Articolo a cura dell’Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36), in materia di Migrazione e Asilo
Nel contesto europeo attuale, attraversato da tensioni sociali e crisi di fiducia nella capacità delle istituzioni di gestire i flussi migratori in modo ordinato ed equo, il recente mini‑summit sull’immigrazione promosso dall’Italia a Bruxelles il 26 giugno 2025 rappresenta un passaggio politico di rilievo. La partecipazione di numerosi Stati membri, tra cui Germania, Grecia, Polonia e Svezia, ha confermato che esiste una convergenza crescente su un’esigenza comune: porre fine alla gestione frammentaria e inefficace del fenomeno migratorio, in favore di un approccio unitario, pragmatico e rispettoso dei diritti.
In tale scenario, l’Italia non si limita più al ruolo di Paese di primo ingresso, ma si propone come capofila nella costruzione di una nuova visione europea dell’immigrazione. Il Ministro Foti ha rilanciato una linea d’azione fondata sulla cooperazione rafforzata tra Stati membri, sul dialogo strutturato con i Paesi di origine e transito e, soprattutto, sulla necessità di regolare con fermezza l’ingresso e la permanenza sul territorio dell’Unione. Questo cambio di passo non può tuttavia esaurirsi in dichiarazioni politiche o tavoli negoziali, ma deve tradursi in un paradigma operativo e giuridico coerente con i principi dell’Unione e con le esigenze concrete dei cittadini europei.
In questa prospettiva, il concetto che propongo da tempo – “integrazione o reimmigrazione” – trova finalmente un terreno di legittimazione. È un principio che si fonda su una premessa semplice e rigorosa: lo straniero che viene accolto ha il dovere, non la facoltà, di integrarsi nella comunità che lo ospita. Non si può più tollerare una permanenza indifferenziata e indeterminata sul territorio nazionale per soggetti che, anche dopo anni, non abbiano dato alcuna prova di inserimento, di rispetto delle regole, di partecipazione sociale o di autonomia economica.
Questo non significa negare i diritti fondamentali. Significa condizionarli, in misura progressiva e proporzionata, al rispetto di un patto sociale implicito: da una parte lo Stato garantisce protezione, servizi e dignità; dall’altra il migrante deve impegnarsi a diventare parte attiva del tessuto collettivo. L’integrazione non può essere più solo un auspicio o una variabile culturale: deve essere un obbligo giuridico, valutabile in base a parametri oggettivi e, in caso di inadempienza strutturale e reiterata, deve poter legittimare misure di reimmigrazione assistita. Non parliamo di espulsioni arbitrarie, ma di un rientro ordinato, concordato, umanamente dignitoso per chi, pur avendo avuto l’opportunità, ha scelto di restare ai margini.
L’Italia può e deve portare questa visione al centro del dibattito normativo europeo. La sua posizione geopolitica, il suo peso nei flussi mediterranei, la sua esperienza amministrativa e il suo recente protagonismo diplomatico la rendono il soggetto più adatto a farsi promotore di un’iniziativa legislativa che definisca in modo chiaro e vincolante cosa significhi oggi “integrazione” e come debba essere gestito chi, legittimamente, rifiuta di integrarsi.
Non si tratta di introdurre un sistema punitivo, ma di rendere il diritto coerente con il principio di responsabilità. Il migrante non è solo portatore di bisogni, ma anche di doveri. E le politiche migratorie non possono continuare ad alimentarsi di emergenze, automatismi e illusioni umanitarie. È giunto il momento di fissare regole chiare, esigibili, eque, per tutti. La reimmigrazione, in questa visione, non è uno stigma, ma un atto razionale e necessario per restituire credibilità al sistema e stabilità alle nostre società.
Il vertice del 26 giugno è stato un segnale. Ora serve un progetto. E il paradigma “integrazione o reimmigrazione” può essere la base normativa e culturale su cui costruirlo.
Lascia un commento