In questi giorni sto leggendo il volume di Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni (Il Mulino, 2020).
È un testo che affronta con grande rigore, tra l’altro, il tema delle cosiddette seconde generazioni, i figli degli immigrati nati o cresciuti nei Paesi di arrivo. La lettura mi ha spinto a una riflessione che va oltre l’analisi accademica, perché tocca direttamente il futuro della società italiana.
Non si tratta infatti di una questione marginale o di dettaglio sociologico, ma del vero banco di prova delle politiche migratorie.
Il modello classico di assimilazione, che prevedeva l’abbandono della cultura d’origine e l’adozione totale di quella della società ospitante, appare ormai superato.
Ambrosini sottolinea come i processi siano in realtà più complessi e relazionali: non si riducono a una cancellazione delle differenze, ma piuttosto a una continua negoziazione tra appartenenze. Le ricerche sociologiche evidenziano percorsi diversi, alcuni favorevoli all’integrazione, altri invece destinati a produrre conflitti e marginalità.
È particolarmente interessante il concetto di acculturazione selettiva, ossia la capacità di mantenere legami culturali con il paese d’origine senza rinunciare alla piena partecipazione nella società ricevente.
Questo modello, più di altri, sembra garantire ai giovani migliori prospettive scolastiche e professionali, ma resta minoritario e fragile, spesso ostacolato da discriminazioni e da politiche poco lungimiranti.
A pesare in modo decisivo sono la famiglia e la scuola. La prima, quando è stabile e coesa, rappresenta un sostegno fondamentale, ma se fragile o isolata può diventare un limite. La seconda, la scuola, dovrebbe essere il principale strumento di mobilità sociale, e invece in Italia troppo spesso si trasforma in un luogo di esclusione: ritardi scolastici, abbandoni precoci, percorsi formativi ridotti a canali professionali poco qualificanti.
Non si può quindi parlare di integrazione automatica: anzi, senza adeguati strumenti e percorsi, molte seconde generazioni finiscono per scivolare in quella che la letteratura chiama assimilazione verso il basso, ossia un’integrazione apparente che porta in realtà a precarietà, marginalità e talvolta devianza.
La riflessione che mi nasce leggendo Ambrosini è chiara: le seconde generazioni non sono semplicemente un gruppo sociale tra gli altri, ma la cartina di tornasole di un intero sistema.
Esse rappresentano la scelta collettiva che la società italiana deve compiere: o diventano cittadini a pieno titolo, o saranno la prova di un fallimento.
È qui che si colloca il paradigma della ReImmigrazione. L’integrazione deve fondarsi su tre pilastri precisi – lingua, lavoro e rispetto delle regole – e deve essere un percorso reale, non solo dichiarato.
Chi vuole integrarsi deve trovare gli strumenti per riuscirci, chi invece rifiuta questa prospettiva non può rimanere in una condizione sospesa che danneggia sé stesso e l’intera collettività.
L’integrazione mancata non può più essere tollerata come un male minore: o si realizza pienamente, oppure occorre avere il coraggio della ReImmigrazione.
Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36) nella materia “Migrazione e Asilo”
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