ReImmigrazione non è remigrazione. Perché la confusione linguistica rischia di oscurare il diritto

Il recente contributo pubblicato su Italiano Digitale dall’Accademia della Crusca dedicato al termine remigrazione, si presenta come un’analisi linguistica di un neologismo entrato nel dibattito pubblico europeo.

Tuttavia, al di là dell’apparente finalità descrittiva, il testo opera una traslazione che merita di essere problematizzata: dalla ricostruzione semantica si passa a un giudizio implicito di legittimità, nel quale ogni riferimento all’idea di ritorno o di uscita dal territorio viene progressivamente associato a pratiche di deportazione di massa e a pulsioni illiberali.


In questo quadro, anche il termine ReImmigrazione viene indirettamente coinvolto per contiguità linguistica, pur trattandosi di un concetto radicalmente diverso. È quindi necessario chiarire che remigrazione e ReImmigrazione non sono sovrapponibili, né sul piano concettuale né, soprattutto, sul piano giuridico.


La prima distinzione riguarda il rapporto tra linguaggio e ordinamento. Nel diritto non è la parola a creare l’istituto, ma l’istituto a determinare il significato giuridico della parola. L’analisi proposta dalla Crusca rovescia questo rapporto, attribuendo al termine remigrazione un contenuto politico univoco e facendo discendere da tale contenuto un giudizio di illegittimità esteso, per contiguità, a qualunque proposta che richiami l’idea del ritorno. Si tratta di un’impostazione che prescinde dal dato normativo e che finisce per oscurare la struttura effettiva del diritto dell’immigrazione.
Nel diritto positivo italiano ed europeo, l’uscita dello straniero dal territorio dello Stato non costituisce un’anomalia, ma un esito fisiologico previsto da una pluralità di istituti pienamente legittimi. L’espulsione amministrativa, il diniego o la revoca del titolo di soggiorno, l’allontanamento per motivi di ordine pubblico o sicurezza, il rimpatrio volontario assistito e il rimpatrio forzato eseguito con garanzie procedurali sono strumenti ordinari dell’ordinamento, sottoposti a limiti di legge e a controllo giurisdizionale. Nessuno di essi è qualificabile, in quanto tale, come deportazione o violenza istituzionale.


È proprio a partire da questo dato che va compreso il significato della ReImmigrazione. Essa non è un paradigma politico, né una proposta ideologica, ma un paradigma giuridico, che ricostruisce in modo coerente principi già esistenti nell’ordinamento. La ReImmigrazione non introduce nuove categorie, né invoca misure eccezionali o collettive. Essa si limita a riaffermare un principio elementare dello Stato di diritto: la permanenza sul territorio è condizionata al rispetto delle regole che disciplinano l’ingresso, il soggiorno e l’integrazione.


In questa prospettiva, l’integrazione non è un fatto simbolico o meramente culturale, ma un insieme di obblighi giuridicamente rilevanti. Quando tali obblighi vengono sistematicamente disattesi, l’uscita dal territorio non rappresenta una sanzione morale né una scelta politica discrezionale, ma la conseguenza prevista dall’ordinamento. La ReImmigrazione non si contrappone all’integrazione, ma ne costituisce il necessario completamento giuridico: un sistema che contempla l’ingresso e la permanenza senza prevedere in modo ordinato anche l’uscita è un sistema incompleto.


Il contributo della Crusca sembra invece muovere da un presupposto implicito diverso: che la permanenza sia, in sé, un diritto morale e che l’uscita dal territorio costituisca sempre una forma di violenza. Si tratta di una posizione legittima sul piano ideologico, ma che non può essere assunta come criterio di lettura del diritto. La sovrapposizione tra ritorno, espulsione e deportazione produce una semplificazione che non trova riscontro nell’ordinamento e che finisce per sottrarre spazio al confronto razionale.
Le parole non sono neutre, ma non sono neppure colpevoli per associazione storica. Demonizzare un termine significa spesso evitare il confronto sul contenuto che esso intende nominare. Rendere impronunciabile una parola equivale a rendere impraticabile una soluzione giuridica.

È per questo che il chiarimento sulla ReImmigrazione è oggi necessario: non per difendere un lessico, ma per riaffermare la centralità del diritto come strumento di governo dei fenomeni migratori.

ReImmigrazione non è remigrazione.
La prima è una ricostruzione giuridica fondata su regole, condizioni e responsabilità individuale.
La seconda è una parola caricata di significati politici che nulla hanno a che vedere con il funzionamento ordinario dello Stato di diritto.

Avv. Fabio Loscerbo
Avvocato – Foro di Bologna
Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
ID 280782895721-36

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