Autore: Fabio Loscerbo

  • Dall’asilo alla selezione: il tramonto dei diritti e la proposta del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”

    Negli ultimi mesi, l’Europa ha assistito a un irrigidimento delle politiche d’asilo. Austria, Germania, Francia e Italia stanno prendendo in considerazione misure restrittive: limiti alla ricongiunzione familiare, procedure accelerate di respingimento e persino centri offshore. Il riferimento esplicito è al “modello britannico”, poi abbandonato per via degli ostacoli legali e costituzionali. A questo si aggiunge il modello italiano dell’accordo con l’Albania. Ma la vera domanda è: dove stiamo andando?

    1. Il modello britannico e il contagio europeo

    Nel Regno Unito, il “Rwanda Scheme” – che prevedeva la deportazione forzata dei richiedenti asilo verso uno Stato terzo – è stato smantellato dalla Corte Suprema, che lo ha ritenuto contrario al diritto internazionale. Nonostante ciò, molti Paesi europei stanno replicando quell’impostazione: dalla moltiplicazione dei Paesi sicuri ai respingimenti immediati, fino all’esternalizzazione delle domande d’asilo fuori dal territorio UE.

    La Commissione Europea, con il nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, promuove un sistema di rimpatri automatizzati e centri trattenuti di frontiera. Ma le Corti nazionali e la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE hanno già espresso forti riserve.

    2. Le iniziative nei singoli Paesi

    • Austria: sospensione temporanea dei ricongiungimenti familiari per migranti a causa della saturazione del sistema di accoglienza.
    • Germania: proposta di blocco alle ricongiunzioni per beneficiari di protezione sussidiaria.
    • Francia: tentativi di riforma restrittiva, parzialmente annullati dal Consiglio costituzionale.
    • Italia: adozione di misure accelerate e valutazioni su accordi bilaterali (come con l’Albania), in un clima di progressivo svuotamento delle garanzie.

    3. Il problema di fondo: da diritto a utilità

    Il passaggio è evidente: dal diritto soggettivo di chi fugge a un conflitto o a una persecuzione, si passa al criterio della “funzionalità sociale”. Se sei “utile”, puoi restare; altrimenti no. Una logica inaccettabile sul piano costituzionale e pericolosa sul piano sociale.

    La protezione non può essere condizionata da valutazioni economiche, né ridotta a permesso premio per chi produce reddito.

    4. Integrazione o ReImmigrazione: un paradigma necessario

    L’alternativa è il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: un modello che si basa su un patto bilaterale tra migrante e Stato ospitante. Il diritto a rimanere in Europa dovrebbe dipendere da:

    • Apprendimento della lingua e dei principi costituzionali;
    • Rispetto delle norme e delle istituzioni;
    • Dimostrazione concreta di voler partecipare alla vita della comunità.

    Chi non soddisfa questi elementi non va criminalizzato, ma va accompagnato con dignità in un percorso strutturato e ordinato di ritorno nel Paese d’origine. Questa è la ReImmigrazione, come alternativa civile al caos dell’irregolarità o alla rigidità dell’espulsione cieca.

    5. Le restrizioni viste con occhi diversi: il modello Albania come opportunità condizionata

    Non tutte le esternalizzazioni vanno respinte in blocco. Il cosiddetto modello Albania, ad esempio, può rappresentare una soluzione di gestione alternativa, purché rispettosa delle garanzie procedurali, del diritto di difesa e del principio di non-refoulement. L’importante è che sia inserita in un quadro bilaterale chiaro, trasparente e verificabile.

    Tuttavia, senza un sistema interno che favorisca e monitori l’integrazione, e senza un meccanismo di ReImmigrazione ben articolato, simili modelli rischiano di diventare strumenti isolati e iniqui. Non è l’accordo con Tirana ad essere di per sé sbagliato: è l’assenza di una politica strutturale che distingue tra chi si integra e chi rifiuta di farlo, a minare la legittimità complessiva del sistema.

    6. Conclusione: quale futuro per l’asilo?

    Il diritto d’asilo ha senso solo se inserito in un progetto politico coerente, dove accoglienza e doveri si bilanciano. Oggi l’Europa vive una crisi di coerenza, più che una crisi migratoria. Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” può offrire una bussola giuridica, politica e civile. Non si tratta di chiudere le porte, né di spalancarle senza criterio: si tratta di scegliere chi vuole davvero far parte della nostra comunità, e accompagnare chi non intende farlo verso un ritorno umano, regolato, dignitoso.


