicherheit wieder ihren Platz in der öffentlichen Politik geben. Es ermöglicht dem Staat, die Migrationsströme tatsächlich zu steuern. Und es schafft ein tragfähiges Gleichgewicht, das auf Rechten und Pflichten basiert – nicht auf Angst oder Schweigen.
Ich bin Rechtsanwalt Fabio Loscerbo und lade Sie ein, weitere Analysen und Beiträge auf www.reimmigrazione.com zu lesen.