Autore: Fabio Loscerbo

  • Pourquoi la migration vers l’Europe ne diminuera pas : le rôle essentiel du bien-être social et de la sécurité dans le nouveau paradigme


    Bonjour, je suis l’avocat Fabio Loscerbo et voici un nouvel épisode du podcast « Intégration ou Réimmigration ».

    Aujourd’hui, je veux aborder un thème qui continuera de marquer profondément le débat public européen dans les décennies à venir. La migration vers l’Europe – et vers l’Italie en particulier – ne diminuera pas. On peut observer des fluctuations, des ralentissements temporaires, des routes qui se réduisent et d’autres qui se réactivent, mais la tendance de fond ne change pas.

    La raison principale est simple : les gens se déplacent pour chercher ce qui leur manque dans leur pays d’origine. Et ce qui manque, ce n’est pas seulement le travail.

    Ce qui manque, c’est un système de protection sociale fiable. Il manque la sécurité réelle, quotidienne, pas une sécurité théorique. Il manque la stabilité institutionnelle, des règles prévisibles et la possibilité de construire un avenir digne pour soi-même et pour ses enfants.

    Pour ceux qui vivent dans des pays marqués par des tensions politiques, une fragilité économique ou un système social inexistant, migrer vers l’Europe représente un choix rationnel. C’est un investissement dans la vie, et non simplement dans le revenu.

    C’est pour cela que la vision purement économique de la migration est désormais dépassée.

    Penser que l’on peut gérer le phénomène en calculant des coûts et des bénéfices, ou en réduisant les migrants à une « main-d’œuvre » ou à une « charge financière », revient à ignorer complètement la réalité.

    Les gens ne viennent pas ici parce qu’ils sont attirés par notre marché du travail. Ils viennent parce qu’ils sont attirés par notre système de protection, par notre modèle social, par notre stabilité institutionnelle. Et tant que l’écart entre l’Europe et les pays d’origine restera aussi grand, la pression migratoire ne diminuera pas.

    C’est la vérité que beaucoup ont du mal à reconnaître. Si la migration ne va pas diminuer, alors la seule solution est de la gouverner, et non de la subir.

    C’est ici qu’intervient le nouveau paradigme que je propose depuis longtemps : intégration ou réimmigration.

    Ce n’est pas un slogan idéologique, mais un principe de responsabilité réciproque. L’accès à notre système social exige une intégration réelle : la langue, le travail, le respect des règles, la participation et l’adhésion aux valeurs fondamentales.

    Et lorsque l’intégration échoue ou qu’elle est refusée, la réimmigration doit intervenir : le retour dans le pays d’origine. C’est un modèle clair, transparent, compréhensible aussi bien pour les citoyens italiens que pour les ressortissants étrangers.

    Nous ne pouvons plus nous permettre une gestion improvisée ou désordonnée de la migration. Nous ne pouvons pas continuer à osciller entre une accueil indiscriminé et des fermetures soudaines.

    Les chiffres nous montrent que le phénomène va continuer. La dynamique mondiale nous montre qu’il va continuer. Et la perception que les migrants ont de l’Europe conduit à la même conclusion.

    La seule façon de ne pas être dépassés est de construire de nouvelles règles, cohérentes, fondées sur un équilibre entre droits et devoirs. Des droits si tu t’intègres. La réimmigration si tu refuses de t’intégrer.

    La question n’est pas d’être dur ou indulgent. La question est d’être sérieux. Lorsqu’un pays est sérieux, les gens le respectent. Lorsqu’un pays est chaotique, les gens en profitent. C’est la nature humaine.

    Et c’est pourquoi nous devons avoir le courage de reconnaître que la migration vers l’Europe ne diminuera pas et que, précisément pour cette raison, un changement complet d’approche est nécessaire.

    Je suis l’avocat Fabio Loscerbo, et je t’invite, comme toujours, à approfondir ces sujets sur le site www.reimmigrazione.com. Nous continuerons à en parler, sans filtres et sans illusions. Parce qu’un pays qui connaît la vérité est un pays capable de choisir son propre avenir.

  • Perché la migrazione verso Europa e Italia non potrà diminuire: superare l’approccio economicista e adottare il nuovo paradigma

    La dinamica migratoria che interessa l’Europa e, in particolare, l’Italia non mostra segnali di riduzione strutturale.

    Anche quando alcuni flussi appaiono in calo rispetto agli anni precedenti, non per questo la pressione migratoria complessiva si attenua.

    Le persone continuano a muoversi perché cercano ciò che nei Paesi di origine non trovano: un sistema di welfare funzionante, sicurezza personale e familiare, stabilità istituzionale, diritti effettivamente esigibili.

    Per comprendere il fenomeno è necessario andare oltre la lettura meramente numerica o stagionale, e soprattutto oltre la visione economicista che ha dominato finora.

    Secondo i dati Eurostat, nel 2023 l’Unione europea ha registrato circa 4,3 milioni di ingressi da Paesi non appartenenti all’Unione. Il riferimento è disponibile al link:
    https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_to_and_from_the_EU

    Sebbene il flusso sia risultato inferiore rispetto all’anno precedente, lo stesso Eurostat precisa che non si può parlare di una tendenza alla riduzione strutturale, ma di oscillazioni collegate a fattori geopolitici contingenti.

    L’Italia, secondo l’ISTAT, nel 2023 ha registrato un saldo migratorio internazionale positivo di 274.000 unità.

    Questi dati si inseriscono in un quadro in cui la mobilità internazionale resta elevata e tende a stabilizzarsi su livelli che mostrano come l’Europa continui a rappresentare una meta privilegiata. Il motivo non è soltanto economico.

    La spinta principale è la ricerca di condizioni di vita più sicure, sistemi sanitari e sociali affidabili, istituzioni prevedibili, opportunità di istruzione per i figli e un ambiente complessivamente più stabile. La migrazione non è un movimento orientato alla massimizzazione del reddito, ma un tentativo di accedere a sistemi di protezione che nei paesi di origine spesso sono deboli, inaccessibili o inesistenti.

    Il rapporto “Migration Outlook 2025” dell’International Centre for Migration Policy Development conferma che i flussi verso l’Europa non sono destinati a contrarsi in modo significativo.

    Le previsioni parlano di un fenomeno “volatile ma persistente”, influenzato da fattori strutturali che non scompariranno nel breve periodo.

    In Italia, inoltre, la presenza straniera stabile supera i cinque milioni di persone, come riportato da InfoMigrants:
    https://www.infomigrants.net/en/post/58085/5-million-foreigners-residing-in-italy-in-2023-nearly-9-of-total-population

    Siamo dunque di fronte a un fenomeno che non può essere affrontato con gli strumenti concettuali del passato.

    La visione economicista, che misura l’immigrazione in termini di saldo costi/benefici o di impatto immediato sul mercato del lavoro, risulta oggi insufficientemente realistica.

    I migranti non si muovono solo perché attratti da un’occupazione, ma perché spinti da una ricerca di sicurezza e protezione che il loro Paese non garantisce.

    L’Europa e l’Italia esercitano una forte capacità attrattiva in quanto rappresentano – nel percepito collettivo – spazi in cui il welfare funziona e le istituzioni proteggono davvero. È questa percezione, più ancora degli indicatori economici, a determinare la direzione dei flussi.

    In questo contesto, limitarsi alla dimensione economica significa ignorare l’essenza del fenomeno. Il nodo non è “quanto costa” o “quanto rende” l’immigrazione, ma quale modello di integrazione viene proposto e quali condizioni vengono poste per l’accesso e la permanenza sul territorio.

    La migrazione continuerà a dirigersi verso i sistemi che garantiscono protezione, e continuerà a farlo finché le distanze tra Paesi di origine e Paesi di destinazione resteranno così marcate in termini di servizi essenziali, sicurezza pubblica e opportunità di vita.

    Per questa ragione è ormai imperativo superare l’approccio tradizionale e adottare un nuovo paradigma.

    L’impostazione fondata esclusivamente su valutazioni economiche non è adeguata a governare una realtà che è, innanzitutto, sociale e istituzionale.

    L’Europa – e l’Italia in particolare – ha bisogno di un modello capace di integrare sicurezza, formazione linguistica, responsabilità individuale, percorsi di regolarizzazione trasparenti e un sistema chiaro di diritti e doveri.

    È necessario abbandonare la retorica emergenziale, che distorce il dibattito, e assumere una prospettiva strutturale, fondata sulla continuità dei flussi e sulle esigenze interne di coesione sociale.

    Se la migrazione non diminuirà – e i dati dimostrano che non diminuirà – allora la questione decisiva non è contenere il fenomeno, ma governarlo in modo responsabile.

    La stabilità dei sistemi europei dipenderà dalla capacità di unire accoglienza e responsabilità, diritti e doveri, welfare e integrazione. In questo equilibrio si colloca il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione“: un modello capace di leggere la migrazione non come un “evento economico”, ma come un processo umano che richiede risposte mature, coerenti e soprattutto orientate al futuro.

    Avvocato Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
    ID 280782895721-36

  • Protezione Complementare e nuovo paradigma migratorio: tra ReImmigrazione e Remigrazione

    La sentenza del Tribunale di Bologna (R.G. 612/2025 del 7 novembre 2025) offre una chiave di lettura utile per comprendere la funzione sistemica della protezione complementare nel diritto dell’immigrazione.

    In particolare, essa dimostra come la protezione complementare rappresenti oggi il principale strumento di attuazione del principio di integrazione come criterio giuridico di stabilizzazione del soggiorno.

    Nel caso esaminato, il giudice ha riconosciuto il diritto alla permanenza a una cittadina albanese che, insieme al proprio nucleo familiare, aveva dimostrato un radicamento concreto nel territorio: lavoro stabile, abitazione, figli iscritti a scuola, conoscenza della lingua italiana.

