Rimpatri impossibili e integrazione assente: perché la riforma UE non può funzionare senza ReImmigrazione

1. Il limite strutturale dei rimpatri: l’identificazione che non c’è
Per rimpatriare una persona non basta accelerare le procedure o dichiarare un Paese “sicuro”. Il rimpatrio è possibile solo se la persona è identificata e se il Paese d’origine accetta di riaccoglierla. La riforma non incide su nessuno di questi due elementi.

La maggior parte degli irregolari non documentati rimane tale proprio perché l’identificazione non dipende dall’Unione Europea, ma dalla collaborazione del Paese di origine, che spesso non ha alcun interesse strategico a facilitare le procedure europee.

La riforma, pur introducendo filtri più rapidi, non offre strumenti per superare l’ostacolo che blocca la gran parte dei rimpatri: l’impossibilità materiale di collegare un’identità certa a una persona che non vuole fornirla o che proviene da un Paese che non collabora.


2. L’Europa parla di rimpatri ma non affronta gli irregolari non rimpatriabili
L’intero impianto normativo si concentra sulla gestione dell’ingresso e dei primi giorni di procedura, soprattutto in frontiera. Tuttavia, resta privo di qualunque risposta il tema più delicato: che cosa accade quando una persona non può essere rimpatriata?

La riforma non disciplina alcuno status residuo, non definisce un percorso, non prevede una strategia di gestione interna.

È come se il legislatore europeo considerasse marginale una categoria che invece rappresenta il cuore reale del problema migratorio contemporaneo: le persone che ricevono un ordine di espulsione, ma che nessuno Stato accetta e nessuno Stato può effettivamente rimandare indietro.

In assenza di una disciplina specifica, queste persone precipitano in una condizione di irregolarità permanente, senza diritti e senza obblighi, generando esattamente quella zona grigia che alimenta insicurezza, sfruttamento e tensioni sociali.


3. Senza un criterio selettivo, l’Europa non sa decidere chi può restare
La riforma europea continua a considerare esclusivamente il momento dell’ingresso, come se la gestione dell’immigrazione si esaurisse in una combinazione di controlli, procedure e trattenimenti.

Manca del tutto una politica della permanenza, fondata su criteri di responsabilità individuale.

Non vi è alcun riferimento all’integrazione come dovere, nessun collegamento tra la permanenza sul territorio e il comportamento tenuto durante il soggiorno, nessuna valorizzazione del lavoro, della lingua o del rispetto delle regole.

In questo modo l’Europa rinuncia a distinguere chi, pur partendo da una condizione irregolare, dimostra di volersi integrare e contribuire alla comunità, da chi invece rifiuta qualunque percorso di responsabilizzazione.

Il risultato è un sistema incompleto che non si pone la domanda più rilevante: come si definisce il diritto di restare? Un’Unione che accelera i rimpatri ma non definisce i criteri per stabilire chi merita la permanenza crea un modello incoerente, incapace di costruire coesione e sicurezza a lungo termine.


4. Perché il paradigma Integrazione o ReImmigrazione è la chiave mancante
Il paradigma Integrazione o ReImmigrazione colma esattamente questa lacuna. Al contrario del modello europeo, esso collega la permanenza sul territorio non solo alla condizione di partenza, ma al comportamento successivo.

L’integrazione è considerata un obbligo, non una scelta eventuale; un percorso verificabile e misurabile che si fonda su tre dimensioni essenziali: la partecipazione lavorativa, la conoscenza della lingua e delle regole fondamentali e il rispetto della legalità.

In questo modo la comunità ospitante non subisce passivamente l’ingresso, ma definisce un patto chiaro con chi arriva: impegnati nel tuo percorso di integrazione e potrai restare; violalo o rifiutalo e la tua permanenza non sarà confermata.

Questo paradigma non è alternativo alla riforma europea, ma complementare. Esso introduce quel criterio di responsabilità individuale che consente agli Stati di governare l’immigrazione non solo dal punto di vista securitario, ma anche da quello sociale e comunitario. Senza un modello di questo tipo, l’Europa continuerà a oscillare tra annunci politici e risultati operativi modesti.


5. Il rischio reale: una riforma destinata a deludere tutti
Una riforma che promette più rimpatri, ma non affronta i limiti materiali dei rimpatri stessi, è destinata a generare aspettative irrealistiche. Una riforma che ignora gli irregolari non rimpatriabili produce marginalità, non ordine. Una riforma che non definisce criteri di integrazione non può costruire sicurezza.

L’Unione Europea rischia di ripetere un copione già visto: proclamare una svolta, ma non incidere sulla realtà.
Affrontare il fenomeno migratorio richiede un cambio di paradigma.

Significa riconoscere che la gestione dell’immigrazione non può limitarsi alla fase dell’ingresso, ma deve affrontare in modo maturo e responsabile la fase della permanenza. Significa distinguere tra chi contribuisce alla comunità e chi vi si sottrae. Significa affermare che il rispetto delle regole non è un’opzione, ma la condizione minima per restare.

In questo senso, Integrazione o ReImmigrazione non è uno slogan, ma l’unico modello in grado di colmare il vuoto lasciato dalla riforma europea.


Avv. Fabio Loscerbo
Lobbyist – EU Transparency Register ID: 280782895721-36

Commenti

Lascia un commento