Attuare davvero l’Accordo di Integrazione: da documento formale a strumento strategico

di Fabio Loscerbo – lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

L’Accordo di integrazione, previsto dall’art. 4-bis del Testo Unico Immigrazione (D.lgs. 286/1998), rappresenta uno dei pochi strumenti normativi che traduce in obblighi reciproci il principio per cui lo straniero che entra in Italia ha il dovere di integrarsi.

Si tratta, almeno sulla carta, di un patto tra lo Stato e il cittadino straniero che condiziona il rilascio e la permanenza del permesso di soggiorno alla dimostrazione concreta di avvenuta integrazione: lingua italiana, conoscenza delle istituzioni, obblighi fiscali, educazione scolastica dei figli, rispetto della legge.

Tuttavia, l’esperienza giuridica e la prassi amministrativa dimostrano che questo strumento è rimasto in larga parte inapplicato o utilizzato in modo meramente simbolico. È giunto il momento di cambiare.


Un meccanismo potenzialmente efficace, mai pienamente attuato

La logica dell’Accordo è chiara: lo Stato attribuisce inizialmente 16 crediti allo straniero, e si riserva di verificarne l’incremento o la decurtazione nel corso del tempo, sulla base di comportamenti virtuosi o inadempienze.

A fronte di:

  • condanne penali,
  • mancanza di partecipazione alla formazione civica,
  • evasione fiscale o mancata scolarizzazione dei figli,

lo straniero può perdere crediti, fino a vedersi dichiarato inadempiente e dunque espellibile.

Ma in concreto:

  • quanti prefetti avviano effettivamente le verifiche biennali?
  • quante decurtazioni vengono realmente notificate e seguite da conseguenze?
  • quante espulsioni sono motivate da inadempimento all’accordo?

La risposta è impietosa: pressoché nessuna. L’Accordo è stato trasformato da strumento di politica dell’integrazione a foglio da firmare in Questura.


L’Accordo deve contenere la clausola della Reimmigrazione

Se si vuole dare piena attuazione al paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”, occorre modificare l’Accordo di integrazione affinché non resti un impegno vuoto, ma diventi un contratto giuridicamente efficace.

Deve essere chiaramente previsto – in forma esplicita e vincolante – che:

Il mancato soddisfacimento dei requisiti di integrazione previsti dall’Accordo comporta la Reimmigrazione, cioè il ritorno obbligatorio nel Paese d’origine.

Non si tratta di una minaccia né di un arbitrio, ma di una clausola di responsabilità: chi entra in Italia accetta consapevolmente un impegno. Se lo onora, diventa parte della comunità. Se lo disattende, decade dal diritto di restare.


Integrazione come dovere: il cuore del nuovo paradigma

Nel modello “Integrazione o Reimmigrazione”, l’Accordo di integrazione deve essere il perno dell’intera strategia migratoria.

Non più un documento simbolico, ma un meccanismo contrattuale periodicamente verificato, fondato su tre pilastri:

  1. Lingua italiana: livello A2 effettivo e certificato.
  2. Lavoro legale e contributivo: segno di autonomia economica.
  3. Rispetto delle regole: fedeltà al patto di convivenza civile.

Proposte operative per rilanciare l’accordo

Per dare contenuto e forza all’Accordo, è necessario:

  • inserire la clausola obbligatoria di Reimmigrazione per inadempienza;
  • automatizzare le verifiche biennali e creare un’anagrafe nazionale dei crediti;
  • coinvolgere le istituzioni scolastiche, sanitarie e fiscali nella valutazione dell’integrazione;
  • sospendere il rinnovo del permesso in caso di punteggio insufficiente, salvo casi documentati di forza maggiore;
  • legare il permesso di lungo periodo e la cittadinanza al pieno rispetto dell’Accordo.

Conclusione: regole chiare per una società coesa

Attuare davvero l’Accordo di integrazione significa superare la visione emergenziale e passiva dell’immigrazione, per costruire un modello in cui integrazione e responsabilità siano le basi del diritto a restare.

Lo straniero che firma l’Accordo deve sapere che quel documento non è una formalità, ma un impegno solenne:

integrare o tornare.

Solo così l’Italia potrà avere una politica migratoria seria, giusta e sostenibile.

Commenti

Lascia un commento