    🔗 Fonti utili:


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato – ID Trasparenza UE: 280782895721‑36

  • Quando l’economia ferma le espulsioni: cosa ci insegna il caso USA

    Negli Stati Uniti, nei giorni scorsi, è accaduto qualcosa che merita attenzione.

    L’amministrazione Trump – contrariamente alla linea dura più volte annunciata – ha ordinato una sospensione temporanea dei raid dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) nei luoghi di lavoro. In particolare, la pausa riguarda tre settori strategici: l’agricoltura, la ristorazione e l’industria alberghiera.

    Perché questa inversione di rotta? Non per motivi umanitari. E nemmeno per un cambiamento nella visione della gestione dei flussi migratori. Semplicemente, si è riconosciuto che l’economia americana non può permettersi di perdere quella parte – silenziosa ma indispensabile – di forza lavoro costituita da milioni di immigrati irregolari.

    In altre parole: si bloccano le espulsioni perché “servono braccia”.

    Questo episodio, che si presta a molte letture, rappresenta un caso emblematico dei limiti strutturali del paradigma utilitarista in tema di immigrazione.

    Se l’unico criterio con cui si regola la presenza degli stranieri sul territorio è quello della produttività, si crea un sistema profondamente ipocrita e instabile.

    Da un lato si dichiarano principi di legalità, ordine pubblico e lotta all’immigrazione illegale. Dall’altro, si sospendono i controlli quando queste stesse persone diventano necessarie per far funzionare i campi, le cucine e le reception degli hotel.

    È un doppio standard che mina alla base la coerenza dello Stato di diritto. Perché in questo modo i diritti diventano mobili, temporanei, reversibili. E non si parla solo di diritti dei migranti: si parla del diritto di tutti a vivere in un sistema trasparente, equo, affidabile.

    Il problema, però, non è solo americano. Anche in Europa – e in Italia – si assiste da anni allo stesso fenomeno. A fronte di campagne repressive e normative rigide, si tollera in realtà un’enorme quota di irregolarità “funzionale” al sistema produttivo. Poi, ciclicamente, si aprono finestre di regolarizzazione per sanare ciò che si è volutamente lasciato crescere nell’ombra.

    Questa logica va superata.

    Sul sito www.reimmigrazione.com, ho da tempo proposto un paradigma alternativo: “Integrazione o ReImmigrazione”.

    In altre parole: non si resta in Italia perché si è “utili”, ma perché si è integrati.

    E non si viene rimandati indietro perché “non serviamo più”, ma perché non si rispettano le regole, non ci si radica, non si costruisce un patto con la società ospitante.

    Il lavoro è certamente un elemento fondamentale. Ma da solo non può bastare. Occorre un criterio giuridico, etico e identitario. Integrazione significa lingua, rispetto delle leggi, partecipazione civile.

    E chi non si integra, deve tornare nel proprio Paese, secondo un modello di ReImmigrazione regolato, dignitoso, fondato su scelte consapevoli e non su emergenze o tornaconti elettorali.

    L’episodio americano, per quanto possa apparire distante, ci riguarda da vicino.

    Perché dimostra che il sistema attuale, basato sulla convenienza, è insostenibile.

    E perché rafforza la necessità di una visione nuova, fondata sulla reciprocità e sulla responsabilità.


    Fonti consultate:

    https://www.axios.com/2025/06/12/trump-immigration-enforcement-farms-hotels

    https://www.reuters.com/world/us/us-immigration-officials-told-largely-pause-raids-farms-hotels-nyt-reports-2025-06-14/

    https://www.reuters.com/world/us/us-immigration-officials-told-largely-pause-raids-farms-hotels-nyt-reports-2025-06-14/


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato – ID Registro per la Trasparenza UE: 280782895721-36

  • Il fenomeno “maranza”: denuncia di un sistema allo sbando e necessità di un nuovo paradigma

    1. Descrizione del fenomeno

    Il termine “maranza”, di origine gergale, indica giovani – spesso di seconda generazione con origini nordafricane – che ostentano comportamenti esibizionistici, provocatori e trasgressivi, con tratti ricorrenti come l’uso di linguaggio volgare, l’abbigliamento vistoso e atteggiamenti minacciosi.