    La decisione, conforme all’orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 24413/2021), valorizza l’inserimento sociale e lavorativo come espressione della vita privata e familiare tutelata dall’art. 8 CEDU.

    Questo approccio segna un punto di svolta.

    La protezione complementare, infatti, non si limita a garantire una tutela residuale contro il rimpatrio, ma diventa uno spazio di valutazione della qualità dell’integrazione raggiunta.

    In essa si sperimenta un modello di rapporto tra cittadino straniero e Stato che non si fonda più esclusivamente sulla logica economica della forza lavoro, ma su quella relazionale della partecipazione e della coesione sociale.

    È in questo senso che la protezione complementare può essere considerata il laboratorio del paradigma Integrazione o ReImmigrazione.

    Tale paradigma propone una revisione dell’intero approccio al fenomeno migratorio, spostando l’asse dall’utilità economica dello straniero alla verifica del suo effettivo inserimento nella società, inteso come adesione ai valori, alle regole e alle relazioni che strutturano la comunità nazionale.

    Sotto questo profilo, esso si differenzia dalla teoria politica della remigrazione, la quale – pur affrontando anch’essa il tema del ritorno e della gestione dei flussi – non si pone l’obiettivo di ridefinire il paradigma di fondo dell’immigrazione in chiave integrativa.

    L’idea di Integrazione o ReImmigrazione muove invece da una prospettiva giuridico-sociale che considera l’integrazione un elemento verificabile e misurabile, ponendo le basi per una disciplina che non si limita alla permanenza o al rientro, ma introduce un criterio strutturale di equilibrio tra diritti e doveri.

    In tal modo, la protezione complementare si afferma come terreno di sperimentazione di un diritto dell’immigrazione rinnovato: un diritto che non si limita a gestire presenze, ma che misura la coerenza del percorso individuale rispetto ai principi della convivenza civile.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36) – Materia: politiche dell’immigrazione e dell’asilo

  • 🎙️ Título:Del Acuerdo de Integración a la Policía de Inmigración: hacia un nuevo paradigma europeo

    En los últimos días he reflexionado sobre dos aspectos fundamentales de la política migratoria italiana que, en realidad, tienen un significado mucho más amplio y universal: el Acuerdo de Integración y la propuesta de crear una Policía de Inmigración.
    Estos temas no se limitan a Italia: conciernen a todos los Estados que desean gestionar la inmigración con equilibrio, responsabilidad y una visión a largo plazo.

    Como he explicado en varios artículos, el Acuerdo de Integración no debe considerarse una mera formalidad burocrática. Representa la base moral y jurídica de la relación entre el extranjero y el Estado que lo acoge.
    Firmar ese acuerdo significa elegir formar parte de una comunidad política, aceptar sus valores, su cultura y sus normas.
    En Italia, este acuerdo implica compromisos concretos: aprender el idioma, conocer la Constitución, respetar las leyes y contribuir, dentro de las propias posibilidades, a la vida económica y social del país.
    La integración no es un derecho automático: es un proceso. Y como todo proceso, requiere esfuerzo, coherencia y verificación.
    Cuando este proceso fracasa —por decisión propia, por indiferencia o por incumplimiento de las reglas— debe activarse la ReInmigración, es decir, el regreso al país de origen. Porque permanecer en el país de acogida solo tiene sentido si existe la verdadera voluntad de participar en la vida cívica y respetar las leyes fundamentales de la comunidad que recibe.

    Sin embargo, la integración no puede depender únicamente del comportamiento individual. El Estado también necesita una estructura clara y coordinada para gestionar la inmigración de forma unificada y transparente.
    Por eso he propuesto la creación de una Policía de Inmigración, un cuerpo especializado que concentre las competencias actualmente dispersas en diferentes organismos.
    En Italia, las oficinas de inmigración dentro de las jefaturas de policía realizan tareas administrativas esenciales, pero carecen de una estructura operativa con una visión integral —una capaz de coordinar la acogida, los controles, las repatriaciones y la cooperación internacional en un marco coherente.
    En Estados Unidos, el ICE (Immigration and Customs Enforcement) ya cumple esta función. Italia, y en general Europa, deberían avanzar hacia un modelo similar —no para cerrarse, sino para organizarse mejor.
    Porque un Estado que no sabe quién entra, quién se queda y quién debe marcharse, no es un Estado acogedor —es un Estado desorganizado.

    La integración y la seguridad no son principios opuestos: son las dos caras de la misma moneda, ambas necesarias para construir una sociedad justa y estable.
    En este sentido, Italia puede convertirse en un laboratorio europeo: un país que busca activamente el equilibrio entre hospitalidad y orden, entre derechos y deberes, entre libertad y responsabilidad.
    Ese equilibrio debería inspirar al conjunto de la Unión Europea: avanzar hacia normas comunes, controles efectivos y una cooperación real.
    La inmigración no es una crisis que deba soportarse, sino una realidad que debe gobernarse —con las herramientas adecuadas y valores compartidos.

    En definitiva, la integración no puede existir sin legalidad, y la legalidad carece de sentido sin un verdadero proyecto de integración.
    Ese es el significado del paradigma que propongo: Integración o ReInmigración.
    No es un eslogan ideológico, sino un principio de realismo y responsabilidad.
    El futuro de Europa dependerá de nuestra capacidad para acoger a quienes desean pertenecer y para devolver a quienes rechazan hacerlo.
    Italia puede ser el punto de partida de este nuevo modelo que une humanidad con firmeza, solidaridad con responsabilidad.

    Soy el abogado Fabio Loscerbo, y los invito a leer más análisis en http://www.reimmigrazione.com.

  • 🎙️ Titre :De l’Accord d’Intégration à la Police de l’Immigration : vers un nouveau paradigme européen

    Ces derniers jours, j’ai réfléchi à deux aspects essentiels de la politique migratoire italienne qui, en réalité, ont une portée beaucoup plus large et universelle : l’accord d’intégration et la proposition de créer une police de l’immigration.
    Ces thèmes ne concernent pas uniquement l’Italie – ils s’adressent à tous les États qui souhaitent gérer l’immigration avec équilibre, responsabilité et vision à long terme.

    Comme je l’ai expliqué dans plusieurs articles, l’accord d’intégration ne doit pas être considéré comme une simple formalité administrative. Il constitue la base morale et juridique de la relation entre l’étranger et l’État qui l’accueille.
    Signer cet accord, c’est choisir de faire partie d’une communauté politique, d’en accepter les valeurs, la culture et les règles.
    En Italie, cet accord impose des engagements concrets : apprendre la langue, comprendre la Constitution, respecter les lois et contribuer, selon ses capacités, à la vie économique et sociale du pays.
    L’intégration n’est pas un droit automatique : c’est un processus. Et comme tout processus, elle exige effort, cohérence et vérification.
    Lorsque ce processus échoue — par choix, par indifférence ou par non-respect des règles — la RéImmigration doit s’appliquer : le retour dans le pays d’origine. Car le séjour dans le pays d’accueil n’a de sens que s’il existe une véritable volonté de participer à la vie civique et de respecter les lois fondamentales de la communauté qui accueille.

    Mais l’intégration ne peut pas dépendre uniquement du comportement individuel. L’État doit lui aussi disposer d’une structure claire et coordonnée pour gérer l’immigration de manière unifiée et transparente.
    C’est pourquoi j’ai proposé la création d’une Police de l’Immigration, un corps spécialisé capable de regrouper des compétences aujourd’hui dispersées entre différents services.
    En Italie, les bureaux de l’immigration au sein des préfectures de police accomplissent des tâches administratives essentielles, mais il leur manque une structure opérationnelle dotée d’une vision globale — capable de coordonner l’accueil, le contrôle, le retour et la coopération internationale dans un cadre cohérent.
    Aux États-Unis, l’agence ICE (Immigration and Customs Enforcement) joue déjà ce rôle. L’Italie, et plus largement l’Europe, devraient s’inspirer de ce modèle — non pas pour se fermer, mais pour mieux s’organiser.
    Parce qu’un État qui ne sait pas qui entre, qui reste et qui doit partir n’est pas un État accueillant — c’est un État désordonné.

    L’intégration et la sécurité ne sont pas des objectifs opposés : ce sont deux conditions nécessaires à la construction d’une société juste et stable.
    À ce titre, l’Italie peut devenir un laboratoire européen : un pays où l’on cherche activement l’équilibre entre hospitalité et ordre, entre droits et devoirs, entre liberté et responsabilité.
    Cet équilibre devrait inspirer l’ensemble de l’Union européenne : vers des normes communes, un contrôle effectif et une coopération réelle.
    L’immigration n’est pas une crise à subir, mais une réalité à gouverner — avec les bons outils et des valeurs partagées.

    En définitive, l’intégration ne peut exister sans légalité, et la légalité ne signifie rien sans un véritable projet d’intégration.
    C’est le sens du paradigme que je propose : Intégration ou RéImmigration.
    Ce n’est pas un slogan idéologique, mais un principe de réalisme et de responsabilité.
    L’avenir de l’Europe dépendra de notre capacité à accueillir ceux qui veulent appartenir et à reconduire ceux qui refusent de le faire.
    L’Italie peut montrer la voie, en offrant un modèle qui unit humanité et fermeté, solidarité et responsabilité.

    Je suis l’avocat Fabio Loscerbo, et je vous invite à lire d’autres analyses sur http://www.reimmigrazione.com.

