di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36
L’impressione che spesso si ricava dal dibattito pubblico è quella di uno scarto crescente tra la complessità del diritto e la semplificazione brutale del linguaggio dei social. L’espressione “galera e poi remigrazione” è ormai entrata nella narrativa quotidiana, come se fosse uno strumento giuridico disponibile, immediato e soprattutto applicabile in modo automatico.
Ma l’ordinamento italiano non funziona così, e continuare a ragionare in termini binari significa non comprendere né le regole già vigenti né le reali esigenze di un sistema migratorio moderno.
Il primo equivoco riguarda gli stranieri irregolari. Per costoro, parlare di “remigrazione” è un non-senso tecnico: la legge già prevede che non possano permanere sul territorio nazionale. L’allontanamento, laddove eseguibile, è già lo sbocco naturale della loro condizione giuridica.
È retorico immaginare un’ulteriore misura quando l’ordinamento ha già definito il quadro: una persona irregolare non acquisisce un diritto alla permanenza solo per il fatto di aver commesso un reato, né la commissione di un reato aggiunge qualcosa al suo status. In altre parole, la “remigrazione” per gli irregolari è un concetto vuoto, costruito più per alimentare una percezione che per rispondere a un problema reale.
Diverso, e più delicato, è il discorso per gli stranieri regolari. Qui emergono due principi costituzionali che non è possibile ignorare. Il primo è la funzione rieducativa della pena, scolpita nell’articolo 27: se la pena serve a favorire il reinserimento sociale, allora l’idea di un allontanamento automatico dopo la sua esecuzione contraddice la ratio stessa del sistema. Il secondo principio è quello di proporzionalità, che impone di valutare il percorso individuale, le relazioni sviluppate, la condotta successiva al reato, le modalità con cui la persona si è reinserita nel contesto lavorativo e sociale.
Per questo trovo sterile la proposta di reintrodurre, sotto nuove etichette, meccanismi di automatismo espulsivo: non solo rischiano di collidere con la Costituzione, ma non intercettano ciò che oggi dovrebbe essere il cuore di una politica migratoria efficace.
La sicurezza non si costruisce punendo “dopo”, ma definendo “prima” le condizioni della permanenza. Non è l’aver commesso un reato a dover decidere del futuro di una persona, ma l’aver fallito o meno il proprio percorso di integrazione.
È qui che entra in gioco il paradigma Integrazione o ReImmigrazione. Esso non è una risposta emotiva, ma un modello strutturale che distingue chiaramente chi dimostra di voler appartenere alla comunità nazionale da chi invece rifiuta quel patto minimo fatto di lavoro, conoscenza della lingua e rispetto delle regole.
È un paradigma che si oppone alla remigrazione intesa come formula improvvisata e reattiva, perché propone invece un’architettura preventiva, fondata su criteri oggettivi, verificabili e coerenti con la tradizione giuridica italiana.
La permanenza dello straniero non può più poggiare esclusivamente sulla capacità lavorativa, come se l’inserimento sociale fosse un elemento secondario. Va ribaltata la prospettiva: il lavoro è uno strumento dell’integrazione, non il suo surrogato. L’integrazione deve tornare ad essere la condizione primaria, il parametro che misura davvero l’affidabilità di un percorso migratorio e la sua compatibilità con l’interesse generale dello Stato.
Se questa condizione viene meno, allora sì, la ReImmigrazione diventa la conseguenza naturale, non la punizione.
In questo senso, la ReImmigrazione non è né un atto punitivo né una misura straordinaria: è la conclusione logica di un percorso non compiuto. Non sostituisce la rieducazione, non ignora la Costituzione, non cancella il principio di umanità dell’ordinamento. Semplicemente ripristina il concetto che la permanenza nel territorio nazionale è un atto di responsabilità reciproca, non un automatismo perpetuo.
Quando si guarda con onestà alla realtà normativa, la distanza tra remigrazione e ReImmigrazione diventa evidente. La prima è uno slogan. La seconda è un paradigma.
Per questo la ritengo l’unica strada davvero in grado di trasformare il dibattito pubblico in una politica migratoria coerente, costituzionalmente sostenibile e capace di rispondere – finalmente – alle esigenze reali del Paese.

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