    Nel giugno 2025, una serie di episodi verificatisi in diverse città italiane ha riportato con forza l’attenzione su questo fenomeno. Le segnalazioni più preoccupanti provengono da Verona, dove bande di adolescenti hanno lanciato veri e propri appelli allo scontro, invitando allo scontro con gli ultras locali e annunciando nuove “chiamate” per l’11 giugno:

    2. La prova audiovisiva: i video TikTok

    A documentare la gravità del fenomeno vi sono anche video diffusi su TikTok, alcuni dei quali sono stati salvati per uso documentale e giuridico. In particolare:

    • Un video mostra un gruppo di giovani che incita pubblicamente allo scontro con i tifosi scaligeri, urlando slogan di stampo intimidatorio e invocando la violenza fisica.
    • In un secondo video, uno dei partecipanti lancia una minaccia esplicita e diretta: «stavolta veniamo anche per le vostre figlie», con un linguaggio che trascende l’intimidazione e sconfina in una minaccia sessuale di natura collettiva, lesiva della sicurezza pubblica e dei diritti fondamentali.
    • Un terzo filmato riprende scene di esibizione e provocazione ostentata, con toni di sfida e una retorica di occupazione del territorio urbano da parte di un gruppo etnicamente connotato, che rifiuta apertamente le regole della convivenza.

    Questi contenuti, apparentemente “virali”, rivelano in realtà una strategia di costruzione dell’identità attraverso la sfida all’autorità e la glorificazione della forza, in un contesto dove il controllo istituzionale appare completamente assente.

    3. Fallimento del sistema attuale

    3.1. Impunità e risposta inadeguata

    Le autorità si limitano a dichiarazioni generiche e a controlli estemporanei. Nessun presidio stabile, nessuna strategia coordinata. L’effetto? I protagonisti di queste “chiamate” si sentono intoccabili e agiscono in piena luce, davanti a telecamere e passanti.

    3.2. Disintegrazione educativa

    L’assenza di una cultura condivisa e di un’autorità educativa riconosciuta produce individui scollegati dal contesto in cui vivono. La scuola abdica, le famiglie non riescono, i servizi sociali tacciono.

    4. Il ritorno delle ronde: sintomo e non soluzione

    La reazione spontanea di alcuni cittadini, che organizzano ronde nei quartieri o presidiano le stazioni, è l’inevitabile conseguenza di un vuoto istituzionale. Tuttavia, come segnalato anche a Monza:

    questo tipo di risposta è pericolosa e inaccettabile in uno Stato di diritto: rischia di degenerare in giustizia sommaria o scontro etnico.

    5. Serve un nuovo paradigma: integrazione o ReImmigrazione

    Il sistema attuale ha fallito. Serve un paradigma giuridico e politico nuovo, che superi l’ideologia permissiva e affronti i fatti con lucidità:

    • Integrazione come obbligo concreto, verificabile attraverso scuola, lavoro, rispetto delle leggi.
    • ReImmigrazione come conseguenza, per chi viola sistematicamente le regole, rigetta i valori costituzionali, pone in pericolo la sicurezza pubblica o persiste in condotte antisociali.

    Solo così si potrà garantire:

    • Sicurezza per tutti, italiani e stranieri realmente integrati.
    • Dignità alle istituzioni.
    • Responsabilità a chi vive sul territorio.

    6. Conclusione

    Il “maranza” non è folklore urbano, ma manifestazione di un disagio degenerato in minaccia.

    I video parlano chiaro. Le parole usate – minacce, sessismo, inviti allo scontro – sono inaccettabili in un Paese civile. Il tempo delle scuse è finito.

    Ora servono norme chiare, pene certe e un progetto sociale che dica, senza ambiguità: o ci si integra, o si torna indietro.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
    ID: 280782895721-36

  • Los Angeles sotto assedio: raid generalizzati e crisi migratoria senza strategia

    Quando manca un paradigma capace di coniugare integrazione e ReImmigrazione

    a cura dell’Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

    La città di Los Angeles è diventata, in questi giorni, l’epicentro di uno scontro durissimo tra autorità federali e istituzioni locali sul tema dell’immigrazione. A partire dal 6 giugno 2025, l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), con il supporto operativo di HSI, ATF e DEA, ha lanciato una serie di raid coordinati su larga scala in tutto il territorio metropolitano.

    Non si tratta di operazioni mirate contro singoli soggetti in posizione irregolare. Al contrario: siamo di fronte a retate estese, indiscriminate, condotte in settori economici ad alta densità migrante, come il Fashion District, i magazzini della logistica, i cantieri edili e i centri per il reclutamento giornaliero di manodopera.

    Testimonianze video: la realtà documentata

    Si riportano tre video diffusi su TikTok che documentano l’intensità dei blitz e la militarizzazione del tessuto urbano:


    Il conflitto istituzionale
    Il presidente Trump ha disposto il dispiegamento di 2.000 soldati della National Guard sotto autorità federale, ignorando l’opposizione del governatore Gavin Newsom.
    È uno scontro tra sovranità statale e potere federale che evidenzia l’assenza di una visione strategica comune.


