Il fallimento silenzioso delle seconde generazioni: cosa raccontano davvero gli IPM

Nel dibattito pubblico italiano sull’immigrazione si continua a parlare di integrazione come se fosse un processo naturale, automatico, quasi biologico. Crescere in Italia, frequentare le scuole italiane, parlare la lingua: tutto questo, secondo la narrazione dominante, dovrebbe produrre integrazione per inerzia. Eppure c’è un luogo istituzionale in cui questa narrazione si incrina in modo netto, senza slogan e senza filtri ideologici: gli Istituti Penali per Minorenni.

I dati sulla detenzione minorile non sono un dettaglio marginale del sistema penale. Sono, al contrario, un indicatore anticipatore. Quando un numero significativo di minori entra nel circuito penale, lo Stato sta intercettando non un fallimento individuale isolato, ma una rottura nel processo di socializzazione giuridica. Ed è qui che le statistiche assumono un valore politico, prima ancora che criminologico.

Da anni, le rilevazioni ufficiali e i rapporti indipendenti mostrano una sovra-rappresentazione dei minori stranieri negli IPM rispetto alla loro incidenza nella popolazione giovanile complessiva. Ma il dato più rilevante, e meno discusso, è che una parte consistente di questi ragazzi non è composta da “nuovi arrivati”, bensì da giovani cresciuti in Italia, spesso scolarizzati, talvolta nati sul territorio nazionale. Le cosiddette seconde generazioni. Proprio quelle che, nella retorica pubblica, dovrebbero incarnare il successo dell’inclusione.

Il problema è che il sistema statistico italiano continua a ragionare in termini di cittadinanza formale, non di percorso reale. Chi ha cittadinanza straniera viene classificato come “straniero”, anche se è arrivato da bambino o non ha mai conosciuto un altro Paese. Chi ha acquisito la cittadinanza italiana, invece, scompare del tutto da qualsiasi analisi sull’origine migratoria. Il risultato è un vuoto conoscitivo che consente alla politica di evitare la domanda centrale: perché una parte delle seconde generazioni entra in conflitto strutturale con l’ordinamento giuridico dello Stato in cui è cresciuta?

Gli IPM raccontano una verità scomoda. Raccontano che l’integrazione non è una questione di tempo, ma di regole interiorizzate. Non è una questione di diritti concessi, ma di doveri effettivamente assunti. Non è una questione culturale astratta, ma un rapporto concreto con l’autorità, la legge, il limite. Dove questo rapporto non si costruisce, o si costruisce in modo distorto, il conflitto emerge prima della maggiore età.

C’è un dato che dovrebbe far riflettere chi continua a parlare di “integrazione automatica”: il sistema penale minorile non intercetta marginalità invisibili, ma comportamenti penalmente rilevanti. L’ingresso in un IPM è l’esito di una violazione grave delle regole, non di un disagio generico. E quando queste violazioni si concentrano in specifici segmenti della popolazione giovanile, il problema non è più individuale, ma sistemico.

Per anni si è preferito spiegare questo fenomeno esclusivamente in termini socio-economici, come se la povertà o l’esclusione bastassero da sole a produrre devianza. Ma questa lettura è insufficiente. Esistono contesti sociali difficili che non producono la stessa incidenza penale. Ciò che fa la differenza è il grado di integrazione normativa: la capacità, o l’incapacità, di riconoscere lo Stato come fonte legittima di regole vincolanti.

È qui che il paradigma Integrazione o ReImmigrazione diventa inevitabile. Non come slogan, ma come criterio di responsabilità pubblica. Se l’integrazione fallisce, e i dati sugli IPM indicano che in una parte delle seconde generazioni questo fallimento è già visibile, lo Stato non può limitarsi a registrare il fenomeno. Deve scegliere. Deve investire in integrazione reale, esigente, fondata su lingua, lavoro, rispetto delle regole e sanzione effettiva delle violazioni. Oppure deve prendere atto che, in assenza di integrazione riuscita, il ritorno nel Paese di origine non è una punizione, ma una funzione ordinaria dello Stato di diritto.

Continuare a ignorare ciò che accade negli istituti penali per minorenni significa rinviare il problema di qualche anno. Ma quei minori, prima o poi, diventano adulti. E quando il fallimento dell’integrazione arriva nel circuito penale ordinario, il costo sociale, giuridico e politico è immensamente più alto.

Gli IPM non sono un’eccezione. Sono un segnale. E come tutti i segnali ignorati, preparano crisi più grandi.

Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

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