La sentenza R.G. 613/2025 del Tribunale di Bologna offre uno spunto di analisi particolarmente utile per comprendere come la protezione complementare, nella sua configurazione attuale, rappresenti il laboratorio più efficace per misurare la tenuta del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” (la sentenza è anche consultabile al link https://www.calameo.com/read/0080797755af03a685536 )
Il caso esaminato nasce da un rigetto del permesso di soggiorno fondato sul parere sfavorevole della Commissione territoriale, che aveva ritenuto non sufficientemente provato l’inserimento dello straniero nella società italiana.
Il Tribunale, però, ricostruendo con rigore il percorso personale e familiare dell’interessato, evidenzia come la protezione complementare sia lo strumento attraverso cui l’ordinamento riesce a distinguere in modo netto tra chi si sta radicando responsabilmente nel Paese e chi, invece, non intraprende alcun cammino di integrazione.
Il cuore della pronuncia sta proprio nella lettura dell’art. 19, comma 1.1, del Testo Unico Immigrazione.
Il giudice ricorda che la tutela non dipende da automatismi né da appartenenze generiche, ma dalla verifica concreta del rischio che l’allontanamento provochi una violazione del diritto alla vita privata e familiare. Questo diritto, come chiarito dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 24413/2021, comprende l’intera rete di relazioni costruite sul territorio: lavoro, rapporti sociali, legami familiari, stabilità abitativa.
Non si richiede un’integrazione “perfetta” o astrattamente modellata, ma un percorso reale, misurabile, costante. Conta la direzione del cammino, non la sua perfezione. E questo è esattamente il presupposto del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: rimanere in Italia richiede uno sforzo verificabile, mentre la mancata volontà di integrarsi conduce, in modo fisiologico, al rientro.
La decisione del Tribunale ribalta infatti l’impostazione che aveva portato al diniego amministrativo. Nonostante le perplessità espresse in fase amministrativa, la documentazione prodotta dimostra che lo straniero lavora nel settore edile, è titolare di un contratto, vive in un appartamento con la moglie e i figli, paga l’affitto, ha inserito i bambini nel sistema scolastico, non ha precedenti penali e, complessivamente, ha radicato la propria vita in Italia.
Questo intreccio di elementi non è marginale né meramente formale: definisce la sua identità sociale. Il Tribunale sottolinea come un nuovo sradicamento produrrebbe una compromissione grave dei suoi diritti fondamentali, anche perché il legame con il Paese d’origine risulta ormai attenuato, mentre la sua quotidianità – affetti, lavoro, educazione dei figli – si svolge interamente in Italia.
È interessante osservare come nella motivazione emerga con chiarezza un principio ormai consolidato dalla Cassazione: l’integrazione non richiede risultati eccezionali, ma “ogni apprezzabile sforzo” volto a inserirsi nel contesto sociale e lavorativo. È un criterio equilibrato, che respinge sia le richieste irrealistiche sia il permissivismo del passato.
È un criterio che coincide esattamente con il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”, perché orienta la decisione verso una valutazione concreta e non ideologica: chi contribuisce, rimane; chi non costruisce nulla, torna nel proprio Paese.
La protezione complementare, così interpretata, diventa quindi uno strumento che non premia l’inattività, ma riconosce i percorsi autentici.
La sentenza dimostra anche un altro aspetto fondamentale: l’approccio integrativo non tutela solo lo straniero ma anche l’interesse dello Stato.
Riconoscere la protezione complementare a chi dimostra stabilità lavorativa, partecipazione sociale e radicamento familiare significa proteggere un investimento sociale già in corso, evitando di spezzare percorsi positivi che portano benefici al territorio.
Al contrario, negare la protezione in assenza di integrazione è perfettamente coerente con il principio di responsabilità: il sistema non può farsi carico all’infinito di situazioni prive di qualunque segno di partecipazione attiva.
Questa decisione permette quindi di cogliere un passaggio decisivo: la protezione complementare non è più – e non deve più essere percepita – come una valvola di sfogo o un’alternativa assistenziale. È, invece, una forma di tutela che valorizza la volontà di radicarsi, mettendo in relazione l’interesse individuale alla protezione con l’interesse collettivo alla coesione sociale. Proprio per questo motivo, rappresenta il contesto ideale per dare concretezza al paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”.
Da una parte, protegge chi ha costruito una vita in Italia e la cui identità personale è ormai legata al Paese; dall’altra, non crea alcun diritto automatico per chi non manifesta alcun impegno.
È un modello che favorisce l’integrazione responsabile, scoraggia l’immobilismo e offre una base giuridica chiara per orientare le politiche migratorie verso un equilibrio tra umanità e rigore.
La sentenza del Tribunale di Bologna conferma, in definitiva, che la protezione complementare, quando applicata correttamente, è già oggi il meccanismo più avanzato attraverso cui il diritto dell’immigrazione riesce a selezionare e valorizzare i percorsi di integrazione autentica.
Un laboratorio perfetto per tradurre il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” in una pratica coerente, trasparente e rispettosa tanto della persona quanto dell’ordinamento.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

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