Nel suo recente articolo intitolato “Remigrazione, la parola che certifica una sconfitta etica” (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/remigrazione-la-parola-che-certifica-una-sconfitta-etica ), il quotidiano Avvenire propone una lettura fortemente critica – e a tratti ideologica – del concetto di ReImigrazione, associandolo in modo semplicistico a derive estreme, a pratiche disumane e a scenari da deportazione forzata.
Una lettura che, tuttavia, ignora deliberatamente la possibilità di considerare la ReImigrazione come uno strumento legittimo, ordinato e coerente di politica pubblica, inserito in una visione più ampia di gestione del fenomeno migratorio.
Chi scrive ha sviluppato e promosso un paradigma alternativo e profondamente civico chiamato “Integrazione o ReImmigrazione”, che si fonda su tre pilastri chiari: lavoro, lingua e rispetto delle regole.
Secondo questo approccio, chi dimostra di integrarsi nel tessuto sociale, culturale e normativo del Paese ospitante ha pieno diritto a restare.
Ma, al tempo stesso, non può esistere un diritto automatico e incondizionato alla permanenza per chi rifiuta sistematicamente di integrarsi.
Questo non ha nulla a che vedere con deportazioni, catene, repressioni o discriminazioni.
Si tratta, invece, di una visione di equilibrio tra diritti e doveri, in linea con le migliori tradizioni democratiche e costituzionali europee.
Parlare di ReImigrazione non significa adottare un linguaggio autoritario, ma riconoscere che la permanenza in uno Stato non può prescindere da una forma minima di appartenenza attiva e responsabile.
L’articolo di Avvenire commette un errore fondamentale: quello di leggere la ReImigrazione esclusivamente attraverso la lente deformante della storia più oscura del Novecento o delle odierne derive estremiste, senza considerare che esistono forme giuridicamente legittime e moralmente giustificate di ritorno assistito e volontario, attivate in tutto il mondo da governi democratici, organizzazioni internazionali e perfino associazioni umanitarie.
C’è una differenza profonda tra chi invoca la ReImigrazione come strumento di “pulizia etnica” e chi, come nel paradigma Integrazione o ReImmigrazione, la propone come conseguenza logica del fallimento (o del rifiuto) dell’integrazione, sempre nel rispetto della dignità umana e dei principi dello Stato di diritto.
Inoltre, l’idea che la ReImigrazione rappresenti una “sconfitta etica” è fuorviante: la vera sconfitta etica è tollerare passivamente il degrado dell’integrazione, l’illegalità diffusa, le sacche di isolamento culturale, senza avere il coraggio di dire che l’immigrazione non è un fatto neutro, ma una sfida che richiede reciprocità.
La ReImigrazione non nega i diritti; riconosce i limiti dell’accoglienza in assenza di doveri.
E infine, è un errore anche sul piano linguistico. Come ricordato dallo stesso Avvenire, il verbo “remigrare” è attestato già nel Cinquecento con il significato neutro di “tornare al luogo d’origine”.
Non è la parola in sé ad essere violenta: è l’uso politico e il contesto applicativo a determinarne il valore. Ed è qui che sta la responsabilità della classe dirigente, non nel censurare un termine, ma nel orientarne correttamente il significato e le implicazioni operative.
In conclusione, chi liquida la ReImigrazione come “inaccettabile” rinuncia a pensare in modo realistico, riformista e giusto il fenomeno migratorio.
Occorre invece uscire dalla logica dei tabù e iniziare a costruire un modello fondato sulla integrazione come dovere e sulla ReImigrazione come conseguenza residuale e regolata, nel caso in cui l’integrazione venga rifiutata.
Non è una sconfitta etica. È una scelta di responsabilità politica e di coerenza sociale.
Avv. Fabio Loscerbo
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