Occupazione e integrazione – Analisi critica dei dati sull’inserimento lavorativo degli stranieri in Italia

Numeri e realtà: la falsa integrazione dietro i dati sull’occupazione straniera
Negli ultimi rapporti diffusi da ISTAT e dal Ministero del Lavoro, l’Italia appare come un Paese che ha quasi raggiunto la parità occupazionale tra cittadini italiani e stranieri.

Il tasso di occupazione dei cittadini stranieri residenti si attesta intorno al 66,2%, appena un punto in meno rispetto al 67,2% degli italiani.

A prima vista, il dato sembrerebbe segnalare una piena integrazione lavorativa, un successo delle politiche di inclusione e un superamento delle barriere economiche.
Ma basta guardare oltre la superficie per scoprire una realtà ben diversa: la qualità del lavoro, la stabilità occupazionale e la mobilità sociale raccontano un’altra storia.

La trappola della “integrazione numerica”
Dietro i numeri, l’integrazione resta spesso apparente.
Il tasso di disoccupazione straniera, pari al 10,1% contro il 6,1% degli italiani, mostra che una parte significativa della popolazione immigrata resta ai margini del mercato del lavoro. Molti di coloro che risultano “occupati” lavorano in condizioni precarie, in settori dequalificati o ad alto rischio di irregolarità.
Oltre il 60% dei lavoratori stranieri è concentrato in tre aree:
agricoltura e allevamento (18%),
edilizia e logistica (16%),
servizi di cura e pulizia (oltre 30%).
Si tratta di comparti indispensabili ma fragili, caratterizzati da bassi salari, contratti brevi e difficoltà di tutela sindacale.

È la fotografia di una integrazione funzionale ma non strutturale: utile all’economia, ma incapace di creare cittadinanza reale.

Il nodo della formazione e del capitale umano
Un altro elemento decisivo riguarda l’istruzione.
Tra i cittadini stranieri residenti in Italia, quasi la metà (48,1%) possiede al massimo la licenza media, mentre solo l’11,6% ha conseguito una laurea.
La differenza con la popolazione italiana (20,7% di laureati) si traduce in una limitata mobilità professionale e in un rischio di cristallizzazione delle disuguaglianze.
Il lavoro, dunque, diventa un semplice strumento di sopravvivenza, non un vero veicolo di integrazione.
Il passaggio da “occupato” a “integrato” dovrebbe implicare l’adesione ai valori, alle regole e alle responsabilità della società che accoglie — non solo l’inserimento in una busta paga.

Quando il lavoro non basta per restare
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce proprio da questa consapevolezza: l’occupazione è necessaria ma non sufficiente.
Non basta lavorare: occorre dimostrare di voler far parte di una comunità, condividendone le regole e contribuendo al suo equilibrio.
Chi si integra davvero, attraverso il lavoro, la lingua e la legalità, deve poter consolidare la propria posizione giuridica.
Chi invece vive in una condizione di esclusione permanente, o sceglie di restare ai margini, non può trasformare la precarietà in diritto soggettivo al radicamento.
In questo senso, la ReImmigrazione non è un atto punitivo, ma la conclusione naturale di un percorso non riuscito, uno strumento per restituire coerenza a un sistema che oggi confonde inclusione con presenza.

Dalla statistica alla politica
Serve una svolta concettuale:
Lavoro stabile, non semplicemente lavoro;
Formazione e lingua italiana come prerequisiti obbligatori;
Rispetto delle regole come condizione di permanenza.

Solo così i numeri potranno finalmente corrispondere alla realtà, e l’integrazione smetterà di essere un artificio statistico per diventare un processo autentico di appartenenza.

L’integrazione non si misura con le percentuali, ma con la responsabilità.
E quando la responsabilità manca, la ReImmigrazione è la risposta logica di uno Stato che vuole restare giusto.

Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

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