Il diritto a restare passa dall’integrazione: l’esempio della Protezione Complementare

di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato UE n. 280782895721-36

Nel sistema attuale della protezione complementare si afferma un principio ormai giuridicamente consolidato: il diritto a restare in Italia è subordinato a un percorso individuale di integrazione, che deve essere dimostrato dal richiedente e sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria.

Non si tratta più di una mera dichiarazione d’intenti né di un automatismo fondato sulla durata della presenza nel territorio nazionale.

Al contrario, l’accesso alla protezione complementare richiede una verifica concreta, puntuale, approfondita, del livello effettivo di radicamento personale, familiare e sociale raggiunto dal cittadino straniero. Chi non dimostra di voler appartenere realmente alla comunità nazionale, non può rimanere.

La giurisprudenza recente: quattro casi, quattro nazionalità, un solo principio

Le sentenze emesse nel 2025 dal Tribunale Ordinario di Bologna – Sezione Immigrazione costituiscono un importante corpus giurisprudenziale utile a comprendere la direzione in cui si sta muovendo il diritto dell’immigrazione, e confermano in modo uniforme che l’integrazione costituisce condizione giuridica per l’accesso alla protezione.

  • Sentenza R.G. 15841/2023, emessa il 19 maggio 2025: riguarda un cittadino peruviano, il quale ha ottenuto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso per protezione complementare in forza di un radicamento lavorativo e personale ormai consolidato. Il tribunale richiama il principio secondo cui la comparazione tra la situazione in Italia e nel paese d’origine va condotta tenendo conto dell’effettivo inserimento sociale, non solo del lavoro.
  • Sentenza R.G. 12303/2023, emessa il 12 maggio 2025: riconosciuta la protezione complementare a un cittadino marocchino sulla base della sua permanenza pluriennale e del percorso di integrazione svolto, sebbene inizialmente sottovalutato dalla Commissione territoriale. Il giudice sottolinea che non è sufficiente la presenza fisica, ma serve una prova concreta della partecipazione alla vita sociale.
  • Sentenza R.G. 8632/2024, emessa il 28 gennaio 2025: il tribunale riconosce la protezione a un cittadino tunisino con lavoro stabile, buona conoscenza della lingua italiana, e un tessuto relazionale basato su frequentazioni e responsabilità familiari. La sua condizione personale viene valutata in relazione al rischio di sradicamento e deprivazione del diritto alla vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU.
  • Sentenza R.G. 8636/2023, emessa il 16 aprile 2025: riguarda una donna albanese, madre e coniuge, priva di occupazione ma stabilmente presente sul territorio e pienamente inserita nella rete scolastica e domestica familiare. Il tribunale valorizza la “vita familiare effettiva” come criterio autonomo e sufficiente, confermando l’orientamento per cui la protezione può essere concessa anche in assenza di requisiti lavorativi se ricorrono condizioni familiari significative.

La protezione complementare come verifica giudiziale dell’integrazione

A emergere da queste decisioni è l’immagine di un giudice della protezione che assume il ruolo di valutatore dell’integrazione individuale. Non si limita ad accertare la presenza di elementi formali o l’assenza di pericoli nel paese d’origine: verifica, caso per caso, il grado di inserimento reale del richiedente nel contesto sociale italiano.

Tale verifica coinvolge:

  • la lingua parlata e compresa;
  • il lavoro svolto (anche irregolare, se sintomatico di autonomia);
  • le relazioni personali e familiari in Italia;
  • la durata della permanenza;
  • la assenza di legami significativi col Paese d’origine.

Il parametro giuridico non è più l’astratta vulnerabilità, ma la concreta incompatibilità tra l’integrazione raggiunta e l’imposizione di un rimpatrio.

Integrazione o ReImmigrazione: la nuova frontiera normativa

La giurisprudenza mostra chiaramente che non si può più rimanere in Italia senza integrarsi. Questo implica una ridefinizione del concetto stesso di “diritto al soggiorno”.
Non è più sufficiente vivere nel territorio nazionale: è necessario appartenere, secondo criteri valutabili, a una comunità sociale e giuridica.

È in questa prospettiva che si colloca il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”:

  • chi percorre volontariamente un cammino di integrazione ha titolo per restare;
  • chi non lo fa o lo rifiuta, deve affrontare un rientro assistito o obbligato nel Paese d’origine.

Non si tratta di discriminazione, ma di coerenza costituzionale: i diritti possono essere garantiti solo a chi rispetta i doveri fondamentali di partecipazione alla vita comune. L’integrazione non è un’astrazione: è un dovere civile.

Conclusioni: un diritto condizionato alla responsabilità

Le sentenze analizzate dimostrano che la protezione complementare, lungi dall’essere una scorciatoia amministrativa, è diventata lo spazio giuridico in cui si valuta la volontà concreta di integrarsi.
Chi si inserisce, partecipa, rispetta le regole e costruisce legami ha diritto alla protezione.
Chi non lo fa, non può più invocare una permanenza incondizionata.

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