  • 🎙️ Titel:Vom Integrationsabkommen zur Einwanderungspolizei: Aufbau eines neuen europäischen Paradigmas

    In den letzten Tagen habe ich über zwei zentrale Aspekte der italienischen Einwanderungspolitik nachgedacht, die jedoch eine viel größere, universelle Bedeutung haben: das Integrationsabkommen und den Vorschlag, eine Einwanderungspolizei zu schaffen.
    Diese Themen betreffen nicht nur Italien – sie betreffen jedes Land, das Einwanderung mit Ausgewogenheit, Verantwortung und Weitblick gestalten will.

    Wie ich in mehreren Artikeln erläutert habe, darf das Integrationsabkommen nicht als bloße bürokratische Formalität betrachtet werden. Es bildet die moralische und rechtliche Grundlage für das Verhältnis zwischen dem Ausländer und dem Staat, der ihn aufnimmt.
    Mit der Unterzeichnung dieses Abkommens entscheidet man sich, Teil einer politischen Gemeinschaft zu werden – ihre Werte, ihre Kultur und ihre Regeln anzunehmen.
    In Italien verpflichtet dieses Abkommen zu konkreten Maßnahmen: die Sprache zu lernen, die Verfassung zu verstehen, die Gesetze zu achten und – im Rahmen der eigenen Möglichkeiten – zum wirtschaftlichen und sozialen Leben des Landes beizutragen.
    Integration ist kein automatisches Recht; sie ist ein Prozess. Und wie jeder Prozess erfordert sie Einsatz, Beständigkeit und Überprüfung.
    Wenn dieser Prozess scheitert – durch eigene Entscheidung, Gleichgültigkeit oder Missachtung der Regeln – muss die ReImmigration erfolgen: die Rückkehr in das Herkunftsland. Denn der Aufenthalt in einem Aufnahmestaat hat nur dann Sinn, wenn der echte Wille besteht, am zivilen Leben der Gemeinschaft teilzunehmen und ihre grundlegenden Gesetze zu respektieren.

    Doch Integration kann nicht allein vom Verhalten des Einzelnen abhängen. Auch der Staat muss über eine klare, koordinierte Struktur verfügen, um Einwanderung einheitlich und transparent zu steuern.
    Deshalb habe ich die Schaffung einer Einwanderungspolizei vorgeschlagen – einer spezialisierten Behörde, die die derzeit auf verschiedene Stellen verteilten Aufgaben bündelt.
    In Italien übernehmen die Einwanderungsabteilungen der Polizeipräsidien wichtige Verwaltungsaufgaben, doch ihnen fehlt eine operative Struktur mit einem ganzheitlichen Blick – eine, die Aufnahme, Kontrolle, Rückführung und internationale Zusammenarbeit in einem kohärenten Rahmen vereint.
    In den Vereinigten Staaten erfüllt ICE – Immigration and Customs Enforcement – bereits diese Rolle. Italien und ganz Europa sollten einem ähnlichen Modell folgen – nicht um sich abzuschotten, sondern um besser zu organisieren.
    Denn ein Staat, der nicht weiß, wer einreist, wer bleibt und wer gehen muss, ist kein aufnahmefähiger Staat – sondern ein unorganisierter.

    Integration und Sicherheit sind keine Gegensätze, sondern zwei Seiten derselben Medaille – beide notwendig, um eine gerechte und stabile Gesellschaft aufzubauen.
    In diesem Sinne kann Italien zu einem europäischen Labor werden: ein Land, das das Gleichgewicht zwischen Gastfreundschaft und Ordnung, zwischen Rechten und Pflichten aktiv sucht.
    Dieses Gleichgewicht sollte die gesamte Europäische Union leiten – hin zu gemeinsamen Standards, wirksamer Kontrolle und echter Zusammenarbeit.
    Einwanderung ist keine Krise, die man erdulden muss, sondern eine Realität, die man mit den richtigen Instrumenten und gemeinsamen Werten gestalten sollte.

    Am Ende kann Integration ohne Rechtsstaatlichkeit nicht bestehen, und Rechtsstaatlichkeit ist bedeutungslos ohne ein echtes Integrationsprojekt.
    Das ist das Wesen des Paradigmas, das ich vorschlage: Integration oder ReImmigration.
    Es ist kein ideologisches Schlagwort – sondern ein Prinzip von Realismus und Verantwortung.
    Die Zukunft Europas hängt davon ab, ob wir diejenigen willkommen heißen, die dazugehören wollen, und diejenigen zurückführen, die dies ablehnen.
    Italien kann hierbei eine Führungsrolle übernehmen – als Modell, das Menschlichkeit mit Entschlossenheit, Solidarität mit Verantwortlichkeit verbindet.

    Ich bin Rechtsanwalt Fabio Loscerbo, und ich lade Sie ein, weitere Beiträge auf http://www.reimmigrazione.com zu lesen.

  • 🎙️ Title:From the Integration Agreement to the Immigration Police: Building a New European Paradigm

    Over the past few days, I’ve reflected on two key aspects of Italy’s immigration policy that actually have a broader and more universal significance: the Integration Agreement and the proposal to establish an Immigration Police.
    These aren’t just Italian issues — they concern every nation that wants to approach immigration with balance, responsibility, and a long-term vision.

    As I’ve explained in several articles, the Integration Agreement shouldn’t be treated as a mere bureaucratic formality. It represents the moral and legal foundation of the relationship between a foreign national and the State that hosts them.
    Signing that agreement means choosing to become part of a political community — accepting its values, its culture, and its rules.
    In Italy, this agreement requires concrete commitments: learning the language, understanding the Constitution, obeying the laws, and contributing — as far as one’s abilities allow — to the economic and social life of the country.
    Integration is not an automatic right; it’s a process. And like any process, it requires effort, consistency, and verification.
    When that process fails — through personal choice, indifference, or refusal to respect the rules — ReImmigration must take place: returning to one’s country of origin. Because remaining in a host country only makes sense when there’s a genuine willingness to participate in its civic life and to respect its fundamental laws.

    But integration can’t rely solely on individual behavior. The State also needs a clear, coordinated structure to manage immigration in a unified and transparent way.
    That’s why I’ve proposed creating an Immigration Police, a specialized force that brings together functions currently scattered among different offices.
    In Italy, the Immigration Divisions within police headquarters handle key administrative duties, but they lack an operational structure with a comprehensive vision — one capable of coordinating reception, enforcement, deportation, and international cooperation.
    In the United States, ICE — Immigration and Customs Enforcement — already fulfills that role. Italy, and Europe as a whole, should follow a similar path — not to close borders, but to manage them responsibly.
    Because a country that doesn’t know who enters, who stays, and who leaves isn’t a welcoming country — it’s a disorganized one.

    Integration and security are not opposing goals. They are two sides of the same coin — both necessary to build a just and stable society.
    Italy could serve as a European testing ground: a nation where the balance between hospitality and order, between rights and responsibilities, is actively pursued.
    That balance should guide the entire European Union — toward shared standards, effective monitoring, and genuine cooperation.
    Immigration is not a crisis to endure; it’s a reality to govern — with the right tools and with shared values.

    In the end, integration cannot exist without legality, and legality means nothing without a real project of integration.
    That’s the essence of the paradigm I propose: Integration or ReImmigration.
    It’s not an ideological slogan — it’s a principle of realism and accountability.
    The future of Europe will depend on our ability to welcome those who want to belong — and to return those who refuse to.
    Italy can lead the way, offering a model that combines humanity with firmness, solidarity with responsibility.

    I’m attorney Fabio Loscerbo, and I invite you to read more insights at http://www.reimmigrazione.com.

  • 🎙️ Titolo:Dal Patto di Integrazione alla Polizia dell’Immigrazione: verso un nuovo paradigma europeo

    Negli ultimi giorni ho riflettuto su due aspetti centrali della politica migratoria italiana che, tuttavia, hanno un significato più ampio e universale: l’accordo di integrazione e la proposta di istituire una Polizia dell’Immigrazione. Due temi che non riguardano solo l’Italia, ma ogni Stato che voglia affrontare l’immigrazione con equilibrio, responsabilità e visione strategica.

    Come ho spiegato in diversi articoli, l’accordo di integrazione non può essere considerato un semplice adempimento burocratico. È la base morale e giuridica del rapporto tra lo straniero e lo Stato che lo accoglie. Firmare quell’accordo significa accettare di entrare a far parte di una comunità politica, condividendone i valori e le regole.
    In Italia, questo accordo prevede impegni precisi: conoscere la lingua, comprendere la Costituzione, rispettare le leggi e contribuire, secondo le proprie capacità, alla vita economica e sociale del Paese.
    L’integrazione non è un diritto automatico: è un percorso. E come ogni percorso, richiede impegno, coerenza e verifica.
    Quando questo percorso fallisce — per scelta, per disinteresse o per mancato rispetto delle regole — deve scattare la ReImmigrazione, cioè il ritorno nel Paese d’origine. Perché la permanenza sul territorio ha senso solo se c’è la volontà di partecipare alla vita della comunità ospitante e di rispettarne le regole fondamentali.

    Ma per funzionare, l’integrazione non può dipendere solo dal comportamento del singolo. Serve anche una struttura statale capace di gestire in modo unitario e trasparente l’intero fenomeno migratorio.
    È in questo contesto che nasce la mia proposta di creare una Polizia dell’Immigrazione, un corpo specializzato che unisca competenze oggi disperse tra più uffici.
    In Italia, gli Uffici Immigrazione delle Questure svolgono compiti amministrativi fondamentali, ma mancano di un’unità operativa con una visione d’insieme: capace di gestire accoglienza, controlli, rimpatri e collaborazione internazionale in modo coordinato.
    Negli Stati Uniti, l’ICE — Immigration and Customs Enforcement — svolge proprio questa funzione. L’Italia, e più in generale l’Europa, dovrebbero dotarsi di un modello simile: non per chiudersi, ma per organizzarsi.
    Perché uno Stato che non conosce chi entra, chi resta e chi deve partire, non è uno Stato accogliente. È uno Stato vulnerabile.

