In Italia si continua a parlare di immigrazione come se fosse una questione umanitaria episodica, emergenziale, da gestire con interventi tampone e narrazioni rassicuranti. Ma la realtà è molto più dura, e soprattutto molto più strutturale. La mancanza di integrazione non è più un problema sociale marginale: è diventata un fattore diretto di conflitto interno e, quindi, una questione di governabilità dello Stato.
Il punto centrale, che si preferisce evitare, è semplice: senza integrazione reale non esiste coesione, e senza coesione non esiste ordine democratico. L’integrazione non è un sentimento, né uno slogan, né un automatismo che si attiva con il solo trascorrere del tempo. È un processo giuridico, culturale e comportamentale che presuppone regole, doveri, controlli e conseguenze. Quando questo processo non viene governato, il risultato non è la convivenza, ma la frammentazione.
L’Italia sta già sperimentando una forma di conflitto interno che non assomiglia alle guerre civili del Novecento, ma che è altrettanto corrosiva. Non carri armati nelle strade, ma territori socialmente separati. Non fronti armati, ma comunità parallele. Non un collasso improvviso dello Stato, ma una lenta erosione della sua autorità quotidiana. Quartieri in cui la legge è percepita come opzionale, servizi pubblici sotto pressione, tensioni costanti su scuola, sanità, casa e lavoro. Tutto questo non nasce dal numero degli stranieri in sé, ma dalla mancanza di integrazione come fatto giuridico e sociale.
La politica ha commesso un errore grave: ha confuso l’integrazione con la tolleranza passiva. Ha rinunciato a pretendere adesione ai valori costituzionali, rispetto delle regole comuni, apprendimento della lingua, partecipazione reale alla vita civile. In questo vuoto normativo e culturale si è inserita la radicalizzazione, non solo religiosa o ideologica, ma anche identitaria. Quando lo Stato rinuncia a definire chi può restare e a quali condizioni, il conflitto non scompare: si sposta dal piano istituzionale a quello sociale.
Il conflitto interno, infatti, non nasce quando lo Stato è forte, ma quando è percepito come indeciso o incoerente. Quando le regole esistono ma non vengono applicate. Quando i diritti sono proclamati senza essere bilanciati da doveri. Quando l’integrazione viene presentata come un diritto unilaterale e non come un percorso reciproco. In questo scenario, la tensione tra gruppi sociali cresce, la fiducia nelle istituzioni crolla e il consenso democratico si polarizza.
Continuare su questa strada significa accettare una crisi di governabilità permanente. Non oggi, forse, ma domani. Non in forma esplosiva, ma cumulativa. Ogni episodio di violenza non governata, ogni illegalità tollerata, ogni fallimento dell’integrazione rafforza l’idea che lo Stato non sia più in grado di garantire ordine e giustizia. Ed è esattamente in quel momento che il conflitto interno smette di essere un rischio teorico e diventa un dato politico.
Serve un cambio di paradigma. L’integrazione deve tornare a essere una pretesa dello Stato, non una concessione. Chi può integrarsi deve essere messo nelle condizioni di farlo, ma chi rifiuta l’integrazione non può restare indefinitamente nello spazio giuridico europeo senza conseguenze. Integrazione o ritorno non è uno slogan ideologico: è una funzione ordinaria di qualsiasi Stato che voglia sopravvivere come comunità politica.
Ignorare questo dato non rende l’Italia più inclusiva, ma solo più fragile. E uno Stato fragile, prima o poi, paga il prezzo della propria indecisione.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

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