Nel dibattito pubblico e nella programmazione legislativa italiana, il fenomeno migratorio viene sempre più interpretato attraverso una lente puramente economicista, riducendo l’essere umano a mera forza lavoro.
Lo si osserva con particolare evidenza nei contenuti del Decreto Flussi 2025, che ha autorizzato l’ingresso di oltre 180.000 cittadini stranieri per motivi di lavoro, distribuiti tra comparti stagionali, subordinati non stagionali e autonomi. A questi si aggiungono quote riservate al settore dell’assistenza familiare, oltre alla possibilità di convertire numerose tipologie di permessi.
Tuttavia, ciò che colpisce in maniera più netta non è solo la portata numerica del decreto, quanto piuttosto l’assenza assoluta di ogni onere, obbligo o verifica preventiva sull’intenzionalità integrativa di chi entra.
Nessun vincolo viene richiesto in ordine alla conoscenza della lingua italiana, al rispetto dei valori costituzionali, né tantomeno alla condivisione del modello culturale, sociale e giuridico su cui si fonda la Repubblica.
L’illusione della sola utilità economica
Questa impostazione risponde a una logica miope e potenzialmente pericolosa per la coesione sociale: si presume che chiunque lavori, automaticamente si integri. Nulla di più ingenuo. L’esperienza concreta di amministratori locali, operatori sociali e giuristi ci insegna che il lavoro non è di per sé integrazione, e che molti individui, pur presenti regolarmente sul territorio, rifiutano di adattarsi ai principi fondamentali del vivere civile, mantenendo comportamenti incompatibili con i valori fondanti della società italiana.
L’economicismo migratorio tende a ignorare volutamente queste variabili, ritenendo secondari il rispetto delle regole, l’apprendimento linguistico o l’adesione ai diritti/doveri sanciti dalla nostra Costituzione.
Si tollera tacitamente che, in cambio di una prestazione lavorativa, si possa accedere al territorio nazionale senza alcun impegno integrativo, quasi che l’Italia fosse un mero contenitore di manodopera piuttosto che una comunità con una propria identità culturale, giuridica e storica.
La retorica dei “flussi” senza filtri culturali
Tutto ciò avviene nel silenzio di buona parte delle istituzioni e nel complice allineamento di una classe dirigente convinta che i problemi dell’Italia si risolvano importando forza lavoro. Non si pongono domande su chi entra, perché entra, quale sia il suo progetto di vita in Italia. Non vi è traccia, né nella normativa né nella prassi, di un modello selettivo e orientato all’integrazione, come accade in altri ordinamenti giuridici europei.
La totale assenza di filtri valoriali comporta il rischio concreto che entrino in Italia soggetti non solo disinteressati all’integrazione, ma potenzialmente ostili ai suoi presupposti.
Si tollera l’accesso di chi, magari, non ha alcuna intenzione di imparare la lingua, rispettare i diritti delle donne, accettare la parità tra religioni o vivere secondo le regole minime del pluralismo democratico.
Per paradosso, proprio chi entra irregolarmente – ad esempio attraverso la rotta mediterranea – e presenta una domanda di protezione complementare, è spesso tenuto a dimostrare un percorso concreto di integrazione, poiché solo così può ottenere il riconoscimento del diritto a restare.
In questi casi, la legge e la giurisprudenza impongono un’istruttoria che valuta l’inserimento lavorativo, la stabilità abitativa, i legami familiari e la partecipazione alla vita sociale.
È un controllo che non esiste per chi entra con decreto flussi, e che rivela l’assurdità del sistema: chi entra irregolarmente può essere più integrato di chi arriva regolarmente, perché è costretto a dimostrarlo.
Si assiste così a un corto circuito giuridico e politico: l’ingresso regolare diventa una semplice operazione contabile, priva di criteri qualitativi. L’integrazione diventa opzionale proprio per chi, paradossalmente, dovrebbe esserne il primo destinatario.
Verso un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione
Alla luce di quanto sopra, appare evidente l’urgenza di un cambio di paradigma: non è sufficiente regolare gli ingressi in base alle esigenze economiche, occorre subordinarli alla volontà e capacità di integrarsi, secondo principi chiari e condivisi.
A tal fine, si propone l’adozione di un modello fondato sul principio “Integrazione o ReImmigrazione”, secondo il quale il diritto di permanere sul territorio nazionale deve essere subordinato all’adempimento di precisi obblighi di integrazione: apprendimento della lingua italiana, rispetto delle regole, adesione ai valori repubblicani.
Non si tratta di negare il bisogno di lavoratori stranieri, ma di definire con chiarezza le condizioni per la loro presenza stabile, evitando di trasformare l’Italia in un territorio di transito, disgregazione o comunitarismo ostile.
Serve una visione di lungo periodo, fondata sull’equilibrio tra diritti e doveri, tra apertura e identità, tra accoglienza e responsabilità.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
Ideatore del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”
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