    La crisi di paradigma
    Questi eventi dimostrano l’assenza di un modello migratorio capace di distinguere e decidere:

    chi vuole integrarsi va accompagnato e sostenuto;

    chi rifiuta le regole deve essere riportato nel proprio Paese in modo dignitoso, ma fermo.

    Integrare e rimpatriare non sono opzioni alternative: sono funzioni complementari.
    Il paradigma Integrazione o ReImmigrazione nasce per dare struttura, direzione e legittimità a questa distinzione, colmando il vuoto attuale che genera confusione nei diritti e abusi nei controlli.


    Un messaggio anche per l’Europa

    L’Unione Europea è a rischio di replicare dinamiche analoghe.

    Senza un quadro normativo capace di combinare responsabilità e garanzie, l’alternativa sarà tra l’abbandono del controllo o la repressione irragionevole.


    Conclusione

    Los Angeles ci consegna un’immagine chiara: dove manca una visione, resta solo il disordine.
    Il modello ReImmigrazione è l’unico in grado di tenere insieme:

    legalità e umanità,

    diritti e doveri,

    accoglienza e fermezza.

  • Attuare davvero l’Accordo di Integrazione: da documento formale a strumento strategico

    di Fabio Loscerbo – lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

    L’Accordo di integrazione, previsto dall’art. 4-bis del Testo Unico Immigrazione (D.lgs. 286/1998), rappresenta uno dei pochi strumenti normativi che traduce in obblighi reciproci il principio per cui lo straniero che entra in Italia ha il dovere di integrarsi.

    Si tratta, almeno sulla carta, di un patto tra lo Stato e il cittadino straniero che condiziona il rilascio e la permanenza del permesso di soggiorno alla dimostrazione concreta di avvenuta integrazione: lingua italiana, conoscenza delle istituzioni, obblighi fiscali, educazione scolastica dei figli, rispetto della legge.

    Tuttavia, l’esperienza giuridica e la prassi amministrativa dimostrano che questo strumento è rimasto in larga parte inapplicato o utilizzato in modo meramente simbolico. È giunto il momento di cambiare.


    Un meccanismo potenzialmente efficace, mai pienamente attuato

    La logica dell’Accordo è chiara: lo Stato attribuisce inizialmente 16 crediti allo straniero, e si riserva di verificarne l’incremento o la decurtazione nel corso del tempo, sulla base di comportamenti virtuosi o inadempienze.

    A fronte di:

    • condanne penali,
    • mancanza di partecipazione alla formazione civica,
    • evasione fiscale o mancata scolarizzazione dei figli,

    lo straniero può perdere crediti, fino a vedersi dichiarato inadempiente e dunque espellibile.

    Ma in concreto:

    • quanti prefetti avviano effettivamente le verifiche biennali?
    • quante decurtazioni vengono realmente notificate e seguite da conseguenze?
    • quante espulsioni sono motivate da inadempimento all’accordo?

    La risposta è impietosa: pressoché nessuna. L’Accordo è stato trasformato da strumento di politica dell’integrazione a foglio da firmare in Questura.


    L’Accordo deve contenere la clausola della Reimmigrazione

    Se si vuole dare piena attuazione al paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”, occorre modificare l’Accordo di integrazione affinché non resti un impegno vuoto, ma diventi un contratto giuridicamente efficace.

    Deve essere chiaramente previsto – in forma esplicita e vincolante – che:

    Il mancato soddisfacimento dei requisiti di integrazione previsti dall’Accordo comporta la Reimmigrazione, cioè il ritorno obbligatorio nel Paese d’origine.

    Non si tratta di una minaccia né di un arbitrio, ma di una clausola di responsabilità: chi entra in Italia accetta consapevolmente un impegno. Se lo onora, diventa parte della comunità. Se lo disattende, decade dal diritto di restare.


    Integrazione come dovere: il cuore del nuovo paradigma

    Nel modello “Integrazione o Reimmigrazione”, l’Accordo di integrazione deve essere il perno dell’intera strategia migratoria.

    Non più un documento simbolico, ma un meccanismo contrattuale periodicamente verificato, fondato su tre pilastri:

    1. Lingua italiana: livello A2 effettivo e certificato.
    2. Lavoro legale e contributivo: segno di autonomia economica.
    3. Rispetto delle regole: fedeltà al patto di convivenza civile.

