In Italia il dibattito sull’immigrazione continua a muoversi tra due poli opposti che, a ben vedere, hanno più in comune di quanto sembri.
Da un lato persiste un’idea di accoglienza automatica, quasi indipendente dalle reali capacità del Paese di costruire percorsi di integrazione solidi e controllabili.
Dall’altro cresce la spinta verso la remigrazione forzata, presentata come la soluzione finale a un sistema che non ha mai funzionato davvero.
È un pendolo che si ripete da anni: prima apriamo senza criteri, poi chiudiamo in ritardo, quando il contesto sociale è già compromesso.
La remigrazione, così come viene evocata nel dibattito politico, nasce sempre dopo il fallimento. Arriva quando i quartieri sono già diventati enclaves, quando il mercato del lavoro ha assorbito manodopera senza offrire strumenti di integrazione, quando i servizi pubblici sono già sotto pressione e quando l’opinione pubblica percepisce la presenza straniera come un problema di sicurezza. È una reazione tardiva, emotiva, l’ultimo stadio di un modello che non si è mai dotato di una vera architettura di gestione. E infatti la remigrazione, intesa come risposta di massa, finisce quasi sempre per scontrarsi con i limiti giuridici del nostro ordinamento: norme europee, vincoli convenzionali, garanzie procedurali. È la toppa messa a un sistema che non ha mai preteso integrazione prima di concedere stabilità.
La ReImmigrazione si colloca su un piano completamente diverso. Non interviene dopo la crisi: la previene. Immagina l’ingresso non come un atto definitivo, ma come l’avvio di un rapporto condizionato tra la persona straniera e lo Stato italiano.
Un rapporto che richiede impegno reciproco. Lo Stato offre percorsi – lingua, orientamento, formazione – ma pretende risultati verificabili, non vaghe dichiarazioni d’intenti. L’integrazione diventa un obbligo e non un’opzione. E quando questo obbligo non viene assolto, la permanenza non può essere illimitata: si attiva un percorso di ritorno ordinato, regolato, assistito, deciso fin dall’inizio e non improvvisato dopo anni di inerzia. È un processo trasparente, non una punizione collettiva.
Questa impostazione consente di leggere il Decreto Flussi 2025 con uno sguardo più lucido. L’Italia ha perfezionato la macchina di ingresso, definendo quote, procedure più rapide, corsi pre-partenza e accordi con i Paesi terzi. Ma tutto questo riguarda solo il primo tratto del percorso. Dopo l’ingresso, si torna al vecchio schema: rinnovi automatici, integrazione lasciata all’iniziativa individuale, assenza totale di verifiche sostanziali.
È questo vuoto che, negli anni, si trasforma in tensione sociale e che alimenta la domanda politica di “rimandarli a casa”. Un sistema che non distingue tra chi si integra e chi non lo fa è un sistema che prepara da solo le condizioni per la remigrazione emergenziale.
Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” risponde esattamente a questa lacuna. Impone che l’Italia, accanto alla programmazione dei flussi e alla gestione iniziale degli ingressi, definisca finalmente i criteri di permanenza: quando un percorso di integrazione può dirsi riuscito, quali standard devono essere rispettati, quali conseguenze derivano dall’assenza totale di integrazione. Non c’è nulla di punitivo.
È semplicemente la logica del patto: diritti in cambio di doveri, stabilità in cambio di integrazione.
La scelta, in fondo, è tutta qui. Continuare con l’alternanza fra apertura incontrollata e remigrazione forzata significa condannare il Paese allo stesso ciclo vizioso che osserviamo da vent’anni. Costruire un modello fondato sulla ReImmigrazione significa, invece, superare il pendolo e fondare la politica migratoria italiana su regole chiare, verificabili e sostenibili.
È il passo che l’Italia non ha ancora compiuto e che, prima o poi, dovrà compiere se vuole coniugare sicurezza, coesione sociale e dignità delle persone.
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea ID 280782895721-36

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