Chi oggi propone la remigrazione lo fa con l’intento dichiarato di proteggere le nostre società da tensioni che sembrano ormai croniche.
È un tema che merita rispetto, perché nasce da paure reali e da un bisogno di sicurezza e coesione che non può essere liquidato come ideologico.
Tuttavia, proprio per la sua carica emotiva e per il suo carattere di parola d’ordine, la remigrazione rischia di diventare un atto isolato, uno slogan più che una strategia.
Rimandare indietro chi non si integra può sembrare una scorciatoia, ma senza un impianto giuridico condiviso e senza strumenti concreti finisce per produrre nuove fratture invece che sanarle.
Per questo credo che serva fare un passo in avanti. Il paradigma che chiamo “Integrazione o ReImmigrazione” non vuole sostituirsi alla remigrazione come concetto, né negarne le ragioni profonde. Vuole piuttosto tradurre quella preoccupazione in una cornice giuridica chiara e sostenibile, che tenga insieme il principio di coesione sociale con la tutela dei diritti fondamentali.
Non si tratta di deportazioni di massa, ma di un percorso regolato, trasparente, nel quale l’integrazione diventa un vero e proprio obbligo. Lavoro, conoscenza della lingua e rispetto delle regole non sono solo auspicabili, ma diventano criteri verificabili e vincolanti. Chi si impegna a rispettarli trova nello Stato un alleato; chi rifiuta, dopo un percorso equo e garantito, affronta la reimmigrazione come ritorno assistito, non come punizione.
Un simile paradigma offre anche garanzie giuridiche. Penso, ad esempio, al deposito del passaporto in Questura come strumento che assicura certezza e responsabilità reciproca, senza criminalizzare nessuno. Penso al ruolo decisivo dei giudici e degli avvocati, chiamati a valutare non in base a simpatie politiche ma a regole condivise. Penso agli accordi bilaterali che possono trasformare il ritorno in un processo ordinato, dignitoso e sostenibile. È un modello che, invece di generare conflitto, può aprire spazi di dialogo, perché non si limita a dire “fuori chi non ci piace”, ma stabilisce regole chiare per tutti.
In Europa il dibattito su questi temi è polarizzato: da un lato chi invoca rimpatri di massa, dall’altro chi difende uno status quo che spesso riduce l’immigrazione a questione puramente economica. Io credo che la verità stia nel mezzo. L’Europa ha bisogno di migranti che scelgano di integrarsi, che contribuiscano davvero alla vita collettiva, e al tempo stesso ha bisogno di strumenti legali per accompagnare chi non riesce o non vuole a rientrare nel proprio Paese. È questo l’equilibrio che la ReImmigrazione cerca di costruire.
Non propongo dunque uno scontro tra visioni opposte, ma un tavolo comune di lavoro.
Possiamo discutere insieme – politici, giuristi, società civile – se la remigrazione, intesa come atto di forza, sia sufficiente o se invece serva un paradigma più completo, capace di trasformare l’integrazione da auspicio a obbligo.
L’importante è non fermarsi allo slogan, ma dare alle nostre società europee strumenti concreti per restare coese, libere e sicure.
Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)
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