    Proposte operative per rilanciare l’accordo

    Per dare contenuto e forza all’Accordo, è necessario:

    • inserire la clausola obbligatoria di Reimmigrazione per inadempienza;
    • automatizzare le verifiche biennali e creare un’anagrafe nazionale dei crediti;
    • coinvolgere le istituzioni scolastiche, sanitarie e fiscali nella valutazione dell’integrazione;
    • sospendere il rinnovo del permesso in caso di punteggio insufficiente, salvo casi documentati di forza maggiore;
    • legare il permesso di lungo periodo e la cittadinanza al pieno rispetto dell’Accordo.

    Conclusione: regole chiare per una società coesa

    Attuare davvero l’Accordo di integrazione significa superare la visione emergenziale e passiva dell’immigrazione, per costruire un modello in cui integrazione e responsabilità siano le basi del diritto a restare.

    Lo straniero che firma l’Accordo deve sapere che quel documento non è una formalità, ma un impegno solenne:

    integrare o tornare.

    Solo così l’Italia potrà avere una politica migratoria seria, giusta e sostenibile.

  • Il modello Albania tra critica e realismo: una via concreta per attuare la ReImmigrazione

    di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36)

    La recente decisione della Corte di Cassazione italiana di rinviare alla Corte di giustizia dell’Unione europea due questioni pregiudiziali riguardanti il Protocollo Italia-Albania sui CPR ha acceso nuovamente il dibattito sul cosiddetto modello Albania. Questo schema, pensato per trasferire migranti irregolari e richiedenti asilo in attesa di decisione o rimpatrio in centri situati sul territorio albanese, è stato duramente criticato da alcune forze politiche e da parte del mondo giuridico.

    Ma siamo sicuri che rappresenti un “pericolo per i diritti fondamentali”?

    O potrebbe invece costituire una prima applicazione reale del paradigma della ReImmigrazione?

    Una logica coerente: il ritorno governato dopo il fallimento dell’integrazione

    Non mi oppongo al modello Albania. Al contrario: ne intravedo una possibile funzione di concreta attuazione della ReImmigrazione, intesa come fase terminale di un percorso migratorio fallito, e non come strumento punitivo.

    In un sistema che voglia finalmente superare la dicotomia sterile tra accoglienza illimitata ed espulsione inefficace, è legittimo — anzi necessario — dotarsi di strumenti operativi per accompagnare chi non si è integrato verso un ritorno ordinato e assistito. In quest’ottica, i centri esterni al territorio nazionale possono svolgere un ruolo logistico e funzionale determinante.

    Diritti fondamentali e quadro normativo: sì al modello, ma con adeguamenti

    Detto questo, non possiamo ignorare la necessità di coordinare questo strumento con il nostro ordinamento costituzionale e con il diritto dell’Unione europea.

    Le due questioni sollevate dalla Cassazione non sono di poco conto:

    1. La compatibilità con la Direttiva Rimpatri (2008/115/CE) in assenza di garanzie effettive di ritorno;
    2. La conformità con la Direttiva Accoglienza (2013/33/UE) nei casi di richiedenti asilo trattenuti in Albania senza una piena tutela giurisdizionale.

    Il rischio è che il trasferimento albanese venga usato in modo improprio come prolungamento del trattenimento, senza garanzie sufficienti.

    Occorre quindi, senza ambiguità, rafforzare i meccanismi di controllo giurisdizionale, informazione legale e accesso al ricorso.

    Anche dal punto di vista costituzionale, sarà essenziale chiarire quale autorità italiana mantiene giurisdizione sui centri esteri, e come assicurare che il trattenimento rispetti i limiti dell’art. 13 della Costituzione.

    Uno strumento deterrente, se ben costruito

    Al di là dei rilievi giuridici, l’elemento più spesso ignorato è l’effetto deterrente che questo modello può generare.

    Sapere che un ingresso irregolare può comportare un immediato trasferimento in un centro fuori dal territorio europeo cambia radicalmente la percezione del rischio per chi intende aggirare le regole.

    In questo senso, il modello Albania rappresenta un’inversione di tendenza culturale prima ancora che normativa.

    È un segnale: l’Europa non è più un “non-luogo” dove si resta a prescindere; è una comunità giuridica dove si resta se ci si integra.

    Conclusione: migliorare, non smontare

    Il modello Albania è imperfetto, ma non va demolito.

    È un prototipo operativo di ciò che la ReImmigrazione può diventare: non uno slogan ideologico, ma una struttura concreta, inserita in un quadro bilaterale, rispettosa delle garanzie e funzionale a un ritorno ordinato.

