(Nota critica alla scheda dell’Accademia della Crusca)
La scheda dell’Accademia della Crusca dedicata al termine remigrazione contiene un passaggio che merita una contestazione esplicita: l’indicazione di ReImmigrazione come semplice “variante” di remigrazione.
Non si tratta di una sfumatura terminologica, ma di una forzatura concettuale che produce effetti rilevanti sul piano culturale e politico.
L’equiparazione tra i due termini non è un dato linguistico neutro, bensì una scelta interpretativa che appiattisce significati profondamente diversi, trascinando la reimmigrazione dentro una narrazione ideologica che le è estranea.
È proprio questo passaggio che va messo in discussione.
Sul piano linguistico, remigrazione e ReImmigrazione non sono sinonimi. Condividono una radice comune, ma svolgono funzioni semantiche differenti. Remigrazione indica, in senso lato, un ritorno al luogo di origine dopo una migrazione. ReImmigrazione, invece, presuppone un elemento ulteriore e decisivo: l’esistenza di un rapporto giuridico pregresso con l’ordinamento di destinazione, che viene meno o si esaurisce.
La ReImmigrazione non è un movimento astratto né un progetto identitario. È l’esito di un percorso di integrazione fallito o concluso, valutato secondo regole, tempi e criteri verificabili. È, in altre parole, una categoria di sistema, non uno slogan politico.
La scheda della Crusca, al contrario, assume come dominante l’accezione ideologica estrema di remigrazione – deportazione, espulsione collettiva, progetto identitario – e trascina automaticamente anche la ReImmigrazione in quel campo semantico, senza alcuna giustificazione tecnica.
In questo modo, una parola che descrive una funzione ordinaria dello Stato viene resa sospetta per contaminazione.
Ma la reimmigrazione, nel paradigma Integrazione o ReImmigrazione, non ha nulla a che vedere con pratiche collettive o logiche etniche.
Presuppone una valutazione individuale, un percorso concreto di integrazione, un esito negativo accertato e una conseguenza coerente sul piano amministrativo o giudiziario.
È ciò che accade quando l’integrazione, che non è mai automatica né incondizionata, non si realizza.
Definirla una “variante” di remigrazione significa negare questa distinzione fondamentale e confondere deliberatamente piani diversi: quello del linguaggio politico radicale e quello del diritto positivo. Una confusione che non chiarisce il fenomeno migratorio, ma lo rende ideologicamente impraticabile.
Il paradosso è evidente: mentre gli ordinamenti europei applicano quotidianamente meccanismi di uscita – dinieghi, revoche, espulsioni, rimpatri – il dibattito culturale si rifiuta di riconoscere un lessico giuridicamente neutro per descriverli. Così facendo, l’integrazione viene privata della sua controparte necessaria e perde ogni credibilità.
La ReImmigrazione non è una parola “manomessa”.
È una parola necessaria, perché descrive una funzione che gli Stati hanno sempre esercitato: decidere non solo chi può entrare, ma anche chi non può restare.
Senza ReImmigrazione, l’integrazione è una finzione retorica.
Senza integrazione, la ReImmigrazione diventa inevitabile.
Negare questa realtà significa rinunciare a governare il fenomeno migratorio.
Avv. Fabio Loscerbo
Avvocato – Lobbista UE (Registro per la Trasparenza n. 280782895721-36)
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