di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36)
La recente decisione della Corte di Cassazione italiana di rinviare alla Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali riguardanti il Protocollo Italia-Albania sui CPR ha acceso nuovamente il dibattito sul cosiddetto modello Albania. Questo schema, pensato per trasferire migranti irregolari e richiedenti asilo in attesa di decisione o rimpatrio in centri situati sul territorio albanese, è stato duramente criticato da alcune forze politiche e da parte del mondo giuridico.
Ma siamo sicuri che rappresenti un “pericolo per i diritti fondamentali”?
O potrebbe invece costituire una prima applicazione reale del paradigma della ReImmigrazione?
Una logica coerente: il ritorno governato dopo il fallimento dell’integrazione
Non mi oppongo al modello Albania. Al contrario: ne intravedo una possibile funzione di concreta attuazione della ReImmigrazione, intesa come fase terminale di un percorso migratorio fallito, e non come strumento punitivo.
In un sistema che voglia finalmente superare la dicotomia sterile tra accoglienza illimitata ed espulsione inefficace, è legittimo — anzi necessario — dotarsi di strumenti operativi per accompagnare chi non si è integrato verso un ritorno ordinato e assistito. In quest’ottica, i centri esterni al territorio nazionale possono svolgere un ruolo logistico e funzionale determinante.
Diritti fondamentali e quadro normativo: sì al modello, ma con adeguamenti
Detto questo, non possiamo ignorare la necessità di coordinare questo strumento con il nostro ordinamento costituzionale e con il diritto dell’Unione europea.
Le due questioni sollevate dalla Cassazione non sono di poco conto:
- La compatibilità con la Direttiva Rimpatri (2008/115/CE) in assenza di garanzie effettive di ritorno;
- La conformità con la Direttiva Accoglienza (2013/33/UE) nei casi di richiedenti asilo trattenuti in Albania senza una piena tutela giurisdizionale.
Il rischio è che il trasferimento albanese venga usato in modo improprio come prolungamento del trattenimento, senza garanzie sufficienti.
Occorre quindi, senza ambiguità, rafforzare i meccanismi di controllo giurisdizionale, informazione legale e accesso al ricorso.
Anche dal punto di vista costituzionale, sarà essenziale chiarire quale autorità italiana mantiene giurisdizione sui centri esteri, e come assicurare che il trattenimento rispetti i limiti dell’art. 13 della Costituzione.
Uno strumento deterrente, se ben costruito
Al di là dei rilievi giuridici, l’elemento più spesso ignorato è l’effetto deterrente che questo modello può generare.
Sapere che un ingresso irregolare può comportare un immediato trasferimento in un centro fuori dal territorio europeo cambia radicalmente la percezione del rischio per chi intende aggirare le regole.
In questo senso, il modello Albania rappresenta un’inversione di tendenza culturale prima ancora che normativa.
È un segnale: l’Europa non è più un “non-luogo” dove si resta a prescindere; è una comunità giuridica dove si resta se ci si integra.
Conclusione: migliorare, non smontare
Il modello Albania è imperfetto, ma non va demolito.
È un prototipo operativo di ciò che la ReImmigrazione può diventare: non uno slogan ideologico, ma una struttura concreta, inserita in un quadro bilaterale, rispettosa delle garanzie e funzionale a un ritorno ordinato.
Va certamente migliorato – sul piano procedurale, giurisdizionale e costituzionale – ma rappresenta una risposta concreta alla paralisi del sistema europeo dei rimpatri.
Se integrato con un serio obbligo di integrazione e criteri oggettivi per valutare il fallimento di tale percorso, potrebbe diventare uno dei pilastri del nuovo paradigma migratorio: Integrazione o ReImmigrazione.
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