    Va certamente migliorato – sul piano procedurale, giurisdizionale e costituzionale – ma rappresenta una risposta concreta alla paralisi del sistema europeo dei rimpatri.

    Se integrato con un serio obbligo di integrazione e criteri oggettivi per valutare il fallimento di tale percorso, potrebbe diventare uno dei pilastri del nuovo paradigma migratorio: Integrazione o ReImmigrazione.

  • Dagli Stati Uniti un segnale forte: nasce l’Ufficio per la Reimmigrazione. Ma senza Integrazione, che senso ha?

    di Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36)

    Il 30 maggio 2025 il sito Axios (https://www.axios.com/2025/05/30/state-department-office-of-remigration-restructure) ha pubblicato una notizia che ha attirato immediatamente la mia attenzione.

    L’amministrazione americana, in vista di una riorganizzazione del Dipartimento di Stato, avrebbe in programma la creazione di un Office of Remigration — un Ufficio per la Reimmigrazione.

    È un passaggio tutt’altro che simbolico: per la prima volta un Paese occidentale utilizza esplicitamente il termine reimmigrazione in un contesto istituzionale.

    Come sostenitore del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”, non posso che accogliere con interesse questo sviluppo. Ma allo stesso tempo, non posso fare a meno di sottolineare ciò che manca in questa iniziativa: il riferimento esplicito all’obbligo di integrazione come presupposto e giustificazione della ReImmigrazione stessa.

    Cos’è questo nuovo Ufficio?

    Secondo Axios, l’Ufficio verrebbe istituito all’interno del Bureau of Population, Refugees and Migration, ma con una finalità radicalmente diversa: non più accogliere e reinsediare, ma rimuovere. L’obiettivo è chiaro: coordinare in modo più efficace le espulsioni, facilitare i rimpatri attraverso accordi bilaterali, e riorientare le politiche migratorie verso un equilibrio più sostenibile. È una svolta. Ma è solo metà del discorso.

    La ReImmigrazione senza Integrazione non ha senso

    Da tempo sostengo che parlare di ReImmigrazione ha senso solo se prima si afferma chiaramente che ogni migrante ha un dovere di integrazione: imparare la lingua, rispettare le regole, inserirsi in modo attivo nella società che lo accoglie.

    La ReImmigrazione non è una punizione, ma una conseguenza naturale del fallimento o del rifiuto di questo percorso.

    Se manca questo presupposto – se non si definisce cosa si intende per integrazione, se non si stabilisce un quadro normativo che renda misurabile e verificabile tale obbligo – allora la ReImmigrazione rischia di diventare solo un sinonimo elegante di espulsione. Ed è un rischio che non possiamo correre.

    Un segnale da non ignorare in Europa

    La notizia statunitense arriva in un momento in cui in Europa il dibattito è bloccato: da un lato chi invoca accoglienza illimitata, dall’altro chi grida alla chiusura dei confini.

    Entrambe le posizioni, a mio avviso, sono sterili.

    Serve un terzo paradigma, fondato su un patto chiaro tra straniero e Stato ospitante: accoglienza e diritti in cambio di integrazione e doveri. E se il patto viene meno, si deve poter parlare senza tabù di ritorno.

    L’iniziativa americana dimostra che questo approccio è politicamente possibile. Resta da vedere se sarà giuridicamente sostenibile, culturalmente accettabile, e – soprattutto – coerente. E qui entra in gioco l’Europa.

    Conclusione: non basta copiare, serve una visione

    Non basta importare il termine Remigration negli ordinamenti occidentali. Bisogna costruirci intorno un impianto giuridico coerente, eticamente fondato e politicamente presentabile.

    La ReImmigrazione non può essere un’eccezione alla regola: deve essere parte integrante di un nuovo contratto migratorio, in cui si riconosce che lo straniero ha sì dei diritti, ma anche precisi obblighi. E che se questi vengono disattesi, il ritorno diventa una conseguenza logica e legittima.

    Io continuerò a promuovere questo paradigma con forza, nel dialogo con le istituzioni italiane ed europee, affinché la ReImmigrazione sia finalmente riconosciuta non come una parola scomoda, ma come una necessità giuridica e culturale per garantire equilibrio e futuro alle nostre società.

  • Non confondiamo: la ReImmigrazione non è la Remigrazione. Un paradigma nuovo, non un ritorno al passato

    In un recente articolo pubblicato su Sette del Corriere della Sera (https://www.corriere.it/sette/25_maggio_18/remigrazione-una-parola-che-pare-neutra-ma-nasconde-un-elefante-1186a125-99d2-46cb-bfae-defbc1efbxlk.shtml), il termine remigrazione è stato oggetto di un’analisi allarmista, volta a suggerire che dietro tale parola si nasconda un’ideologia regressiva, autoritaria, addirittura razzista.