    L’integrazione e la sicurezza non sono due principi in contrasto: sono due condizioni necessarie per costruire una società giusta e stabile. L’Italia, in questo senso, può diventare un laboratorio europeo: il luogo dove si sperimenta un equilibrio tra accoglienza e ordine, tra diritti e doveri, tra libertà e responsabilità.
    Un equilibrio che dovrebbe ispirare anche gli altri Paesi dell’Unione, in un quadro di regole comuni, verifiche effettive e solidarietà reciproca.
    Perché l’immigrazione non è un problema da subire, ma una realtà da governare con strumenti adeguati e valori condivisi.

    In definitiva, l’integrazione non può esistere senza legalità, e la legalità non serve a nulla senza un progetto di integrazione.
    È questo il significato del paradigma che propongo: integrazione o reimmigrazione.
    Una formula che non nasce da ideologia, ma da realismo.
    Perché il futuro dell’Europa si giocherà sulla capacità di accogliere chi vuole appartenere e di rimandare chi rifiuta di farlo.
    L’Italia può essere il punto di partenza di questo nuovo modello, che unisce umanità e fermezza, solidarietà e responsabilità.

    Io sono l’avvocato Fabio Loscerbo, e vi invito a leggere gli approfondimenti sul sito http://www.reimmigrazione.com.

  • Dagli Uffici Immigrazione all’ICE: perchè è necessario costruire una Polizia dell’Immigrazione per l’Italia

    In Italia il governo dei flussi migratori continua a poggiare su un apparato amministrativo frammentato e sovraccarico, affidato agli Uffici Immigrazione delle Questure, alle Prefetture e a una rete di strutture che, pur agendo con professionalità, operano senza una visione unitaria e senza strumenti realmente adeguati alla complessità del fenomeno.
    Negli Stati Uniti, al contrario, l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) rappresenta una vera e propria Polizia dell’Immigrazione, con poteri investigativi, operativi e di coordinamento su tutto il territorio federale. Il confronto è inevitabile, e mostra con chiarezza il vuoto strutturale del sistema italiano.

    1. Due modelli opposti: l’efficienza statunitense e la frammentazione italiana

    L’ICE statunitense è un’agenzia federale specializzata, dotata di proprie unità investigative e operative, con competenze che spaziano dal contrasto all’immigrazione irregolare alle operazioni contro le reti transnazionali di traffico di esseri umani.
    Nel solo mese di ottobre 2025, operazioni coordinate a Houston, Chicago e nel Massachusetts hanno portato all’arresto di oltre duemila persone tra trafficanti, ricercati internazionali e soggetti in posizione irregolare. L’agenzia opera in stretta sinergia con la Border Patrol, ma mantiene autonomia gerarchica e gestionale, consentendo interventi mirati anche nelle aree interne del Paese.

    L’Italia, invece, non dispone di nulla di paragonabile.
    Gli Uffici Immigrazione delle Questure gestiscono un volume crescente di permessi di soggiorno, richieste di protezione internazionale, decreti di espulsione e ricorsi amministrativi, ma lo fanno con personale ridotto, strumenti informatici inadeguati e competenze disperse tra più amministrazioni.

    Il risultato è un sistema lento, burocratizzato e privo di specializzazione operativa.
    Non si tratta di inefficienza individuale: è un vuoto strutturale, che discende dall’assenza di una forza di polizia specificamente dedicata all’immigrazione.

    2. Le carenze denunciate dai sindacati di polizia

    Le organizzazioni sindacali della Polizia di Stato denunciano da tempo questa criticità.
    L’Unione Sindacale Italiana Poliziotti (USIP) ha segnalato “carenze organiche di tantissimi Uffici Immigrazione su tutto il territorio nazionale” (https://www.usip.it/nazionale/1247-potenziamento-uffici-immigrazione.html) , sollecitando un potenziamento stabile delle risorse umane e logistiche.
    Il SIULP, in un comunicato del marzo 2025, ha chiesto al Dipartimento della Pubblica Sicurezza un “incontro urgente per affrontare la situazione di sovraccarico del personale impiegato negli uffici immigrazione” (https://siulp.it/uffici-immigrazione-impiego-del-personale-richiesta-di-chiarimenti-e-incontro-urgente/ ).
    Un’inchiesta di NSP Polizia ha stimato che in molte questure manca circa il 30% del personale previsto per legge, con gravi ricadute sui tempi di lavorazione delle pratiche, sull’efficacia dei controlli e sulla sicurezza degli operatori (https://www.nsp-polizia.it/prefetture-e-questure-con-organico-ridotto-e-software-inadeguati-negli-uffici-manca-circa-il-30-del-personale-previsto-per-legge/).

    Dietro la parola “carenza di organico” si nasconde un paradosso: mentre l’immigrazione è un fenomeno strutturale e in crescita, lo Stato continua a trattarla come un’emergenza amministrativa, affidandone la gestione a uffici concepiti per altri compiti.

    3. L’assenza di una Polizia dell’Immigrazione

    La differenza rispetto al modello americano non è solo quantitativa, ma qualitativa.
    L’Italia non ha una Polizia dell’Immigrazione in senso proprio: le funzioni sono distribuite tra Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e personale civile del Ministero dell’Interno. Nessuno di questi corpi, tuttavia, è formato o organizzato per occuparsi in via esclusiva della dimensione migratoria.
    Le conseguenze sono evidenti: ritardi nei procedimenti, mancato coordinamento tra Questure e Prefetture, difficoltà nel controllo effettivo del territorio, impossibilità di attuare politiche differenziate per contesto regionale.

    Una Polizia dell’Immigrazione non avrebbe un carattere repressivo, ma amministrativo e di ordine pubblico, con funzioni miste: controllo, monitoraggio, accompagnamento, ma anche prevenzione e supporto alle politiche di integrazione.
    Negli Stati Uniti, l’ICE non si limita a eseguire espulsioni: raccoglie dati, collabora con le autorità locali, forma agenti specializzati e coordina strategie su base territoriale.

    4. ReImmigrazione e sovranità amministrativa

    Nel paradigma della ReImmigrazione, l’integrazione non è un concetto astratto ma un processo verificabile. Quando fallisce, lo Stato deve disporre di strumenti concreti per intervenire: non solo giudici, commissioni e burocrazia, ma una forza di polizia specifica, capace di garantire l’esecuzione effettiva delle decisioni e il rispetto delle norme.
    In questo senso, la creazione di una Polizia dell’Immigrazione rappresenta una condizione di sovranità amministrativa: serve a ristabilire la capacità dello Stato di applicare le proprie regole senza demandare tutto alla lentezza procedurale degli uffici.

    Il corpo potrebbe essere organizzato secondo due modelli alternativi:

    • nazionale, per assicurare uniformità e coordinamento centralizzato;
    • regionale, per rispondere alla specificità dei contesti locali, dove l’impatto migratorio varia in base al territorio, al tessuto economico e alla pressione sociale.

    Entrambe le ipotesi condividono un obiettivo: rendere l’immigrazione una materia di ordine amministrativo gestita con strumenti di polizia specializzata, non un peso burocratico scaricato su uffici sottodimensionati.

    5. Verso una nuova architettura dell’immigrazione

    Il confronto con gli Stati Uniti evidenzia una linea di fondo: dove esiste una struttura dedicata, lo Stato è in grado di governare; dove manca, subisce.
    L’Italia continua a oscillare tra retorica e emergenza, senza dotarsi degli strumenti necessari per una gestione moderna e coerente.
    Una Polizia dell’Immigrazione — nazionale o regionale — non sarebbe una forzatura, ma la naturale evoluzione di un sistema che vuole coniugare integrazione, sicurezza e legalità.

    È giunto il momento di riconoscere che il diritto all’accoglienza implica anche il dovere di garantire ordine, efficienza e certezza delle regole.
    La ReImmigrazione non è un sogno ideologico, ma una necessità giuridica: senza un corpo dedicato, la politica dell’immigrazione resterà ostaggio delle procedure e delle carenze di organico.
    Lo Stato deve poter agire, non soltanto attendere.

    Avv. Fabio Loscerbo, lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

  • Towards a European Integration Agreement: Italy’s Model for a Common Immigration Policy

    In the European debate on migration, discussions often focus on quotas, relocations, and border controls. Yet one essential question remains largely ignored: how can we ensure that those who enter and stay in Europe truly share the values, duties, and rules of the European community?

    Italy, through Article 4-bis of Legislative Decree 286/1998, introduced a mechanism that — although poorly implemented — represents an advanced foundation: the Integration Agreement between the State and the foreign national.

    It is a simple yet revolutionary concept: integration as a bilateral obligation, based on concrete and verifiable commitments.
    On one side, the foreign citizen undertakes to learn the national language, respect the Constitution, pay taxes, and guarantee compulsory education for their children.
    On the other, the State ensures access to fundamental rights, civic training, and public services, supporting real participation in society.

    In essence, it is a temporary pact of citizenship, where the right to stay depends on the duty to integrate — a principle that the European Union should now adopt, turning the Italian model into a European Integration Agreement.

    1. A mechanism for shared responsibility

    The Italian model operates through a credit system, where credits are gained through linguistic, educational, and social progress and deducted in cases of criminal convictions or civic non-compliance.

    Applied on a European scale, this mechanism could become a tool for common monitoring of integration standards across the 27 Member States, overcoming the current fragmentation of national approaches.
    A foreign national moving within the EU could maintain and transfer their integration credits, allowing transparent and traceable progress throughout the Union.

