di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato ID UE 280782895721-36
Nel marzo 2025 è stato pubblicato il 30° Rapporto sulle Migrazioni della Fondazione ISMU (https://www.ismu.org/convegno-presentazione-30-rapporto-sulle-migrazioni-2024/) , un documento di straordinaria importanza per comprendere l’evoluzione dei flussi migratori e delle politiche di integrazione in Italia.
Il Rapporto fotografa, con l’abituale rigore statistico, la realtà di un Paese che, da terra di emigrazione, è diventato polo attrattivo per milioni di cittadini stranieri. Ma proprio quella stessa fotografia impone una riflessione critica: a trent’anni dall’inizio dell’“immigrazione di massa”, possiamo davvero parlare di un’integrazione riuscita?
La risposta, se si osserva la realtà senza paraocchi ideologici, è negativa.
I dati confermano una presenza radicata e duratura, ma l’integrazione effettiva è rimasta spesso un miraggio.
Ecco perché oggi è necessario proporre un nuovo paradigma: non più l’integrazione come promessa indefinita e ideologica, ma l’integrazione come dovere misurabile, il cui mancato assolvimento comporta l’alternativa: la ReImmigrazione.
Il mito della crescita “strutturale”
Secondo ISMU, al 1° gennaio 2024 gli stranieri regolarmente presenti in Italia erano circa 5,8 milioni, con un aumento netto di oltre 150.000 unità in un solo anno.
L’analisi evidenzia che l’immigrazione è ormai strutturale, stabile, radicata nei territori.
Ma ciò che il rapporto non approfondisce – o solo marginalmente – è il grado effettivo di integrazione culturale, civica e linguistica di queste persone.
Perché se è vero che molti lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola, è altrettanto vero che:
- l’abbandono scolastico tra i minori stranieri è superiore alla media nazionale;
- i reati in alcune fasce giovanili immigrate sono in crescita;
- l’uso della lingua italiana in famiglia è spesso marginale anche dopo molti anni;
- la partecipazione civica, politica e associativa resta bassa.
L’errore è stato confondere la permanenza con l’integrazione.
Una lunga storia di rimozione
Dal 1990 in poi, ogni governo ha affrontato il tema dell’integrazione come emergenza burocratica, non come strategia culturale e istituzionale.
La legge Turco-Napolitano (L. 40/1998) aveva introdotto il “contratto di soggiorno” e le prime forme di programmazione, ma mancava di obblighi reali. La successiva legge Bossi-Fini (L. 189/2002) ha irrigidito gli ingressi, ma senza dare un senso compiuto all’integrazione. Il “Pacchetto sicurezza” del 2009 e il D.L. 130/2020 (governo Conte II) hanno solo sfiorato il tema.
Nel frattempo, si è preferito delegare l’integrazione al mondo del volontariato, delle scuole, dei sindaci, delle associazioni. Una politica assente che ha permesso una narrazione tossica: chiunque soggiorni stabilmente sarebbe “integrato” per definizione.
Ma è proprio questa concezione che ha fallito. È il momento di riscrivere le regole del gioco.
L’alternativa: integrazione come dovere, ReImmigrazione come conseguenza
La proposta che porto avanti – anche come avvocato esperto in diritto dell’immigrazione e come lobbista registrato presso l’UE – è chiara: non può esserci integrazione senza criteri oggettivi e obblighi misurabili. L’integrazione non è un’opzione, ma un dovere civile e personale.
Tre i pilastri:
- Lingua: obbligo di raggiungere un livello B1 in italiano entro un triennio.
- Lavoro: attività lavorativa regolare e continuativa o comprovata autosufficienza.
- Legalità e civismo: nessuna condanna penale, partecipazione ad attività formative o civiche.
Chi non raggiunge questi obiettivi, nonostante il sostegno pubblico, non può rimanere. Non per punizione, ma per coerenza. Questo è il senso della ReImmigrazione: un ritorno assistito, dignitoso, volontario o accompagnato, per chi rifiuta di integrarsi o ne è strutturalmente incapace.
Una proposta per riformare l’approccio nazionale
A trent’anni dal primo Rapporto ISMU, è giunto il tempo di:
- modificare l’Accordo di Integrazione (art. 4-bis T.U. Immigrazione), rendendolo vincolante e valutato annualmente;
- creare un Registro nazionale digitale degli adempimenti integrativi, interoperabile con Inps, Inail, Anagrafe e Ministero dell’Interno;
- prevedere meccanismi di ReImmigrazione, fondati su accordi bilaterali con i Paesi d’origine, mirati e controllati.
Questo non è estremismo. È buon senso giuridico. È responsabilità democratica. È la sola alternativa a una convivenza imposta e disfunzionale, che produce marginalità, criminalità e insicurezza.
Conclusione
Il Rapporto ISMU racconta trent’anni di numeri. Ma l’Italia non ha bisogno solo di dati. Ha bisogno di regole chiare, di responsabilità condivise, di una visione che metta al centro la coerenza tra diritti e doveri.
L’integrazione può funzionare solo se diventa condizione per la permanenza, non automatismo. E per chi non rispetta questa condizione, deve esistere una via d’uscita ordinata, umana, ma obbligatoria: la ReImmigrazione.
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