    Un’operazione retorica che, sotto le apparenze di una denuncia giornalistica, contribuisce a creare confusione tra parole simili solo nella forma, ma radicalmente diverse nella sostanza.

    Chi scrive ha elaborato e proposto un paradigma diverso, nuovo, giuridicamente fondato e compatibile con l’ordinamento democratico e costituzionale: la ReImmigrazione.

    Un modello regolativo che nulla ha a che vedere con la remigrazione intesa come deportazione collettiva o come misura punitiva ispirata da logiche identitarie estremiste.

    La ReImmigrazione: definizione e principi

    La ReImmigrazione è un paradigma fondato su tre pilastri:

    1. L’obbligo di integrazione per chi vuole rimanere stabilmente in Italia, da intendersi come contratto morale e giuridico con la comunità ospitante;
    2. La revoca del diritto a restare per chi rifiuta l’integrazione, in base a parametri misurabili: rifiuto della lingua, della legalità, dei principi costituzionali;
    3. Il ritorno assistito o programmato come esito naturale del mancato rispetto di tale patto, in coerenza con i valori dello Stato di diritto, della proporzionalità e della dignità umana.

    Questo approccio è lontano anni luce dalle semplificazioni ideologiche di chi riduce ogni proposta regolativa a “deriva fascista”. Non è la razza a determinare la compatibilità con la società italiana, ma la volontà concreta di integrarsi, dimostrata nei fatti.

    Rifiutare la ReImmigrazione significa scegliere l’anarchia migratoria

    Chi rifiuta la proposta della ReImmigrazione, in nome di un umanitarismo astratto, in realtà promuove un modello che:

    • Legittima la permanenza anche di chi disprezza le regole della convivenza civile;
    • Trasforma il diritto all’ospitalità in un automatismo irreversibile;
    • Indebolisce i diritti dei cittadini e mina la coesione sociale.

    Parlare di “elefanti nascosti” come fa il Corriere della Sera significa distogliere l’attenzione dai veri problemi: ghettizzazione, disagio urbano, criminalità diffusa, frammentazione valoriale.

    Costruire un nuovo equilibrio tra accoglienza e responsabilità

    La ReImmigrazione non è un ritorno al passato. È una proposta riformista, moderna, fondata su principi giuridici, sulla reciprocità dei doveri e sull’idea che la società italiana ha il diritto di preservare sé stessa e la propria identità democratica.

    Chi entra in Italia deve sapere che non basta “non delinquere”. Deve condividere, partecipare, rispettare. Solo così l’immigrazione può diventare una risorsa. In caso contrario, è giusto — e necessario — che chi rifiuta l’integrazione torni nel proprio paese. È questo il significato profondo della ReImmigrazione.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
    Ideatore del paradigma “ReImmigrazione”

  • Ingresso regolare, integrazione opzionale: le contraddizioni del modello economico di gestione dei flussi migratori

    Nel dibattito pubblico e nella programmazione legislativa italiana, il fenomeno migratorio viene sempre più interpretato attraverso una lente puramente economicista, riducendo l’essere umano a mera forza lavoro.

    Lo si osserva con particolare evidenza nei contenuti del Decreto Flussi 2025, che ha autorizzato l’ingresso di oltre 180.000 cittadini stranieri per motivi di lavoro, distribuiti tra comparti stagionali, subordinati non stagionali e autonomi. A questi si aggiungono quote riservate al settore dell’assistenza familiare, oltre alla possibilità di convertire numerose tipologie di permessi.

    Tuttavia, ciò che colpisce in maniera più netta non è solo la portata numerica del decreto, quanto piuttosto l’assenza assoluta di ogni onere, obbligo o verifica preventiva sull’intenzionalità integrativa di chi entra.

    Nessun vincolo viene richiesto in ordine alla conoscenza della lingua italiana, al rispetto dei valori costituzionali, né tantomeno alla condivisione del modello culturale, sociale e giuridico su cui si fonda la Repubblica.

    L’illusione della sola utilità economica

    Questa impostazione risponde a una logica miope e potenzialmente pericolosa per la coesione sociale: si presume che chiunque lavori, automaticamente si integri. Nulla di più ingenuo. L’esperienza concreta di amministratori locali, operatori sociali e giuristi ci insegna che il lavoro non è di per sé integrazione, e che molti individui, pur presenti regolarmente sul territorio, rifiutano di adattarsi ai principi fondamentali del vivere civile, mantenendo comportamenti incompatibili con i valori fondanti della società italiana.

