Negli ultimi mesi, soprattutto a partire da settembre 2025, la parola “remigrazione” è entrata con forza nel dibattito pubblico, diventando virale su X (ex Twitter) e comparendo in striscioni affissi in molte città italiane.
A livello comunicativo, è un termine che colpisce: evoca l’idea di un ritorno immediato dei migranti nei Paesi d’origine, viene presentato come soluzione semplice a problemi complessi e si carica di un forte valore identitario.
Ma proprio la sua forza retorica rivela anche il suo limite. La “remigrazione” così come viene proposta in rete e nei manifesti non trova alcun riscontro nel diritto positivo né nelle dinamiche reali dei flussi migratori.
Non esiste in Italia, né in Europa, un istituto che consenta un rimpatrio collettivo su base etnica o culturale: si tratterebbe di misure incompatibili con la Costituzione, con le Convenzioni internazionali e con i principi fondamentali dell’Unione Europea. Espulsioni, respingimenti e rimpatri volontari assistiti sono gli strumenti concreti a disposizione, e si applicano caso per caso, non in maniera indiscriminata.
Di fronte a questa distanza tra slogan e realtà, rischiamo di alimentare un dibattito sterile, che produce consenso immediato ma non soluzioni.
È qui che diventa necessario un cambio di paradigma. Il modello che propongo, “Integrazione o ReImmigrazione”, nasce proprio dall’esigenza di dare una cornice giuridica e politica praticabile a quella che altrimenti resta una parola vuota.
“Integrazione” significa riconoscere che chi arriva in Italia deve rispettare un patto chiaro con la società che lo accoglie. Non basta vivere sul territorio: occorre inserirsi nel tessuto sociale, imparare la lingua, lavorare regolarmente, rispettare le regole comuni. Sono tre pilastri semplici e concreti – lavoro, lingua, legalità – che definiscono l’appartenenza e la possibilità di costruire un futuro stabile.
“ReImmigrazione” diventa, allora, non un sinonimo di deportazione, ma la conseguenza per chi rifiuta quel patto o lo viola gravemente. Chi non lavora e non cerca di integrarsi, chi non rispetta la legge, chi rifiuta di imparare la lingua del Paese ospitante non può pretendere di godere indefinitamente degli stessi diritti di chi invece si impegna. Il ritorno nel Paese d’origine non è una misura punitiva ideologica, ma il naturale risultato del mancato rispetto di un dovere reciproco.
Un laboratorio di questo paradigma esiste già e lo troviamo nella protezione complementare. Questa forma di tutela riconosce che l’integrazione sociale, lavorativa e relazionale raggiunta dal richiedente in Italia rende sproporzionato e lesivo un rimpatrio forzato. Non si guarda soltanto al rischio oggettivo nel Paese d’origine, ma soprattutto al radicamento concreto della persona nel tessuto sociale italiano. In altre parole, il legislatore ha già aperto una strada: se sei integrato, hai diritto a restare; se non lo sei, viene meno la ragione della protezione.
Questo approccio consente di superare due rischi opposti: da un lato l’illusione che basti uno slogan come “remigrazione” per affrontare un fenomeno globale e complesso; dall’altro l’idea che l’accoglienza possa essere illimitata e indipendente dai comportamenti individuali.
La proposta “Integrazione o ReImmigrazione” si colloca in uno spazio costituzionalmente compatibile, perché fonda diritti e doveri su basi chiare e verificabili, e nello stesso tempo offre un terreno politico su cui maggioranza e opposizione potrebbero misurarsi senza ricadere nelle contrapposizioni ideologiche.
Per arrivarci, però, serve un tavolo di confronto che vada oltre le tifoserie. Non bastano i thread su X o le dichiarazioni da comizio: serve un lavoro serio tra giuristi, istituzioni, forze politiche e società civile, capace di distinguere ciò che è realizzabile da ciò che resta solo propaganda.
Il fenomeno migratorio, con la sua dimensione economica, sociale e culturale, merita un approccio responsabile, che tenga insieme sicurezza e diritti, identità nazionale e coesione sociale.
Solo così si può passare dal rumore degli slogan a un progetto politico credibile, capace di dare risposte concrete a cittadini e migranti.
La sfida non è scegliere tra accoglienza incondizionata e espulsioni di massa, ma costruire un modello che premi chi si integra e stabilisca un percorso chiaro di rientro per chi invece rifiuta di farlo.
È questa la vera differenza tra la “remigrazione” gridata sui social e il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: da un lato un simbolo identitario senza basi giuridiche, dall’altro un criterio operativo già sperimentato nella protezione complementare, che può trasformarsi in politica pubblica.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
ID 280782895721-36
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