Tra controlli e quote: il decreto flussi 2025 razionalizza l’ingresso ma ignora la questione cruciale dell’integrazione

La legge di conversione del decreto-legge 3 ottobre 2025, n. 146, rappresenta l’ennesimo tentativo di intervenire sul meccanismo dei flussi di ingresso dei lavoratori stranieri attraverso una serie di aggiustamenti tecnici rivolti alla razionalizzazione amministrativa.

Il legislatore ha scelto di concentrare il proprio intervento sulla fase genetica della procedura, rafforzando strumenti di controllo, interoperabilità, verifica documentale e uniformazione delle tempistiche.

È un impianto che, sotto il profilo strettamente procedurale, appare coerente con l’intento di rendere più ordinato il processo autorizzatorio e di ridurre le disfunzioni accumulatesi negli ultimi anni.

Tuttavia, l’attenzione dedicata alla dimensione amministrativa del fenomeno evidenzia un limite strutturale che ormai caratterizza in modo ricorrente la politica italiana in materia di immigrazione: l’ingresso è regolato con precisione crescente, mentre l’integrazione continua a essere un territorio privo di una disciplina organica.

La legge di conversione affina il procedimento di rilascio dei nulla osta, istituzionalizza la precompilazione, rende sistematici i controlli di veridicità e interviene sui margini di discrezionalità dei datori di lavoro.

Il risultato è una procedura più controllata e più prevedibile, capace di ridurre la proliferazione di domande non attendibili o presentate in assenza di un reale fabbisogno.

Si tratta, senza dubbio, di elementi utili a ristabilire un minimo di serietà nel sistema.

Tuttavia, questa cura per la parte iniziale del percorso non trova corrispondenza nella fase successiva, quella che più incide sulla coesione sociale e sulla stabilità a lungo termine del rapporto tra Stato e cittadino straniero. L’ingresso, infatti, è solo il primo segmento del processo migratorio; ciò che realmente determina gli esiti nel medio periodo è la permanenza, ed è proprio qui che la legge tace.

L’intervento normativo dedica spazio ai percorsi di inserimento socio-lavorativo solo quando si occupa delle categorie particolarmente vulnerabili, come le vittime di tratta, di sfruttamento lavorativo o di violenza domestica.

È un segmento importante, che risponde a esigenze specifiche e giustificate. Ma non riguarda la massa dei lavoratori che accederà al territorio nazionale attraverso i flussi ordinari, i quali, anche in questa riforma, continuano a essere privi di un quadro normativo che disciplini il percorso di integrazione linguistica, culturale e valoriale.

L’idea che il semplice svolgimento di un’attività lavorativa sia sufficiente a garantire l’integrazione è un presupposto che l’esperienza comparata smentisce da tempo e che, nonostante ciò, continua a rimanere alla base del sistema italiano.

La legge non considera i tre elementi fondamentali che determinano la possibilità di una permanenza equilibrata: il lavoro come strumento di autonomia economica, la lingua come veicolo di partecipazione sociale e il rispetto delle regole come presupposto del patto di cittadinanza.

Senza un intervento normativo che renda questi elementi parte integrante del percorso di permanenza, il sistema continuerà a produrre esiti casuali, nei quali la stabilizzazione del soggiorno dipende da fattori formali più che dal reale radicamento dello straniero nella comunità.

La coesione sociale, invece, richiede un modello strutturato che definisca obblighi, tappe e verifiche, superando definitivamente l’idea che l’integrazione sia un fenomeno spontaneo o una responsabilità delegata alla sola dimensione territoriale.

Il decreto flussi convertito in legge, pur migliorando la fase procedurale, lascia dunque intatto il vuoto più rilevante: l’assenza di una politica nazionale dell’integrazione che definisca ciò che accade dopo l’ingresso.

È un approccio che conferma la distanza tra il modello attuale e il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”.

Questo paradigma parte da un principio che il legislatore continua a ignorare: la permanenza non può essere un dato automatico; deve essere una responsabilità reciproca che si fonda su un percorso verificabile nel tempo.

L’Italia può continuare a ottimizzare moduli, piattaforme e automatismi, ma senza un sistema che colleghi la stabilizzazione del soggiorno a un’effettiva integrazione, la politica migratoria rimarrà intrappolata nello stesso schema degli ultimi decenni, capace di gestire l’ingresso ma non le conseguenze della permanenza.

La legge di conversione del 2025 consolida il controllo sui flussi, ma non affronta ciò che determina davvero il successo o il fallimento di una politica migratoria: l’integrazione effettiva delle persone che vengono ammesse nel territorio nazionale.

È un limite che non può più essere ignorato. Se l’obiettivo è costruire un modello capace di tutelare al tempo stesso sicurezza, coesione e sviluppo, allora la linea da seguire è chiara: l’Italia deve adottare un paradigma che renda l’integrazione un obbligo e non un’opzione, e che preveda un’alternativa ordinata e responsabile per chi, pur ammesso, non riesce o non vuole integrarsi.

È questa la logica di “Integrazione o ReImmigrazione”, ed è esattamente ciò che manca nella legge appena approvata.

Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

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