Amburgo e il califfato dei nati in Germania: perché l’Italia deve scegliere Integrazione o ReImmigrazione

La vicenda che ha portato allo scioglimento di Muslim Interaktiv in Germania non è un episodio isolato né un fenomeno marginale. È una finestra sul futuro dell’Europa e, soprattutto, sul futuro dell’Italia se continuerà a muoversi dentro il vecchio modello migratorio.

A colpire non è soltanto la retorica del califfato portata in piazza, né la capacità di mobilitare centinaia di giovani attraverso un linguaggio ibrido tra propaganda religiosa e cultura pop.

A colpire è l’identità di chi guidava quel movimento: un cittadino tedesco, nato e cresciuto ad Amburgo, appartenente a quella seconda generazione che avrebbe dovuto testimoniare il successo dell’integrazione europea.

Non siamo davanti a radicali arrivati dall’estero, ma a giovani europei che rifiutano il modello occidentale nel cuore stesso dell’Occidente.

È il segno più evidente che l’integrazione, se lasciata alla spontaneità, semplicemente non avviene. E che il multiculturalismo soft, quello che per anni ha creduto che la sola convivenza territoriale generasse appartenenza culturale, è fallito in modo fragoroso.

La Germania paga oggi il prezzo di un approccio fondato sull’idea che il tempo, da solo, bastasse. Che la cittadinanza potesse sostituire il lavoro culturale, educativo e valoriale. Che la scuola, senza strumenti né visione, potesse assorbire tutto.

Ma la realtà mostra un’altra immagine: giovani nati in Europa, perfettamente alfabetizzati nella lingua del Paese ospitante, attratti da ideologie radicali che promettono identità rigide, appartenenza assoluta e un progetto politico-religioso alternativo allo Stato democratico.

Il problema non riguarda la Germania soltanto. Riguarda l’Italia, forse più della Germania. Perché oggi vediamo dinamiche che sono identiche a quelle che la Germania mostrava quindici anni fa: seconde generazioni nate qui, o arrivate da piccole, che vivono in quartieri a forte concentrazione etnica, spesso prive di un reale ancoraggio ai valori costituzionali.

Una parte significativa di questa popolazione cresce senza un percorso obbligatorio di integrazione, senza verifica della lingua, senza un rapporto chiaro con le regole e con la cultura del Paese in cui vive.

Molti operatori culturali, scolastici o religiosi provengono da contesti che non trasmettono valori occidentali, ma identità separate. E nelle piattaforme social prospera una nuova forma di islamismo pop, che parla ai giovani con linguaggi immediati, estetici, emozionali. È qui che si costruisce il terreno della radicalizzazione futura. Non nei centri di accoglienza, non nei porti, ma negli smartphone.

Il vero tallone d’Achille dell’Europa non è la gestione degli arrivi: è la gestione del dopo. Ed è esattamente qui che si gioca la partita italiana. Perché ciò che accade oggi ad Amburgo può accadere a Milano, Torino, Bologna o Roma nel giro di qualche anno, se non cambiamo l’impianto culturale e normativo del nostro modello migratorio.

Non possiamo più pensare che l’integrazione sia un processo spontaneo, volontario, affidato al buon senso o alla buona volontà. L’integrazione deve diventare un obbligo giuridico, strutturato, verificabile.

Un percorso che si fonda su tre pilastri chiari e misurabili: lavoro, lingua e rispetto delle regole. Tre elementi che costruiscono appartenenza reale e che, se non presenti, rendono incoerente la permanenza nel Paese.

Ed è qui che entra in gioco il paradigma Integrazione o ReImmigrazione: non un’idea punitiva, ma un modello razionale di gestione a lungo termine della convivenza democratica.

Significa creare percorsi strutturati con verifiche periodiche; significa avere indicatori oggettivi di integrazione; significa poter affermare che chi partecipa pienamente alla vita del Paese ha diritto a restare, mentre chi rifiuta sistematicamente quei valori fondamentali deve essere accompagnato — volontariamente o coattivamente — verso un progetto di rientro.

Non esiste alternativa se l’obiettivo è evitare in Italia ciò che oggi vediamo in Germania. La cittadinanza non è un vaccino contro la radicalizzazione. L’appartenenza formale non sostituisce l’appartenenza culturale. La Germania, più avanzata di noi nella gestione storica dei flussi migratori, ci mostra che non basta crescere in Europa per sentirsi europei.

Il caso di Muslim Interaktiv non è un incidente. È un campanello d’allarme chiaro, forte, inequivocabile. L’Italia ha ancora il tempo per evitare la stessa deriva. Ma deve farlo ora, adottando un paradigma nuovo, che non teme di dire le cose come stanno e che riconosce che senza integrazione reale — e misurata — non ci sarà mai sicurezza, né coesione sociale, né futuro.

Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista – EU Transparency Register ID 280782895721-36

FOCUS 1 – Che cos’era davvero Muslim Interaktiv

Muslim Interaktiv non nasce come un’associazione tradizionale con statuti, sedi periferiche o un organigramma formale.

È qualcosa di diverso, più moderno e più insidioso: un collettivo islamista che si forma ad Amburgo attorno al 2020 e che cresce quasi esclusivamente attraverso i social media, parlando a una generazione giovane, digitale e culturalmente sospesa.

Le autorità tedesche lo hanno definito un gruppo “apertamente anticostituzionale”, una definizione utilizzata chiaramente nel comunicato ufficiale del Verfassungsschutz, in cui si legge che l’organizzazione promuoveva idee incompatibili con l’ordine democratico tedesco (fonte: https://www.verfassungsschutz.de/SharedDocs/kurzmeldungen/DE/2025/2025-11-05-verbot.html).

La particolarità di Muslim Interaktiv è proprio questa natura ibrida: non rappresenta il classico circuito dell’estremismo islamista degli anni Duemila, fatto di predicatori clandestini, moschee parallele e reti verticali.

Al contrario, si presenta come un movimento pop, visivo, “accattivante”, con video molto curati, slogan brevi e un’estetica volutamente giovanile. I contenuti girano rapidamente su TikTok, Instagram e YouTube, e la loro narrazione religiosa si fonde con musica, linguaggi urbani e modalità tipiche degli influencer. È un modo nuovo, più efficace e immediato, di veicolare un messaggio antico: la superiorità della Sharia sulla legge democratica.

Proprio per questa capacità di attrarre giovani, in particolare giovani musulmani di seconda generazione, Muslim Interaktiv diventa presto una presenza visibile nelle strade di Amburgo.

Una delle manifestazioni più citate dalla stampa internazionale è quella del 2024, dove il gruppo parlò apertamente dell’obiettivo di instaurare un califfato in Germania. Il riferimento si trova nella ricostruzione dell’agenzia Reuters, che ha descritto con precisione sia la forza mobilitante del collettivo sia la risposta dello Stato tedesco (fonte: https://www.reuters.com/world/germany-bans-muslim-interaktiv-association-searches-properties-2025-11-05/).

Il movimento agiva con grande abilità nel creare un’identità alternativa per i giovani musulmani europei: non un’identità integrata nella società tedesca, ma un’identità separata, più rigida e totalizzante.

E questa è la ragione per cui le autorità tedesche hanno adottato una misura drastica. L’azione del governo, infatti, non si è limitata allo scioglimento formale: sono state ordinate perquisizioni in varie città, tra cui Amburgo, Berlino e l’Assia, come riportato anche da Euronews nella cronaca delle operazioni, che descrive nel dettaglio l’intervento coordinato del Ministero dell’Interno (fonte: https://it.euronews.com/2025/11/05/germania-vietata-lassociazione-muslim-interactive-maxi-perquisizioni-contro-gruppi-islamis).

La stampa specializzata ha inoltre documentato il legame tra Muslim Interaktiv e una nuova forma di radicalismo digitalizzato, che non utilizza più strutture fisiche ma agisce attraverso reti fluide di attivisti e simpatizzanti.

È molto utile, in questo senso, l’analisi di OFCS, che ricostruisce il ruolo “di influenza” svolto dal gruppo e il modo in cui si è inserito in una più ampia rete di contenuti e micro-comunità islamiste presenti in Germania (fonte: https://www.ofcs.it/internazionale/difesa-e-sicurezza-nazionale/la-rete-europea-di-hamas-in-germania-spadroneggia-muslim-interaktive/).

Anche media esteri come la Radiotelevisione Svizzera hanno raccontato la vicenda con toni molto netti, spiegando come Muslim Interaktiv cercasse esplicitamente di normalizzare l’idea del califfato e presentarlo come una “alternativa politica” all’ordinamento democratico tedesco.

La loro ricostruzione, molto chiara e diretta, è consultabile qui: https://www.rsi.ch/info/mondo/Un-califfato-ad-Amburgo-Lo-vuole-Muslim-Interaktiv–2150101.html.

La sintesi è semplice: Muslim Interaktiv non era un fenomeno marginale, ma un laboratorio di radicalizzazione giovanile nel cuore dell’Europa. Un movimento capace di usare i codici comunicativi della modernità per promuovere un progetto politico-religioso arcaico e incompatibile con l’ordine democratico.

