Da anni, in Italia, l’integrazione viene raccontata in un solo modo: come un dovere dello Stato e delle istituzioni.
Ogni convegno, ogni tavola rotonda, ogni programma pubblico ripete lo stesso schema: più accoglienza, più diritti, più inclusione.
Ma mai una parola sulla responsabilità di chi arriva, sul dovere di integrarsi, di rispettare le regole, di partecipare alla vita della comunità.
È il grande rimosso del dibattito pubblico.
La retorica dell’accoglienza si è trasformata in un alibi che deresponsabilizza lo straniero e, al tempo stesso, indebolisce il senso stesso dell’integrazione.
Perché senza reciprocità non c’è convivenza, e senza doveri condivisi nessuna società può dirsi coesa.
I convegni che si moltiplicano nelle città italiane — come quello organizzato a Bologna su “nuove cittadinanze e rappresentanza” — finiscono per rappresentare solo una parte della realtà: quella che vuole vedere nello straniero un soggetto sempre da tutelare, mai da coinvolgere in un patto di integrazione.
Si parla di accoglienza, ma non di appartenenza; di inclusione, ma non di partecipazione; di discriminazioni, ma non di comportamenti.
È su questo terreno che si innesta il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: un modello che restituisce equilibrio tra diritti e doveri, tra ospitalità e responsabilità.
Non si tratta di negare l’accoglienza, ma di darle un senso. Accogliere non significa rinunciare a chiedere integrazione; significa, al contrario, esigere impegno, rispetto, adesione ai valori comuni.
Un Paese può essere accogliente solo se la sua accoglienza è ordinata, coerente, e fondata su un principio di reciprocità.
Continuare a parlare solo di diritti, senza mai parlare di doveri, significa alimentare un sistema fragile, incapace di costruire comunità vere.
Per questo serve un cambio di paradigma: meno retorica, più realtà.
Non basta accogliere: bisogna integrare. E chi non sceglie l’integrazione, sceglie la reimmigrazione.
Il dibattito è aperto.
Avv. Fabio Loscerbo

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