Nelle democrazie occidentali il percorso che conduce dal titolo di soggiorno alla cittadinanza è sempre più concepito come una traiettoria lineare, quasi automatica. Un tempo si trattava di un cammino esigente, scandito da verifiche sostanziali, fondato sull’idea che la permanenza stabile e, a maggior ragione, l’ingresso nella comunità politica richiedessero un progressivo e reale radicamento nello Stato ospitante. Oggi, invece, quel percorso tende a ridursi a una sequenza di adempimenti amministrativi, in cui il dato formale prevale su quello sostanziale.
Il titolo di soggiorno, nato come strumento temporaneo e condizionato, ha progressivamente perso la sua funzione selettiva. Da autorizzazione alla permanenza finalizzata a uno scopo preciso — lavoro, studio, protezione — si è trasformato, in molti casi, in una tappa intermedia verso la stabilizzazione definitiva, indipendentemente dall’effettivo livello di integrazione raggiunto. Il messaggio implicito che ne deriva è chiaro: restare è una questione di tempo, non di comportamento; di presenza, non di adesione.
Questo slittamento concettuale ha prodotto un effetto a cascata sulla cittadinanza. Se il soggiorno diventa sostanzialmente incondizionato, la cittadinanza finisce per apparire come il suo naturale completamento, anziché come un riconoscimento finale di appartenenza piena alla comunità giuridica e politica. Si perde così il significato originario della cittadinanza come vincolo di lealtà reciproca tra individuo e Stato, fondato non solo sui diritti, ma anche su doveri inderogabili.
L’integrazione, in questo schema, smette di essere un processo reale e verificabile. Diventa una parola d’ordine, una categoria retorica utilizzata per legittimare decisioni già prese. Si presume che chi lavora, chi risiede da un certo numero di anni o chi è formalmente regolare sia automaticamente integrato. Ma la realtà dimostra che l’integrazione non è un fatto puramente economico né un esito spontaneo del tempo. È un processo complesso, che riguarda la lingua, il rispetto delle regole, l’adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento, il riconoscimento dell’autorità dello Stato e delle sue istituzioni.
Quando questo processo viene dato per scontato, il sistema entra in una zona di rischio. Il passaggio dal titolo di soggiorno alla cittadinanza, se non sorretto da una verifica sostanziale dell’integrazione, può produrre soggetti formalmente appartenenti allo Stato, ma sostanzialmente estranei al suo ordine giuridico. È qui che nasce il rischio sistemico: individui che godono pienamente dei diritti garantiti dalla cittadinanza, ma che non riconoscono il patto costituzionale su cui quei diritti si fondano.
I fatti di cronaca dimostrano che questo rischio non è teorico. Il terrorismo interno, la radicalizzazione ideologica, il rifiuto violento delle regole comuni sono spesso fenomeni che maturano all’interno, non all’esterno, delle democrazie occidentali. Non si tratta di soggetti “di passaggio”, ma di persone stabilmente inserite nel tessuto sociale, talvolta cittadine a tutti gli effetti. Questo dato dovrebbe imporre una riflessione seria sul modo in cui lo Stato gestisce la transizione dal soggiorno alla cittadinanza.
Il problema non è l’estensione dei diritti in quanto tale, ma la loro dissociazione dagli obblighi. Uno Stato che rinuncia a pretendere integrazione reale rinuncia, di fatto, a governare la propria comunità politica. La cittadinanza concessa in assenza di un’effettiva adesione ai valori fondamentali non rafforza la coesione sociale, ma la indebolisce, perché priva lo Stato di strumenti di prevenzione e di reazione prima che il conflitto emerga in forme patologiche.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce proprio da questa consapevolezza. Non come risposta emotiva, ma come proposta di ricostruzione dell’ordine giuridico in materia di immigrazione e cittadinanza. Integrare non significa tollerare tutto, né rinunciare a distinguere. Significa fissare criteri chiari, pretendere comportamenti coerenti, verificare nel tempo l’adesione al patto sociale. Quando questo non avviene, la permanenza non può essere considerata un diritto acquisito.
La ReImmigrazione, in questo senso, non è una sanzione ideologica, ma una conseguenza giuridica. È il riconoscimento che la comunità politica ha il diritto — e il dovere — di preservare la propria coesione interna. Un sistema che consente il passaggio dal titolo di soggiorno alla cittadinanza senza una reale integrazione costruisce, nel tempo, una fragilità strutturale che prima o poi emerge sotto forma di conflitto, insicurezza e perdita di legittimità dello Stato.
Ripensare questo percorso significa tornare a una concezione esigente ma razionale della cittadinanza. Non un premio automatico, non un atto simbolico, ma l’esito di un processo verificabile. Solo così il titolo di soggiorno torna a essere ciò che deve essere: uno strumento funzionale all’integrazione reale, non il primo gradino di una cittadinanza svuotata di significato. E solo così le democrazie occidentali possono ridurre il rischio sistemico che oggi fingono di non vedere.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
ID 280782895721-36

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