di Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36)
Il 30 maggio 2025 il sito Axios (https://www.axios.com/2025/05/30/state-department-office-of-remigration-restructure) ha pubblicato una notizia che ha attirato immediatamente la mia attenzione.
L’amministrazione americana, in vista di una riorganizzazione del Dipartimento di Stato, avrebbe in programma la creazione di un Office of Remigration — un Ufficio per la Reimmigrazione.
È un passaggio tutt’altro che simbolico: per la prima volta un Paese occidentale utilizza esplicitamente il termine reimmigrazione in un contesto istituzionale.
Come sostenitore del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”, non posso che accogliere con interesse questo sviluppo. Ma allo stesso tempo, non posso fare a meno di sottolineare ciò che manca in questa iniziativa: il riferimento esplicito all’obbligo di integrazione come presupposto e giustificazione della ReImmigrazione stessa.
Cos’è questo nuovo Ufficio?
Secondo Axios, l’Ufficio verrebbe istituito all’interno del Bureau of Population, Refugees and Migration, ma con una finalità radicalmente diversa: non più accogliere e reinsediare, ma rimuovere. L’obiettivo è chiaro: coordinare in modo più efficace le espulsioni, facilitare i rimpatri attraverso accordi bilaterali, e riorientare le politiche migratorie verso un equilibrio più sostenibile. È una svolta. Ma è solo metà del discorso.
La ReImmigrazione senza Integrazione non ha senso
Da tempo sostengo che parlare di ReImmigrazione ha senso solo se prima si afferma chiaramente che ogni migrante ha un dovere di integrazione: imparare la lingua, rispettare le regole, inserirsi in modo attivo nella società che lo accoglie.
La ReImmigrazione non è una punizione, ma una conseguenza naturale del fallimento o del rifiuto di questo percorso.
Se manca questo presupposto – se non si definisce cosa si intende per integrazione, se non si stabilisce un quadro normativo che renda misurabile e verificabile tale obbligo – allora la ReImmigrazione rischia di diventare solo un sinonimo elegante di espulsione. Ed è un rischio che non possiamo correre.
Un segnale da non ignorare in Europa
La notizia statunitense arriva in un momento in cui in Europa il dibattito è bloccato: da un lato chi invoca accoglienza illimitata, dall’altro chi grida alla chiusura dei confini.
Entrambe le posizioni, a mio avviso, sono sterili.
Serve un terzo paradigma, fondato su un patto chiaro tra straniero e Stato ospitante: accoglienza e diritti in cambio di integrazione e doveri. E se il patto viene meno, si deve poter parlare senza tabù di ritorno.
L’iniziativa americana dimostra che questo approccio è politicamente possibile. Resta da vedere se sarà giuridicamente sostenibile, culturalmente accettabile, e – soprattutto – coerente. E qui entra in gioco l’Europa.
Conclusione: non basta copiare, serve una visione
Non basta importare il termine Remigration negli ordinamenti occidentali. Bisogna costruirci intorno un impianto giuridico coerente, eticamente fondato e politicamente presentabile.
La ReImmigrazione non può essere un’eccezione alla regola: deve essere parte integrante di un nuovo contratto migratorio, in cui si riconosce che lo straniero ha sì dei diritti, ma anche precisi obblighi. E che se questi vengono disattesi, il ritorno diventa una conseguenza logica e legittima.
Io continuerò a promuovere questo paradigma con forza, nel dialogo con le istituzioni italiane ed europee, affinché la ReImmigrazione sia finalmente riconosciuta non come una parola scomoda, ma come una necessità giuridica e culturale per garantire equilibrio e futuro alle nostre società.
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