di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato nel Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID n. 280782895721-36), in materia di migrazione e asilo
L’8 maggio 2025 la Banca Centrale Europea ha pubblicato sul proprio sito istituzionale un blog a firma di quattro economisti del proprio staff, intitolato Foreign workers: a lever for economic growth (https://www.ecb.europa.eu/press/blog/date/2025/html/ecb.blog20250508~897078ce87.en.html).
Fin dalle prime righe, il tono del documento è inequivocabile: la presenza di lavoratori stranieri è descritta come un fattore determinante di stabilizzazione macroeconomica, in un’Eurozona dove la produttività langue e il capitale investito resta debole.
Nel testo si legge chiaramente che, in assenza dell’aumento della popolazione lavorativa straniera, la crescita del PIL reale sarebbe stata molto più contenuta. Addirittura, si arriva ad affermare che “non è un’esagerazione dire che, in alcune delle maggiori economie europee, la crescita sarebbe stata molto più lenta senza i lavoratori stranieri”. Il blog si concentra solo sulla componente economica dell’immigrazione, ammettendo espressamente che “non vengono analizzate altre conseguenze economiche e sociali”. Ecco il primo grande limite dell’impostazione.
Ridurre il fenomeno migratorio a una semplice funzione di riequilibrio demografico e produttivo rappresenta una visione estremamente parziale, e in ultima analisi pericolosa.
Questa visione rafforza l’idea che il valore dello straniero dipenda unicamente dalla sua capacità di lavorare, produrre reddito, versare contributi. Ma cosa accade quando quella capacità viene meno? Quando l’età, la salute o la congiuntura economica lo rendono “inutile”? La logica sottesa è chiara: se non sei più produttivo, non sei più necessario. Una società fondata su questo principio non solo è disumana, ma è anche destinata a fallire sul piano della coesione e della stabilità interna.
In secondo luogo, il documento della BCE presenta come “miglioramento” la crescente presenza di stranieri nei lavori più qualificati e la riduzione dell’overqualification rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, ammette che la maggior parte dei lavoratori stranieri rimane impiegata in occupazioni a bassa qualifica e con contratti temporanei. In altri termini, la “leva di crescita” su cui l’Europa si sta appoggiando è fatta ancora oggi di precarietà, sottoutilizzo delle competenze e fragilità contrattuale.
È necessario ribaltare il paradigma.
L’Europa non può costruire il proprio futuro sulla disponibilità di manodopera straniera da impiegare in condizioni spesso subalterne, né può tollerare un sistema in cui il diritto a restare sul territorio sia subordinato unicamente all’essere funzionali al sistema produttivo.
Il lavoro, certo, è un indicatore importante, ma non può essere l’unico. Il criterio guida deve essere l’integrazione.
Integrazione non come generico inserimento, ma come partecipazione effettiva e responsabile alla vita della comunità nazionale. Integrazione linguistica, sociale, culturale, giuridica. Il rispetto delle regole, la volontà di stabilirsi, la capacità di contribuire alla società nel suo complesso – non solo al PIL – devono diventare il vero metro di giudizio per la permanenza sul territorio europeo.
È in questa prospettiva che propongo, ormai da tempo, il principio di Integrazione o Reimmigrazione.
Chi dimostra di volersi integrare realmente va messo nelle condizioni di restare e di progredire.
Chi invece rifiuta consapevolmente ogni percorso di integrazione, chi resta ai margini per scelta o ostilità verso i valori della società ospitante, deve essere accompagnato a un rientro dignitoso ma deciso nel Paese di origine.
Continuare a leggere l’immigrazione soltanto in chiave economica significa ignorare ciò che rende sostenibile una democrazia. Le persone non sono ingranaggi.
Le politiche migratorie devono essere orientate alla costruzione di comunità, non alla ricerca di forza lavoro usa e getta. La vera sfida europea non è “quanti migranti servono”, ma quanti migranti vogliono davvero far parte della nostra società.
In conclusione, il blog della BCE dimostra con chiarezza come l’establishment europeo continui a guardare all’immigrazione con lenti contabili.
È tempo, invece, di una politica migratoria che metta al centro le persone, i valori, e l’identità democratica delle nazioni europee. Solo così l’immigrazione potrà smettere di essere un problema o una leva e diventare un’opportunità fondata sull’appartenenza.
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