Nell’opinione pubblica circola talvolta l’idea che un avvocato che tutela i diritti degli stranieri non possa, allo stesso tempo, promuovere un paradigma che introduce il principio: chi si integra resta, chi non si integra torna.
Si tratterebbe – secondo questa critica – di una contraddizione insanabile, quasi una forma di schizofrenia professionale.
In realtà, questa presunta discrasia non esiste.
Anzi: è proprio l’esperienza quotidiana di un avvocato dell’immigrazione a dimostrare quanto sia urgente e necessario ridefinire le regole secondo il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”.
1. La funzione dell’avvocato dell’immigrazione
L’avvocato che si occupa di immigrazione non è un “avvocato di parte” nel senso politico del termine. È un garante del diritto:
1) assicura che i provvedimenti delle Questure e delle Prefetture rispettino la legge,
2) difende i migranti quando i loro diritti fondamentali vengono violati,
3) invoca il rispetto delle norme costituzionali, internazionali e comunitarie.
Questa funzione non significa promuovere una immigrazione illimitata e senza regole, ma esattamente l’opposto: far sì che le regole siano chiare, coerenti e applicate con giustizia.
2. Il paradigma come evoluzione naturale
Il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione” nasce da una constatazione giuridica ed empirica:
A) l’integrazione non è opzionale,
B) non può esserci diritto a restare in Italia senza un corrispondente dovere di aderire ai valori fondamentali della società ospitante.
Chi meglio di un avvocato immigrazionista può osservare i casi concreti in cui integrazione e radicamento funzionano – lavoro, famiglia, vita sociale – e quelli in cui, invece, l’assenza di integrazione produce marginalità, devianza, conflitto?
Il nuovo paradigma non nega la tutela dei diritti: la rende condizionata alla responsabilità individuale.
3. La sintesi tra diritti e doveri
Non vi è contraddizione tra il difendere i diritti degli stranieri e chiedere regole più stringenti. Al contrario:
1) senza diritti, non vi è garanzia di dignità e legalità;
2) senza doveri, i diritti diventano privilegio e si ritorce contro la coesione sociale.
Un avvocato dell’immigrazione, che ogni giorno invoca l’art. 19 del TUI, la CEDU o l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è lo stesso che può affermare: queste tutele hanno senso solo se accompagnate da un impegno reale di integrazione.
4. La visione politica oltre la professione
Promuovere “Integrazione o Reimmigrazione” significa spostare il dibattito dall’ideologia alla concretezza:
A) non più “accoglienza indiscriminata” o “espulsione di massa”,
B) ma un sistema fondato su parametri chiari, verificabili, misurabili.
Chi vive quotidianamente i ricorsi, le istanze, le sospensive, conosce i limiti e le potenzialità del sistema.
L’avvocato immigrazionista non è un “contraddittore del nuovo paradigma”: ne è il testimone più autorevole.
Conclusione
Non vi è discrasia, dunque, tra l’essere un avvocato che tutela i diritti degli stranieri e il promuovere il principio “Integrazione o Reimmigrazione”.
Il primo ruolo è tecnico-giuridico: assicurare che nessuno venga privato di diritti fondamentali in modo illegittimo.
Il secondo è politico-culturale: indicare una via futura, in cui i diritti si legano ai doveri e l’integrazione diventa obbligo e responsabilità.
Sono due dimensioni diverse, ma complementari. E solo chi vive entrambe può tradurle in un paradigma credibile e innovativo per l’Italia e per l’Europa.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
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