Bologna, città universitaria e capitale storica dell’accoglienza, è oggi anche uno degli epicentri italiani del dibattito sulla sicurezza.
Gli ultimi dati del Ministero dell’Interno e de Il Sole 24 Ore indicano che la città si colloca ai primi posti nazionali per numero di reati denunciati, con un incremento significativo dei furti e delle rapine nel corso del 2024. Un dato che, inserito nel contesto sociale e demografico della città, interroga profondamente il modello di integrazione finora adottato.
Secondo il portale statistico “I numeri di Bologna metropolitana”, gli stranieri residenti nel comune sono oltre 61.500, pari al 15,7 % della popolazione, mentre nell’area metropolitana superano le 124 mila unità.
Si tratta di una componente ormai strutturale del tessuto urbano, proveniente in larga parte da Romania, Bangladesh e Filippine.
Tuttavia, la presenza numerica non si traduce automaticamente in integrazione: i dati mostrano profonde differenze tra comunità stabilmente inserite e segmenti di popolazione rimasti ai margini.
Sul fronte della sicurezza, le cifre fornite dalle forze dell’ordine e riprese dalla stampa locale sono eloquenti: su 2.558 persone arrestate o denunciate per furto, 1.544 erano straniere, pari al 60 %. Nelle rapine, la percentuale sale al 63 % (466 su 742).
Numeri che, letti senza pregiudizi ma con rigore, segnalano un fenomeno che non può essere liquidato come “percezione di insicurezza”.
Bologna è così diventata un caso di studio: una città dove l’alta qualità dei servizi pubblici convive con sacche di degrado urbano e criminalità diffusa, soprattutto nelle aree più esposte alla marginalità economica. Piazza Verdi, la Bolognina, la zona della stazione centrale e parte di via Zamboni rappresentano oggi i punti critici di una mappa che riflette non solo disagio sociale, ma anche la fragilità delle politiche di integrazione.
A livello nazionale, le ricerche dell’ISTAT e della Rivista Il Mulino hanno più volte chiarito che non esiste un legame automatico tra immigrazione e criminalità.
Tuttavia, a Bologna come in molte città europee, l’aumento di alcune tipologie di reato coincide con l’emergere di nuove disuguaglianze urbane.
È in questi spazi di esclusione – dove la mancanza di lavoro, formazione e alloggio regolare si intreccia con la precarietà giuridica – che il sistema dell’integrazione sembra essersi inceppato.
Il paradigma Integrazione o ReImmigrazione nasce proprio da questa constatazione: l’idea che l’accoglienza, per funzionare, non possa più essere scollegata da una reale verifica dei percorsi di inserimento sociale. L’obiettivo non è contrapporre italiani e stranieri, ma stabilire un principio di responsabilità reciproca: chi si integra deve poter restare e partecipare pienamente alla vita civile; chi rifiuta o elude le regole comuni, deve poter essere accompagnato in un percorso di ritorno nel proprio Paese d’origine.
Bologna diventa così il laboratorio di una nuova idea d’Europa: non quella dei confini chiusi, ma dei criteri chiari. L’esperienza cittadina mostra che l’integrazione non può ridursi a un fatto economico, ma deve poggiare su tre pilastri fondamentali — lavoro, lingua e rispetto delle regole.
Dove questi elementi mancano, non resta che la marginalità, e con essa il terreno fertile per la devianza.
L’alternativa non è tra accoglienza e respingimento, ma tra integrazione e ReImmigrazione: tra un modello che funziona e uno che implode.
Bologna, con i suoi contrasti e le sue contraddizioni, ci costringe a guardare oltre le statistiche per capire che la vera sicurezza non nasce dal controllo, ma dall’appartenenza condivisa.
Avv. Fabio Loscerbo
Lascia un commento