    2. Coherence with the new European Pact on Migration and Asylum

    The New EU Pact on Migration and Asylum focuses mainly on border management and return procedures but remains weak on integration after entry.
    A European Integration Agreement would fill this gap within the framework of Article 79 TFEU, which empowers the EU to define common conditions for entry and residence of third-country nationals.

    Through a regulation or directive, the Union could establish minimum integration standards based on:

    • knowledge of the host country’s language and civic culture;
    • respect for the fundamental values of the Union (Article 2 TEU);
    • active participation in social and economic life;
    • measurable and periodic assessments of progress.

    3. From integration to ReImmigration: a European principle of reciprocity

    If integration is a pact, it must also have consequences in case of non-compliance.
    Under the paradigm promoted by Reimmigrazione, failure of integration leads to ReImmigration — the return to the country of origin or relocation to another safe country willing to receive the individual.

    Applied at EU level, this principle would make long-term residence a result, not a presumption.
    It is not punitive but coherent: integration is not declared, it is demonstrated.
    A shared European framework would finally connect rights with responsibilities, ensuring that residence is granted to those who truly belong to the community of values that defines Europe.

    4. A model that strengthens European identity

    A European Integration Agreement would not erase national traditions.
    Rather, it would reaffirm that European identity is built on shared principles — freedom, equality, solidarity, and the rule of law.
    Each Member State would maintain its cultural and administrative particularities, while operating within a common structure of civic responsibility.

    A foreign national living in Europe must know that they enter not only a geographical area but a community of rights and rules: the freedom to stay entails the duty to integrate.

    Conclusion

    Italy already has a normative model that, if fully implemented and modernized, could become the cornerstone of a European policy of responsible integration.
    Europe needs a common vision that unites hospitality with accountability, solidarity with reciprocity.
    It is not enough to manage migration flows — the Union must govern belonging.

    The first step could be this: transforming the Italian Integration Agreement into a European Integration and ReImmigration Agreement.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lawyer specialized in Immigration Law and registered lobbyist in the EU Transparency Register (ID: 280782895721-36) – Field: Migration and Asylum Policy

  • Accordo di integrazione: da obbligo burocratico a leva strategica per una politica dell’immigrazione responsabile

    L’accordo di integrazione, introdotto dall’art. 4-bis del Testo Unico sull’immigrazione, rappresenta uno strumento potenzialmente decisivo ma tuttora sottoutilizzato. Previsto come un patto reciproco tra lo Stato e il cittadino straniero, esso avrebbe dovuto costituire la base operativa di una politica fondata sulla responsabilità individuale e sull’adesione consapevole ai valori costituzionali.

    Nella realtà, però, l’accordo è rimasto un adempimento formale, spesso percepito come un atto meramente amministrativo da sottoscrivere presso lo sportello unico per l’immigrazione. Pochi stranieri ne conoscono davvero il contenuto; poche Prefetture ne curano un’effettiva attuazione o verifica.

    Eppure, come emerge chiaramente dal testo ufficiale — che rendiamo disponibile in formato PDF

    — l’accordo definisce impegni precisi:

    • l’apprendimento della lingua italiana almeno al livello A2;
    • la conoscenza dei principi fondamentali della Costituzione e delle istituzioni;
    • il rispetto degli obblighi fiscali e contributivi;
    • la garanzia dell’istruzione per i figli minori.

    A fronte di questi doveri, lo Stato si impegna ad assicurare l’accesso ai diritti fondamentali, alla formazione civica e ai servizi pubblici, nonché a sostenere concretamente il processo di integrazione.

    Il sistema dei crediti — assegnati e decurtati in base ai comportamenti, ai percorsi formativi e alle condanne penali — rappresenta un’idea moderna e meritocratica, ma è rimasto lettera morta. Le verifiche biennali previste sono quasi mai realizzate; la banca dati nazionale non è mai divenuta un vero strumento di monitoraggio.

    In un momento storico in cui si invoca una immigrazione sostenibile e fondata sull’integrazione reale, l’attuazione effettiva dell’accordo costituirebbe un passo essenziale. Occorrerebbe:

    1. Uniformare le procedure tra Prefetture, con controlli periodici e misurabili;
    2. Rendere trasparente l’anagrafe nazionale degli accordi, con accesso ai dati per fini statistici e di ricerca;
    3. Integrare l’accordo con i percorsi regionali di formazione civica e linguistica, valorizzando il sistema dei crediti anche ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno;
    4. Trasformarlo in una vera “Carta dell’integrazione e della ReImmigrazione”, in cui la sottoscrizione implichi non solo diritti ma anche doveri effettivi, e in cui il fallimento del percorso di integrazione comporti la ReImmigrazione, intesa come conseguenza naturale del venir meno dell’impegno assunto con lo Stato ospitante

    L’integrazione, come ricordato nel preambolo dell’accordo stesso, è “processo di convivenza nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione”. Farne una leva strategica significa riconoscere che il diritto a rimanere nel territorio italiano non può essere disgiunto dal dovere di integrarsi e contribuire.

    Chi vuole partecipare al dibattito o proporre modifiche al modello, può scaricare qui il testo integrale dell’attuale Accordo di integrazione in formato PDF e inviare commenti e suggerimenti alla redazione di Reimmigrazione.

    📄 Scarica il documento ufficiale:
    👉 Accordo di Integrazione

    Per favorire un confronto internazionale e promuovere una più ampia comprensione del sistema italiano, rendiamo disponibile anche la versione ufficiale in lingua inglese dell’Accordo di Integrazione, tradotta dal Ministero dell’Interno.
    👉 Integration Agreement – Official English Version (PDF)

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36) – Materia: politiche dell’immigrazione e dell’asilo+

  • La retorica dell’accoglienza e il silenzio sulle responsabilità

    Da anni, in Italia, l’integrazione viene raccontata in un solo modo: come un dovere dello Stato e delle istituzioni.
    Ogni convegno, ogni tavola rotonda, ogni programma pubblico ripete lo stesso schema: più accoglienza, più diritti, più inclusione.

    Ma mai una parola sulla responsabilità di chi arriva, sul dovere di integrarsi, di rispettare le regole, di partecipare alla vita della comunità.
    È il grande rimosso del dibattito pubblico.

    La retorica dell’accoglienza si è trasformata in un alibi che deresponsabilizza lo straniero e, al tempo stesso, indebolisce il senso stesso dell’integrazione.

    Perché senza reciprocità non c’è convivenza, e senza doveri condivisi nessuna società può dirsi coesa.
    I convegni che si moltiplicano nelle città italiane — come quello organizzato a Bologna su “nuove cittadinanze e rappresentanza” — finiscono per rappresentare solo una parte della realtà: quella che vuole vedere nello straniero un soggetto sempre da tutelare, mai da coinvolgere in un patto di integrazione.

    Si parla di accoglienza, ma non di appartenenza; di inclusione, ma non di partecipazione; di discriminazioni, ma non di comportamenti.
    È su questo terreno che si innesta il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: un modello che restituisce equilibrio tra diritti e doveri, tra ospitalità e responsabilità.
    Non si tratta di negare l’accoglienza, ma di darle un senso. Accogliere non significa rinunciare a chiedere integrazione; significa, al contrario, esigere impegno, rispetto, adesione ai valori comuni.

    Un Paese può essere accogliente solo se la sua accoglienza è ordinata, coerente, e fondata su un principio di reciprocità.
    Continuare a parlare solo di diritti, senza mai parlare di doveri, significa alimentare un sistema fragile, incapace di costruire comunità vere.
    Per questo serve un cambio di paradigma: meno retorica, più realtà.
    Non basta accogliere: bisogna integrare. E chi non sceglie l’integrazione, sceglie la reimmigrazione.
    Il dibattito è aperto.

    Avv. Fabio Loscerbo

  • Corpo nazionale o polizie regionali dell’immigrazione? Il dibattito è aperto

    Nel precedente articolo pubblicato su ReImmigrazione.com avevo avanzato la proposta di istituire un Corpo di Polizia dell’Immigrazione nazionale, una forza specializzata dedicata alla gestione del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”.

    L’idea partiva da un principio semplice: se l’immigrazione è una realtà strutturale, non può essere gestita con logiche emergenziali o frammentate. Serve un corpo unico, preparato, con competenze giuridiche, linguistiche e interculturali, capace di rendere effettiva la legalità dell’integrazione e la concretezza della ReImmigrazione.

    Ma nelle ultime settimane, riflettendo sul quadro territoriale italiano, si è aperta una possibile alternativa: e se invece di un corpo nazionale si pensasse a polizie regionali dell’immigrazione?
    Ogni regione vive infatti il fenomeno migratorio in modo diverso.
    Secondo i dati ISTAT aggiornati al 2024, gli stranieri residenti in Italia sono circa 5,3 milioni, pari all’8,9 % della popolazione. Tuttavia, la loro distribuzione è fortemente disomogenea: oltre il 60 % vive nel Nord, con concentrazioni significative in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, mentre il Sud registra percentuali più basse ma un impatto maggiore sul piano dell’accoglienza.
    In Emilia-Romagna e Lombardia prevale un’immigrazione lavorativa e integrata; in Sicilia e Calabria, invece, le sfide sono legate agli sbarchi e alla gestione dei centri di accoglienza.

    Di fronte a tale varietà di scenari, qualcuno potrebbe chiedersi se non sia più efficace un modello decentrato, dove ciascuna Regione dispone di una propria Polizia dell’Immigrazione, con poteri amministrativi e funzioni di prossimità.
    Un corpo regionale, infatti, potrebbe operare in stretto contatto con i servizi territoriali – lavoro, formazione, sanità, casa – e rispondere più rapidamente alle esigenze locali.
    Al contrario, un corpo nazionale garantirebbe uniformità, formazione centralizzata e standard univoci di applicazione del diritto.
    Due modelli, due visioni:
    Il Corpo nazionale punta alla coerenza, alla forza unitaria dello Stato e a una linea di comando chiara.
    Le Polizie regionali valorizzano la sussidiarietà, la conoscenza del territorio e la flessibilità amministrativa.

