Negli Stati Uniti, nei giorni scorsi, è accaduto qualcosa che merita attenzione.
L’amministrazione Trump – contrariamente alla linea dura più volte annunciata – ha ordinato una sospensione temporanea dei raid dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) nei luoghi di lavoro. In particolare, la pausa riguarda tre settori strategici: l’agricoltura, la ristorazione e l’industria alberghiera.
Perché questa inversione di rotta? Non per motivi umanitari. E nemmeno per un cambiamento nella visione della gestione dei flussi migratori. Semplicemente, si è riconosciuto che l’economia americana non può permettersi di perdere quella parte – silenziosa ma indispensabile – di forza lavoro costituita da milioni di immigrati irregolari.
In altre parole: si bloccano le espulsioni perché “servono braccia”.
Questo episodio, che si presta a molte letture, rappresenta un caso emblematico dei limiti strutturali del paradigma utilitarista in tema di immigrazione.
Se l’unico criterio con cui si regola la presenza degli stranieri sul territorio è quello della produttività, si crea un sistema profondamente ipocrita e instabile.
Da un lato si dichiarano principi di legalità, ordine pubblico e lotta all’immigrazione illegale. Dall’altro, si sospendono i controlli quando queste stesse persone diventano necessarie per far funzionare i campi, le cucine e le reception degli hotel.
È un doppio standard che mina alla base la coerenza dello Stato di diritto. Perché in questo modo i diritti diventano mobili, temporanei, reversibili. E non si parla solo di diritti dei migranti: si parla del diritto di tutti a vivere in un sistema trasparente, equo, affidabile.
Il problema, però, non è solo americano. Anche in Europa – e in Italia – si assiste da anni allo stesso fenomeno. A fronte di campagne repressive e normative rigide, si tollera in realtà un’enorme quota di irregolarità “funzionale” al sistema produttivo. Poi, ciclicamente, si aprono finestre di regolarizzazione per sanare ciò che si è volutamente lasciato crescere nell’ombra.
Questa logica va superata.
Sul sito www.reimmigrazione.com, ho da tempo proposto un paradigma alternativo: “Integrazione o ReImmigrazione”.
In altre parole: non si resta in Italia perché si è “utili”, ma perché si è integrati.
E non si viene rimandati indietro perché “non serviamo più”, ma perché non si rispettano le regole, non ci si radica, non si costruisce un patto con la società ospitante.
Il lavoro è certamente un elemento fondamentale. Ma da solo non può bastare. Occorre un criterio giuridico, etico e identitario. Integrazione significa lingua, rispetto delle leggi, partecipazione civile.
E chi non si integra, deve tornare nel proprio Paese, secondo un modello di ReImmigrazione regolato, dignitoso, fondato su scelte consapevoli e non su emergenze o tornaconti elettorali.
L’episodio americano, per quanto possa apparire distante, ci riguarda da vicino.
Perché dimostra che il sistema attuale, basato sulla convenienza, è insostenibile.
E perché rafforza la necessità di una visione nuova, fondata sulla reciprocità e sulla responsabilità.
Fonti consultate:
https://www.axios.com/2025/06/12/trump-immigration-enforcement-farms-hotels
Avv. Fabio Loscerbo
Lobbista registrato – ID Registro per la Trasparenza UE: 280782895721-36
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