Lo scioglimento deciso dalla Germania non è stato un atto simbolico, ma una reazione necessaria a un processo di radicalizzazione interno, radicato nei nostri stessi territori.

FOCUS 2 – Raheem Boateng: il volto della seconda generazione che rifiuta l’Europa

Il leader informale di Muslim Interaktiv, Raheem Boateng — indicato in diverse ricostruzioni anche come Joe Adade Boateng — è diventato, suo malgrado, il simbolo di un fenomeno che l’Europa non può più permettersi di ignorare: la radicalizzazione interna delle seconde generazioni.

Boateng non è un predicatore arrivato clandestinamente dall’estero, non è un emissario di qualche organizzazione jihadista straniera, e non è la proiezione di conflitti mediorientali importati in Germania. È, invece, un prodotto interamente europeo: nato e cresciuto ad Amburgo, cittadino tedesco, con un percorso di vita apparentemente identico a quello di migliaia di suoi coetanei.

A renderlo centrale nel dibattito pubblico è la constatazione che la sua radicalizzazione non è avvenuta ai margini della società, ma all’interno di essa.

Secondo le ricostruzioni giornalistiche, Boateng era un giovane molto conosciuto negli ambienti islamisti europei per la sua capacità comunicativa, per la presenza sui social e per il linguaggio “ibrido” tra religione, identità, cultura urbana e codici estetici contemporanei.

Un profilo del Hamburger Abendblatt — uno dei principali quotidiani della città — lo ha definito “il volto dietro la manifestazione del califfato” tenutasi nel 2024, un evento che aveva raccolto centinaia di giovani davanti alla Rathaus di Amburgo (fonte:
https://www.abendblatt.de/hamburg/politik/article410382857/boateng-der-mann-hinter-der-kalifat-demo-von-muslim-interaktiv-1.html).

Proprio questa manifestazione è diventata uno spartiacque. In quell’occasione, Boateng salì sul palco con microfono alla mano e parlò apertamente della necessità di instaurare un califfato in Germania.

La scena, ripresa e diffusa sui social, ha fatto il giro dei media internazionali. L’agenzia Reuters, ricostruendo l’intera vicenda nel giorno dello scioglimento di Muslim Interaktiv, ha dedicato un passaggio specifico alla leadership di Boateng, descrivendolo come il principale referente e portavoce del collettivo (fonte:
https://www.reuters.com/world/germany-bans-muslim-interaktiv-association-searches-properties-2025-11-05/).

Il suo profilo è ancora più significativo perché, secondo vari media tedeschi, Boateng avrebbe anche frequentato l’Università di Amburgo, dove si sarebbe presentato come un giovane impegnato e carismatico, integrato nel contesto accademico, e tuttavia parallelamente attivo nella costruzione di contenuti islamisti online.

Un lungo reportage della Zeit lo descrive come parte di quella nuova generazione di influencer religiosi capaci di mescolare slogan politici e simboli identitari con la leggerezza comunicativa tipica dei social media (fonte:
https://www.zeit.de/2025/48/joe-adade-boateng-muslim-interaktiv-verbot-hamburg-gxe).

Il paradosso è evidente. Boateng è, a tutti gli effetti, il volto di una generazione che l’Europa pensava di avere già “integrato”. Giovane, istruito, cittadino tedesco, digitalmente competente, pienamente parte della società dal punto di vista formale.

Eppure, proprio per la debolezza del modello europeo, ha sviluppato un’identità alternativa, impermeabile ai valori democratici, attratta da un progetto politico-religioso incompatibile con lo Stato di diritto.
Come ha scritto la Radiotelevisione Svizzera in un commento che ha fatto molto discutere, Boateng rappresenta “il nuovo tipo di attivista islamista europeo” capace di costruire discorsi radicali con forme comunicative moderne (fonte:
https://www.rsi.ch/info/mondo/Un-califfato-ad-Amburgo-Lo-vuole-Muslim-Interaktiv–2150101.html).

La sua figura dimostra un punto essenziale: non basta nascere in Europa per diventare europei. La cittadinanza, da sola, non crea appartenenza culturale. La scuola, senza strumenti adeguati, non può sostituire un sistema valoriale coerente. Le istituzioni, se rinunciano a chiedere integrazione reale, lasciano spazio a identità parallele più rigide e totalizzanti.

Boateng è il prodotto di un modello fallito. Un modello che l’Italia, oggi, sta replicando in modo inconsapevole. Se la Germania rappresenta il futuro che ci attende, la sua storia è il monito più chiaro e più urgente di tutti: quando l’integrazione non è pretesa, qualcun altro occuperà quello spazio.

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