Integrazione o Reimmigrazione: l’alternativa che l’economia non racconta

In Europa si continua a ripetere che l’immigrazione è inevitabile, quasi una legge naturale.

È diventata la formula con cui si cerca di compensare il declino demografico, la carenza di manodopera e la fragilità dei sistemi pensionistici.

Ma dietro questa visione economicistica si nasconde una contraddizione profonda: trattare l’immigrazione come una necessità tecnica significa dimenticare che la coesione europea non è fatta solo di numeri, ma di identità, valori e responsabilità condivise.

I dati ufficiali confermano la complessità del fenomeno. Secondo Eurostat, già nel 2012 oltre 3,4 milioni di persone si erano spostate all’interno dell’Unione europea, metà provenienti da Paesi terzi e metà da altri Stati membri.
Oggi, secondo il Parlamento europeo, i cittadini extracomunitari rappresentano il 6,4% della popolazione complessiva dell’UE, pari a 28,9 milioni di persone su 449 milioni di abitanti. Nel 2023 sono stati registrati 3,7 milioni di ingressi legali e circa 385.000 irregolari, mentre nel 2024 gli attraversamenti irregolari delle frontiere esterne si sono ridotti a 239.000, con un calo del 38% rispetto all’anno precedente (dati Frontex).
La grande maggioranza dei movimenti migratori avviene dunque per canali regolari, ma la percezione pubblica resta dominata dall’emergenza.

È il segno che la questione non è più quantitativa, bensì qualitativa: non quanti arrivano, ma come vengono integrati.

Eurostat aveva già avvertito più di dieci anni fa che “la migrazione da sola non potrà quasi certamente invertire la tendenza all’invecchiamento della popolazione”. È una frase che oggi assume un valore politico decisivo. La migrazione non è la cura del declino europeo: può solo affiancare, non sostituire, le politiche interne di natalità, formazione e innovazione.

Nel 2024, quasi un milione di persone ha presentato domanda d’asilo nell’Unione; 911.960 erano richieste di protezione per la prima volta. La Germania ha accolto il 31% di tutte le domande, seguita da Spagna (15%), Francia (14%) e Italia (12%). I principali Paesi di origine sono Siria, Venezuela, Afghanistan, Colombia e Turchia, che insieme rappresentano quasi la metà dei richiedenti.
Nello stesso anno gli Stati membri hanno riconosciuto protezione a 437.900 persone, con un aumento del 6,9% rispetto al 2023. Si tratta di dati che mostrano la dimensione reale della protezione, ma anche la disomogeneità del carico tra Paesi: segno che l’Europa non ha ancora un principio comune di responsabilità.

A partire dal 2015 l’Unione ha investito risorse senza precedenti nella gestione dei flussi: 22,7 miliardi di euro nel bilancio 2021-2027 per migrazione e frontiere, più del doppio rispetto al ciclo precedente. Eppure, l’assenza di una visione politica unitaria ha trasformato queste risorse in un meccanismo di contenimento, non di coesione.
Lo stesso Parlamento europeo sottolinea che “il rimpatrio dei cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno costituisce una priorità nella gestione dell’immigrazione a livello europeo e nazionale”. Ma rimpatrio e Reimmigrazione non sono sinonimi: il primo è un atto amministrativo, la seconda un paradigma giuridico.

Il paradigma dell’Integrazione o Reimmigrazione nasce da questa consapevolezza. L’Europa non può limitarsi a “gestire” la migrazione: deve governarla in base a criteri di integrazione verificabile.

Chi entra e desidera vivere stabilmente in uno Stato europeo deve accettare un percorso fondato su tre pilastri — lavoro, lingua e rispetto delle regole — come condizione per la permanenza.
Chi lo completa diventa parte della comunità e partecipa al futuro dell’Europa. Chi invece rifiuta questo percorso deve poter tornare nel proprio Paese.

Non si tratta di chiudere le porte, ma di ricostruire un principio di equilibrio.

Con oltre 33 milioni di persone nate fuori dall’UE e decine di milioni di discendenti di migranti ormai cittadini europei, l’Unione deve definire cosa significhi “far parte” della comunità europea nel XXI secolo.
La libertà di circolazione, sancita dagli accordi di Schengen, resta un pilastro dell’identità europea; ma quella libertà implica una responsabilità condivisa: chi vuole restare deve accettare di integrarsi.

Quando nel 2022 l’UE ha attivato per la prima volta la Direttiva sulla protezione temporanea per accogliere milioni di rifugiati ucraini, ha dimostrato di saper agire con unità e rapidità. Lo stesso spirito può e deve ispirare una nuova politica migratoria basata non sull’improvvisazione ma su un principio di reciprocità.

L’Integrazione o Reimmigrazione non è una formula di chiusura, ma di civiltà: un modo per conciliare solidarietà e ordine, libertà e sicurezza, diritti e doveri.
Solo se l’Europa saprà coniugare l’accoglienza con l’obbligo di partecipare alla vita comune, potrà superare la crisi d’identità che la attraversa.
Non basta sapere chi arriva: bisogna sapere chi si integra e chi no.
Solo così l’Unione non sarà più una terra che subisce la migrazione, ma una comunità che la governa con equilibrio,responsabilità e dignità.

Avv. Fabio Loscerbo
Avvocato – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea


Fonti:

  • Parlamento europeo, “Asilo e migrazione nell’UE: fatti e cifre”, 2025.
  • Eurostat, “Migrazioni e statistiche demografiche dei migranti”, 2013 (dati 2012).
  • Loredana Teodorescu, “L’Unione europea e la sfida dell’immigrazione”, progetto EU Goes to Schools, Commissione Europea, 2013.

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