    Entrambi, tuttavia, potrebbero essere coerenti con la filosofia della ReImmigrazione:
    – il primo assicurando un controllo integrato e sistemico;
    – il secondo permettendo un’integrazione più capillare e vicina alle comunità.

    La questione, allora, non è solo organizzativa: è culturale e politica.
    Perché scegliere significa definire la natura stessa della gestione dell’immigrazione in Italia.
    Vogliamo un sistema che esprima la forza unitaria dello Stato o un modello che rifletta le differenze dei territori?
    Vogliamo una direzione unica e centralizzata o più centri autonomi che collaborano secondo principi comuni?
    In fondo, entrambe le opzioni rispondono alla stessa esigenza: rendere effettivo il principio di Integrazione o ReImmigrazione.
    La differenza è nel modo in cui intendiamo costruire lo Stato del futuro: più forte al centro o più consapevole nelle sue periferie.
    È su questa scelta che si giocherà la credibilità delle politiche migratorie italiane ed europee nei prossimi anni.


    Avv. Fabio Loscerbo
    ID Registro per la Trasparenza UE 280782895721-36

  • Remigrazione e ReImmigrazione: la Reazione e il Sistema

    Negli ultimi anni, la parola remigrazione è entrata progressivamente nel dibattito italiano in materia migratoria e identitaria.

    Essa esprime un vissuto di insicurezza, di frustrazione normativa e di domanda non soddisfatta di regole e integrazione.

    Nel mio precedente contributo «Remigrazione è futile. Serve un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione» ho evidenziato come le politiche migratorie attuali mostrino limiti strutturali.
    Con l’articolo «ReImmigrazione non è Remigrazione: serve chiarezza» ho sottolineato che è fondamentale distinguere tra i due termini, perché rischiano di essere usati come sinonimi quando invece appartengono a logiche diverse.

    Ora propongo di integrare queste riflessioni nell’ottica che la remigrazione rappresenti una reazione, mentre la ReImmigrazione si inscrive in un sistema giuridico.

    Remigrazione come Reazione

    La remigrazione può essere vista come una risposta spontanea dello spazio sociale alla percezione che le regole dell’immigrazione non funzionino o non siano sufficiently efficaci. Non è di per sé un programma strutturato: è un segnale, un richiamo, una domanda di cambiamento.
    Nel pezzo del 12 aprile 2025 ho scritto che:

    «Il termine è ormai associato a proposte radicali e identitarie … In questo contesto può nascere confusione con il concetto di ReImmigrazione …»
    Ciò significa che la remigrazione, pur legittima come segnale di bisogno, deve essere interpretata correttamente: come reazione, non come punto d’arrivo.

    È essenziale riconoscere che la reazione non costruisce da sola: necessita un ambito di regole, verifica e normativa. Altrimenti rimane puramente espressiva.

    ReImmigrazione come Sistema

    La ReImmigrazione, diversamente, è concepita come un paradigma giuridico riformista — non una semplice risposta politica o ideologica. Nel contributo «ReImmigrazione non è Remigrazione» ho chiarito che:

    «Non si parla di deportazioni né di discriminazioni etniche, ma di responsabilità».
    E ancora:
    «ReImmigrazione nasce all’interno di una proposta riformista che vuole superare tanto l’accoglienza incondizionata quanto il rigetto indiscriminato».
    La ReImmigrazione stabilisce che la permanenza dello straniero nel Paese sia legata a un impegno concreto di integrazione — lavoro, lingua, rispetto delle regole — e che la mancata realizzazione di tale impegno possa dar luogo a un percorso regolato di uscita (re-immigrazione), all’interno del diritto e non al di fuori.

    In questo senso, la ReImmigrazione non è una mera alternativa politica, ma un sistema di governance giuridica, che bilancia diritti e doveri in un’ottica europea.

    Dal segnale al sistema

    La distinzione tra remigrazione e ReImmigrazione non è dunque di ordine narrativo, ma operativo:

    • La remigrazione segnala che c’è una domanda non soddisfatta di ordine, regole e integrazione.
    • La ReImmigrazione propone come rispondere attraverso un sistema giuridico che dà forma, contenuto e verifica al concetto di integrazione e permanenza.
      In altri termini: la reazione (remigrazione) attiva la consapevolezza; il sistema (ReImmigrazione) fornisce l’architettura.

    Pur segnalando criticità o punti di inattivazione normativa, il paradigma ReImmigrazione non difende la reazione fine a se stessa, ma punta a trasformarla in ordine giuridico.

    Per questo motivo è cruciale chiarire la differenza tra i termini: evitare che la ReImmigrazione venga assorbita in una retorica puramente politica o identitaria della remigrazione.

    Conclusione

    La remigrazione è la reazione che indica che qualcosa non funziona.
    La ReImmigrazione è il sistema che può farlo funzionare, nel rispetto dell’ordinamento e della comunità nazionale ed europea.
    Il paradigma che propongo non è politico-partitico, ma giuridico: non si schiera, ma propone.
    È tempo di andare oltre la reazione e costruire il sistema.

    Avv. Fabio Loscerbo
    ID Registro Trasparenza UE: 280782895721-36

  • Integrazione o Reimmigrazione: l’alternativa che l’economia non racconta

    In Europa si continua a ripetere che l’immigrazione è inevitabile, quasi una legge naturale.

    È diventata la formula con cui si cerca di compensare il declino demografico, la carenza di manodopera e la fragilità dei sistemi pensionistici.

    Ma dietro questa visione economicistica si nasconde una contraddizione profonda: trattare l’immigrazione come una necessità tecnica significa dimenticare che la coesione europea non è fatta solo di numeri, ma di identità, valori e responsabilità condivise.

    I dati ufficiali confermano la complessità del fenomeno. Secondo Eurostat, già nel 2012 oltre 3,4 milioni di persone si erano spostate all’interno dell’Unione europea, metà provenienti da Paesi terzi e metà da altri Stati membri.
    Oggi, secondo il Parlamento europeo, i cittadini extracomunitari rappresentano il 6,4% della popolazione complessiva dell’UE, pari a 28,9 milioni di persone su 449 milioni di abitanti. Nel 2023 sono stati registrati 3,7 milioni di ingressi legali e circa 385.000 irregolari, mentre nel 2024 gli attraversamenti irregolari delle frontiere esterne si sono ridotti a 239.000, con un calo del 38% rispetto all’anno precedente (dati Frontex).
    La grande maggioranza dei movimenti migratori avviene dunque per canali regolari, ma la percezione pubblica resta dominata dall’emergenza.

    È il segno che la questione non è più quantitativa, bensì qualitativa: non quanti arrivano, ma come vengono integrati.

    Eurostat aveva già avvertito più di dieci anni fa che “la migrazione da sola non potrà quasi certamente invertire la tendenza all’invecchiamento della popolazione”. È una frase che oggi assume un valore politico decisivo. La migrazione non è la cura del declino europeo: può solo affiancare, non sostituire, le politiche interne di natalità, formazione e innovazione.

    Nel 2024, quasi un milione di persone ha presentato domanda d’asilo nell’Unione; 911.960 erano richieste di protezione per la prima volta. La Germania ha accolto il 31% di tutte le domande, seguita da Spagna (15%), Francia (14%) e Italia (12%). I principali Paesi di origine sono Siria, Venezuela, Afghanistan, Colombia e Turchia, che insieme rappresentano quasi la metà dei richiedenti.
    Nello stesso anno gli Stati membri hanno riconosciuto protezione a 437.900 persone, con un aumento del 6,9% rispetto al 2023. Si tratta di dati che mostrano la dimensione reale della protezione, ma anche la disomogeneità del carico tra Paesi: segno che l’Europa non ha ancora un principio comune di responsabilità.

    A partire dal 2015 l’Unione ha investito risorse senza precedenti nella gestione dei flussi: 22,7 miliardi di euro nel bilancio 2021-2027 per migrazione e frontiere, più del doppio rispetto al ciclo precedente. Eppure, l’assenza di una visione politica unitaria ha trasformato queste risorse in un meccanismo di contenimento, non di coesione.
    Lo stesso Parlamento europeo sottolinea che “il rimpatrio dei cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno costituisce una priorità nella gestione dell’immigrazione a livello europeo e nazionale”. Ma rimpatrio e Reimmigrazione non sono sinonimi: il primo è un atto amministrativo, la seconda un paradigma giuridico.

    Il paradigma dell’Integrazione o Reimmigrazione nasce da questa consapevolezza. L’Europa non può limitarsi a “gestire” la migrazione: deve governarla in base a criteri di integrazione verificabile.

    Chi entra e desidera vivere stabilmente in uno Stato europeo deve accettare un percorso fondato su tre pilastri — lavoro, lingua e rispetto delle regole — come condizione per la permanenza.
    Chi lo completa diventa parte della comunità e partecipa al futuro dell’Europa. Chi invece rifiuta questo percorso deve poter tornare nel proprio Paese.

    Non si tratta di chiudere le porte, ma di ricostruire un principio di equilibrio.

    Con oltre 33 milioni di persone nate fuori dall’UE e decine di milioni di discendenti di migranti ormai cittadini europei, l’Unione deve definire cosa significhi “far parte” della comunità europea nel XXI secolo.
    La libertà di circolazione, sancita dagli accordi di Schengen, resta un pilastro dell’identità europea; ma quella libertà implica una responsabilità condivisa: chi vuole restare deve accettare di integrarsi.

