Il caso Francia: quando la mancanza di integrazione apre la strada al fondamentalismo

La vicenda del nuovo sondaggio francese, balzato alle cronache con percentuali allarmanti sulla preferenza per la Sharia tra i giovani musulmani, è più di un fatto di attualità.

È un campanello d’allarme sullo stato dell’integrazione in Europa e sul prezzo che si paga quando uno Stato rinuncia a esercitare, con chiarezza e continuità, il proprio ruolo formativo, culturale e civico.

Secondo quanto riportato da CNEWS, oltre la metà degli intervistati nella fascia 15-24 anni considererebbe la Sharia superiore alle leggi della Repubblica.

È un dato che impressiona non soltanto per la percentuale, ma per ciò che rivela: una parte rilevante della seconda generazione, nata e cresciuta in Europa, percepisce l’ordinamento giuridico del Paese in cui vive come secondario rispetto a un codice religioso.

È un segnale evidente di una frattura interna che nessuna società occidentale può permettersi di ignorare.

La Francia è stata a lungo considerata un laboratorio avanzato di integrazione. Il modello repubblicano, astratto e universalista, presupponeva che bastasse l’uguaglianza formale davanti alla legge per costruire coesione sociale. Ma quell’assunto si è dimostrato insufficiente. Le banlieue hanno generato spazi paralleli, la formazione civica è stata percepita più come imposizione che come appartenenza, e la sinistra culturale ha sistematicamente evitato di affrontare il tema della compatibilità tra identità religiose e valori repubblicani.

Si è preferito negare il problema, evocare stereotipi antirazzisti e rimuovere ogni conflitto potenziale, mentre sul territorio prendevano forma comunità sempre più impermeabili al resto della società.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Se una parte dei giovani musulmani francesi non riconosce la supremazia dell’ordinamento statale, non è perché sia “intrinsecamente radicale”, ma perché nessuno ha preteso da loro un reale processo di integrazione. Nessuno ha chiesto e verificato l’acquisizione dei valori fondamentali della Repubblica.

Nessuno ha sostenuto, con autorevolezza e continuità, la superiorità del diritto positivo sul diritto religioso, come principio necessario per vivere in una democrazia moderna.

Il fondamentalismo cresce sempre dove lo Stato arretra. E l’arretramento francese è stato culturale prima ancora che politico: si è rinunciato a difendere il proprio modello, a trasmettere il proprio patrimonio giuridico e a far valere la propria identità. In questa dinamica, ciò che appare come un problema religioso è in realtà un problema di integrazione fallita.

Per l’Italia e per l’intera Unione Europea, il caso francese deve essere un monito. Le società che non chiedono integrazione, finiscono per impostare la convivenza su appartenenze separate. Le società che non chiedono rispetto delle regole, producono territori sottratti all’ordinamento. Le società che non pretendono lealtà costituzionale, si trovano di fronte generazioni che non riconoscono l’autorità dello Stato.

È qui che il paradigma Integrazione o ReImmigrazione trova la sua ragion d’essere: non esiste neutralità possibile. O si integrano realmente i cittadini stranieri e le seconde generazioni – attraverso lavoro, lingua e rispetto delle norme – oppure si accetta la nascita di segmenti sociali autoregolati, dove la legge formale non è più il riferimento principale.

L’alternativa non è tra accoglienza e chiusura, ma tra Stato e non-Stato. Tra ordine giuridico e frammentazione. Tra un modello di integrazione serio e credibile, e un modello di sopravvivenza civile che prima o poi implode.

La Francia sta pagando il prezzo del proprio ritardo. L’Italia ha ancora il margine per evitarlo. Ma solo se sceglierà con decisione la strada che per troppo tempo ha esitato a imboccare: chiedere integrazione, verificarla, pretenderla, e applicare coerentemente – nei casi in cui l’integrazione non c’è – il paradigma della ReImmigrazione.

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