    Quando nel 2022 l’UE ha attivato per la prima volta la Direttiva sulla protezione temporanea per accogliere milioni di rifugiati ucraini, ha dimostrato di saper agire con unità e rapidità. Lo stesso spirito può e deve ispirare una nuova politica migratoria basata non sull’improvvisazione ma su un principio di reciprocità.

    L’Integrazione o Reimmigrazione non è una formula di chiusura, ma di civiltà: un modo per conciliare solidarietà e ordine, libertà e sicurezza, diritti e doveri.
    Solo se l’Europa saprà coniugare l’accoglienza con l’obbligo di partecipare alla vita comune, potrà superare la crisi d’identità che la attraversa.
    Non basta sapere chi arriva: bisogna sapere chi si integra e chi no.
    Solo così l’Unione non sarà più una terra che subisce la migrazione, ma una comunità che la governa con equilibrio,responsabilità e dignità.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Avvocato – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea


    Fonti:

    • Parlamento europeo, “Asilo e migrazione nell’UE: fatti e cifre”, 2025.
    • Eurostat, “Migrazioni e statistiche demografiche dei migranti”, 2013 (dati 2012).
    • Loredana Teodorescu, “L’Unione europea e la sfida dell’immigrazione”, progetto EU Goes to Schools, Commissione Europea, 2013.

  • Integrazione o ReImmigrazione? Bologna come laboratorio della crisi urbana europea

    Bologna, città universitaria e capitale storica dell’accoglienza, è oggi anche uno degli epicentri italiani del dibattito sulla sicurezza.

    Gli ultimi dati del Ministero dell’Interno e de Il Sole 24 Ore indicano che la città si colloca ai primi posti nazionali per numero di reati denunciati, con un incremento significativo dei furti e delle rapine nel corso del 2024. Un dato che, inserito nel contesto sociale e demografico della città, interroga profondamente il modello di integrazione finora adottato.
    Secondo il portale statistico “I numeri di Bologna metropolitana”, gli stranieri residenti nel comune sono oltre 61.500, pari al 15,7 % della popolazione, mentre nell’area metropolitana superano le 124 mila unità.

    Si tratta di una componente ormai strutturale del tessuto urbano, proveniente in larga parte da Romania, Bangladesh e Filippine.

    Tuttavia, la presenza numerica non si traduce automaticamente in integrazione: i dati mostrano profonde differenze tra comunità stabilmente inserite e segmenti di popolazione rimasti ai margini.
    Sul fronte della sicurezza, le cifre fornite dalle forze dell’ordine e riprese dalla stampa locale sono eloquenti: su 2.558 persone arrestate o denunciate per furto, 1.544 erano straniere, pari al 60 %. Nelle rapine, la percentuale sale al 63 % (466 su 742).

    Numeri che, letti senza pregiudizi ma con rigore, segnalano un fenomeno che non può essere liquidato come “percezione di insicurezza”.
    Bologna è così diventata un caso di studio: una città dove l’alta qualità dei servizi pubblici convive con sacche di degrado urbano e criminalità diffusa, soprattutto nelle aree più esposte alla marginalità economica. Piazza Verdi, la Bolognina, la zona della stazione centrale e parte di via Zamboni rappresentano oggi i punti critici di una mappa che riflette non solo disagio sociale, ma anche la fragilità delle politiche di integrazione.

    A livello nazionale, le ricerche dell’ISTAT e della Rivista Il Mulino hanno più volte chiarito che non esiste un legame automatico tra immigrazione e criminalità.

    Tuttavia, a Bologna come in molte città europee, l’aumento di alcune tipologie di reato coincide con l’emergere di nuove disuguaglianze urbane.

    È in questi spazi di esclusione – dove la mancanza di lavoro, formazione e alloggio regolare si intreccia con la precarietà giuridica – che il sistema dell’integrazione sembra essersi inceppato.
    Il paradigma Integrazione o ReImmigrazione nasce proprio da questa constatazione: l’idea che l’accoglienza, per funzionare, non possa più essere scollegata da una reale verifica dei percorsi di inserimento sociale. L’obiettivo non è contrapporre italiani e stranieri, ma stabilire un principio di responsabilità reciproca: chi si integra deve poter restare e partecipare pienamente alla vita civile; chi rifiuta o elude le regole comuni, deve poter essere accompagnato in un percorso di ritorno nel proprio Paese d’origine.

    Bologna diventa così il laboratorio di una nuova idea d’Europa: non quella dei confini chiusi, ma dei criteri chiari. L’esperienza cittadina mostra che l’integrazione non può ridursi a un fatto economico, ma deve poggiare su tre pilastri fondamentali — lavoro, lingua e rispetto delle regole.

    Dove questi elementi mancano, non resta che la marginalità, e con essa il terreno fertile per la devianza.
    L’alternativa non è tra accoglienza e respingimento, ma tra integrazione e ReImmigrazione: tra un modello che funziona e uno che implode.

    Bologna, con i suoi contrasti e le sue contraddizioni, ci costringe a guardare oltre le statistiche per capire che la vera sicurezza non nasce dal controllo, ma dall’appartenenza condivisa.

    Avv. Fabio Loscerbo

  • Occupazione e integrazione – Analisi critica dei dati sull’inserimento lavorativo degli stranieri in Italia

    Numeri e realtà: la falsa integrazione dietro i dati sull’occupazione straniera
    Negli ultimi rapporti diffusi da ISTAT e dal Ministero del Lavoro, l’Italia appare come un Paese che ha quasi raggiunto la parità occupazionale tra cittadini italiani e stranieri.

    Il tasso di occupazione dei cittadini stranieri residenti si attesta intorno al 66,2%, appena un punto in meno rispetto al 67,2% degli italiani.

    A prima vista, il dato sembrerebbe segnalare una piena integrazione lavorativa, un successo delle politiche di inclusione e un superamento delle barriere economiche.
    Ma basta guardare oltre la superficie per scoprire una realtà ben diversa: la qualità del lavoro, la stabilità occupazionale e la mobilità sociale raccontano un’altra storia.

    La trappola della “integrazione numerica”
    Dietro i numeri, l’integrazione resta spesso apparente.
    Il tasso di disoccupazione straniera, pari al 10,1% contro il 6,1% degli italiani, mostra che una parte significativa della popolazione immigrata resta ai margini del mercato del lavoro. Molti di coloro che risultano “occupati” lavorano in condizioni precarie, in settori dequalificati o ad alto rischio di irregolarità.
    Oltre il 60% dei lavoratori stranieri è concentrato in tre aree:
    agricoltura e allevamento (18%),
    edilizia e logistica (16%),
    servizi di cura e pulizia (oltre 30%).
    Si tratta di comparti indispensabili ma fragili, caratterizzati da bassi salari, contratti brevi e difficoltà di tutela sindacale.

    È la fotografia di una integrazione funzionale ma non strutturale: utile all’economia, ma incapace di creare cittadinanza reale.

    Il nodo della formazione e del capitale umano
    Un altro elemento decisivo riguarda l’istruzione.
    Tra i cittadini stranieri residenti in Italia, quasi la metà (48,1%) possiede al massimo la licenza media, mentre solo l’11,6% ha conseguito una laurea.
    La differenza con la popolazione italiana (20,7% di laureati) si traduce in una limitata mobilità professionale e in un rischio di cristallizzazione delle disuguaglianze.
    Il lavoro, dunque, diventa un semplice strumento di sopravvivenza, non un vero veicolo di integrazione.
    Il passaggio da “occupato” a “integrato” dovrebbe implicare l’adesione ai valori, alle regole e alle responsabilità della società che accoglie — non solo l’inserimento in una busta paga.

    Quando il lavoro non basta per restare
    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce proprio da questa consapevolezza: l’occupazione è necessaria ma non sufficiente.
    Non basta lavorare: occorre dimostrare di voler far parte di una comunità, condividendone le regole e contribuendo al suo equilibrio.
    Chi si integra davvero, attraverso il lavoro, la lingua e la legalità, deve poter consolidare la propria posizione giuridica.
    Chi invece vive in una condizione di esclusione permanente, o sceglie di restare ai margini, non può trasformare la precarietà in diritto soggettivo al radicamento.
    In questo senso, la ReImmigrazione non è un atto punitivo, ma la conclusione naturale di un percorso non riuscito, uno strumento per restituire coerenza a un sistema che oggi confonde inclusione con presenza.

    Dalla statistica alla politica
    Serve una svolta concettuale:
    Lavoro stabile, non semplicemente lavoro;
    Formazione e lingua italiana come prerequisiti obbligatori;
    Rispetto delle regole come condizione di permanenza.

    Solo così i numeri potranno finalmente corrispondere alla realtà, e l’integrazione smetterà di essere un artificio statistico per diventare un processo autentico di appartenenza.

    L’integrazione non si misura con le percentuali, ma con la responsabilità.
    E quando la responsabilità manca, la ReImmigrazione è la risposta logica di uno Stato che vuole restare giusto.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Criminalità in crescita: quando il fallimento dell’integrazione diventa emergenza nazionale

    I numeri pubblicati dal Sole 24 Ore il 3 novembre 2025 non lasciano spazio a interpretazioni: in Italia i reati tornano a crescere, e la componente straniera appare sovra-rappresentata nelle denunce e negli arresti.

    Nel 2024, secondo l’analisi condotta sui dati del Ministero dell’Interno, le persone denunciate o arrestate sono state 828.714, con un aumento del 4% rispetto all’anno precedente.

    Tra queste, 287.396 erano cittadini stranieri, pari a oltre un terzo del totale.
    Il dato diventa ancora più rilevante se si osservano i reati predatori: nei furti, negli scippi e nelle rapine, oltre sei arrestati su dieci sono stranieri.
    Nelle violenze sessuali, la quota di autori stranieri sale al 43,7%, a fronte di una popolazione che rappresenta circa il 9% dei residenti in Italia.
    Si tratta di cifre che impongono una riflessione profonda.

    Non è una questione etnica, ma un sintomo sistemico del fallimento dell’integrazione.

    Una parte della popolazione immigrata non è riuscita, o non ha voluto, inserirsi nei valori, nelle regole e nel tessuto civile del Paese che l’ha accolta.

    L’integrazione come condizione giuridica
    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce esattamente da questa constatazione.
    L’immigrazione può essere sostenibile solo se si accompagna a un reale processo di integrazione, fondato su tre pilastri:
    lavoro, lingua, legalità.
    Lo straniero che rispetta le regole, lavora e partecipa alla vita comunitaria deve essere tutelato.

    Ma chi rifiuta l’integrazione o si pone fuori dall’ordinamento giuridico — attraverso comportamenti antisociali o delinquenziali — non può rivendicare il diritto a rimanere.

    L’ordinamento italiano già contiene questo principio all’art. 19 del Testo Unico Immigrazione, che tutela lo straniero da espulsioni arbitrarie ma non gli garantisce un diritto incondizionato alla permanenza.

    È quindi tempo di tradurre questo principio in una politica strutturata di responsabilità reciproca:
    chi si integra resta;
    chi rifiuta di integrarsi deve tornare nel Paese d’origine attraverso programmi di ReImmigrazione assistita e controllata, rispettosa della dignità personale ma ferma nei principi.

    L’Occidente come comunità di appartenenza
    I dati del Sole 24 Ore mostrano anche un fenomeno più profondo: la crisi dell’appartenenza ai valori occidentali.
    Dietro le statistiche ci sono storie di isolamento, marginalità e perdita di riferimento culturale.
    Difendere l’idea di Occidente non significa chiudere le frontiere, ma chiedere a chi arriva di riconoscere e rispettare il patrimonio di libertà, eguaglianza e diritti che definisce le nostre democrazie.
    L’integrazione, in questo senso, non è un favore concesso ma un dovere condiviso.

    La ReImmigrazione non è una misura punitiva, bensì l’atto finale di un percorso fallito, il punto di equilibrio che ristabilisce ordine, sicurezza e coerenza tra i diritti e le responsabilità.

    L’integrazione è un dovere, non un’opzione.
    E la ReImmigrazione è la conseguenza naturale di chi rifiuta le regole del vivere comune.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Dalla teoria di Gilles Kepel al paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: difendere l’idea di Occidente dalla crisi dell’integrazione

    Nel decimo anniversario dell’attentato al Bataclan, il politologo francese Gilles Kepel torna a lanciare un allarme sullo stato dell’Europa.

    In un’intervista al Corriere della Sera, ha parlato dell’“alleanza jihadisti–estrema sinistra” e del rischio che questo asse ideologico metta in crisi l’idea stessa di Occidente.

    La sua riflessione non è solo accademica: fotografa un’Europa smarrita, incapace di difendere i propri valori e di gestire le proprie contraddizioni interne.
    Kepel descrive una nuova convergenza tra una parte della sinistra radicale europea e i movimenti islamisti, un’alleanza che lui definisce “islamo-goscista”.

    Nata in nome della lotta alle disuguaglianze e dell’antimperialismo, questa unione “contronatura” avrebbe trasformato la questione sociale in uno scontro identitario.

    Il risultato, secondo Kepel, è una frattura insanabile tra il mondo musulmano e quello occidentale, in cui la religione diventa il nuovo terreno di conflitto e la bandiera palestinese il simbolo di una ribellione cieca, svincolata da ogni riflessione sulla libertà e sulla democrazia.

    In questa diagnosi risuona con forza il cuore del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: l’idea che l’Europa stia pagando il prezzo di aver sostituito il dovere dell’integrazione con il mito dell’accoglienza incondizionata.
    Per decenni, il multiculturalismo ha negato l’esistenza di un comune denominatore di valori, trasformando l’inclusione in una somma di identità parallele.

    Ma la società senza integrazione non diventa più giusta: diventa più fragile, più esposta ai radicalismi e alle ideologie del risentimento.

    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” nasce proprio per rispondere a questa crisi.
    Non propone chiusura, ma responsabilità: chi sceglie di vivere in Europa deve accettare le sue regole, la sua laicità, la sua libertà.

    L’integrazione non è una gentile concessione, è un obbligo civico e giuridico.
    E quando questo obbligo viene rifiutato, la ReImmigrazione diventa la conseguenza naturale, non una punizione ma l’esito logico di un patto infranto.

    Come Kepel, anche questo paradigma riconosce che la minaccia principale per l’Occidente non viene solo dal terrorismo o dalle frontiere, ma dal disordine interno, da una società che non sa più cosa chiedere a chi arriva e cosa offrire a chi resta.

    Quando la sinistra radicale confonde la lotta per l’uguaglianza con la giustificazione dell’islamismo politico, tradisce le proprie radici laiche e indebolisce l’idea stessa di civiltà occidentale.
    E quando gli Stati rinunciano a esigere integrazione, abbandonano il terreno su cui si fonda la convivenza.

    L’Europa potrà difendersi solo se tornerà a credere nella propria identità giuridica e morale: una comunità di diritti, ma anche di doveri.
    L’integrazione, per funzionare, deve tornare a essere un percorso obbligatorio, non un’opzione ideologica.
    Chi la rifiuta, sceglie consapevolmente un’altra strada: la ReImmigrazione.

    Avv. Fabio Loscerbo
    EU Transparency Register ID: 280782895721-36

  • Dalle cronache di Perugia e Huntingdon: il fallimento delle seconde generazioni e la crisi dell’integrazione europea

    Il caso di Perugia: la frase che diventa follia
    A Perugia, la notte tra venerdì e sabato, un giovane di 23 anni — Hekuran Cumani — è stato ucciso con una coltellata fuori da un locale. L’autore dell’omicidio sarebbe un ventunenne nato in Italia da genitori nordafricani, già noto alle forze dell’ordine.
    Secondo la ricostruzione, tutto sarebbe nato da una battuta calcistica: “Forza Marocco”. Una frase che, invece di essere accolta come un commento sportivo, è stata interpretata come una provocazione.
    Da lì, la reazione incontrollata, la violenza, il sangue.
    Questo episodio, che ha sconvolto l’opinione pubblica italiana, racconta molto più di una lite: racconta la fragilità identitaria di chi, pur cresciuto in Italia, non si sente parte della comunità di cui ha la cittadinanza.

    Il caso di Huntingdon: il treno della paura
    Poche ore dopo, un’altra notizia scuoteva l’Europa: nel Regno Unito, nei pressi della stazione di Huntingdon, un uomo ha accoltellato diversi passeggeri su un treno, ferendone gravemente nove.
    Gli arrestati inizialmente erano due: un trentaduenne britannico nero e un trentacinquenne britannico di origini caraibiche. In seguito, il secondo è stato rilasciato e l’unico sospettato rimasto in custodia è il trentaduenne di origini africane, ripreso dalle telecamere con un grande coltello in mano.
    Anche in questo caso, si tratta di cittadini britannici a tutti gli effetti — non di stranieri irregolari — ma cresciuti ai margini di una società che non è mai riuscita davvero ad assimilarli.
    Nonostante la gravità dei fatti, le autorità inglesi non hanno qualificato l’attacco come terrorismo, preferendo leggere l’episodio come un atto isolato. Ma la frequenza con cui simili episodi si ripetono in Europa mostra un problema più profondo: un conflitto culturale latente, esploso dentro i confini delle nostre città.

    Cittadinanza senza appartenenza
    In entrambi i casi, a colpire non è solo la violenza, ma l’identità di chi la compie. Non immigrati di prima generazione, ma figli di immigrati, nati e cresciuti in Europa.
    Sono il prodotto di una cittadinanza concessa in modo automatico, senza un reale percorso di educazione civica, culturale e morale.
    Essere cittadini non significa solo avere un passaporto, ma condividere valori, regole e responsabilità. Quando questo legame si spezza, la cittadinanza diventa una forma senza contenuto, e la società inizia a dividersi tra chi appartiene e chi semplicemente risiede.

    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”
    La ReImmigrazione propone un cambio di prospettiva: non più accoglienza senza verifica, ma integrazione come dovere misurabile.
    Chi rifiuta di integrarsi, chi disprezza la società che lo ha accolto, sceglie consapevolmente di non farne parte.
    La ReImmigrazione non è un provvedimento punitivo, ma un principio di responsabilità: chi non condivide i valori fondamentali dell’Europa deve poter tornare nel proprio Paese d’origine.
    Solo così l’integrazione torna ad avere un senso reale, fondato sul rispetto e sulla reciprocità.

    Superare la visione economicista dell’integrazione
    L’Europa ha ridotto per troppo tempo il tema migratorio a una questione di forza lavoro e contributi. Ma la vera integrazione non è economica: è culturale, giuridica e morale.
    Le seconde generazioni, come mostrano i casi di Perugia e Huntingdon, sono lo specchio di un fallimento educativo: quello di un continente che ha smesso di trasmettere i propri valori e ha confuso la tolleranza con l’indifferenza.

    Conclusione
    Da Perugia a Huntingdon, la cronaca racconta la stessa storia: giovani cittadini europei che rifiutano l’Europa.
    È il segno di una crisi identitaria che non può più essere ignorata.
    L’integrazione non è un automatismo, ma un patto di appartenenza.
    O si ricostruisce questo patto — basato su lingua, lavoro e rispetto delle regole — oppure il paradigma della ReImmigrazione diventerà l’unica risposta coerente per restituire all’Europa sicurezza, equilibrio e identità.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
    ID 280782895721-36