    L’economicismo migratorio tende a ignorare volutamente queste variabili, ritenendo secondari il rispetto delle regole, l’apprendimento linguistico o l’adesione ai diritti/doveri sanciti dalla nostra Costituzione.

    Si tollera tacitamente che, in cambio di una prestazione lavorativa, si possa accedere al territorio nazionale senza alcun impegno integrativo, quasi che l’Italia fosse un mero contenitore di manodopera piuttosto che una comunità con una propria identità culturale, giuridica e storica.

    La retorica dei “flussi” senza filtri culturali

    Tutto ciò avviene nel silenzio di buona parte delle istituzioni e nel complice allineamento di una classe dirigente convinta che i problemi dell’Italia si risolvano importando forza lavoro. Non si pongono domande su chi entra, perché entra, quale sia il suo progetto di vita in Italia. Non vi è traccia, né nella normativa né nella prassi, di un modello selettivo e orientato all’integrazione, come accade in altri ordinamenti giuridici europei.

    La totale assenza di filtri valoriali comporta il rischio concreto che entrino in Italia soggetti non solo disinteressati all’integrazione, ma potenzialmente ostili ai suoi presupposti.

    Si tollera l’accesso di chi, magari, non ha alcuna intenzione di imparare la lingua, rispettare i diritti delle donne, accettare la parità tra religioni o vivere secondo le regole minime del pluralismo democratico.

    Per paradosso, proprio chi entra irregolarmente – ad esempio attraverso la rotta mediterranea – e presenta una domanda di protezione complementare, è spesso tenuto a dimostrare un percorso concreto di integrazione, poiché solo così può ottenere il riconoscimento del diritto a restare.

    In questi casi, la legge e la giurisprudenza impongono un’istruttoria che valuta l’inserimento lavorativo, la stabilità abitativa, i legami familiari e la partecipazione alla vita sociale.

    È un controllo che non esiste per chi entra con decreto flussi, e che rivela l’assurdità del sistema: chi entra irregolarmente può essere più integrato di chi arriva regolarmente, perché è costretto a dimostrarlo.

    Si assiste così a un corto circuito giuridico e politico: l’ingresso regolare diventa una semplice operazione contabile, priva di criteri qualitativi. L’integrazione diventa opzionale proprio per chi, paradossalmente, dovrebbe esserne il primo destinatario.

    Verso un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

    Alla luce di quanto sopra, appare evidente l’urgenza di un cambio di paradigma: non è sufficiente regolare gli ingressi in base alle esigenze economiche, occorre subordinarli alla volontà e capacità di integrarsi, secondo principi chiari e condivisi.

    A tal fine, si propone l’adozione di un modello fondato sul principio “Integrazione o ReImmigrazione”, secondo il quale il diritto di permanere sul territorio nazionale deve essere subordinato all’adempimento di precisi obblighi di integrazione: apprendimento della lingua italiana, rispetto delle regole, adesione ai valori repubblicani.

    Non si tratta di negare il bisogno di lavoratori stranieri, ma di definire con chiarezza le condizioni per la loro presenza stabile, evitando di trasformare l’Italia in un territorio di transito, disgregazione o comunitarismo ostile.

    Serve una visione di lungo periodo, fondata sull’equilibrio tra diritti e doveri, tra apertura e identità, tra accoglienza e responsabilità.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36
    Ideatore del paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”

  • La lettera dei nove Paesi UE certifica il fallimento del sistema attuale di gestione del fenomeno migratorio: è tempo di adottare il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”

    di Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

    La recente lettera congiunta firmata da Italia, Danimarca, Grecia, Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Slovacchia e indirizzata alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e al Presidente del Consiglio europeo Charles Michel, rappresenta un atto politico dirompente. Nel documento, i nove Stati denunciano apertamente il fallimento delle attuali politiche europee in materia di immigrazione e asilo, chiedendo un dibattito urgente anche sui limiti imposti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) al rimpatrio degli irregolari. Il testo completo è consultabile al seguente link: https://www.agi.it/politica/news/2025-05-22/migranti-lettera-italia-e-8-paesi-aprire-dibattito-su-cedu-31534513/.

    Il passaggio più significativo riguarda la mancata integrazione di parte dei migranti. I firmatari della lettera scrivono: “Altri sono arrivati e hanno scelto di non integrarsi, isolandosi in società parallele e prendendo le distanze dai nostri valori fondamentali di uguaglianza, democrazia e libertà.” Questa affermazione rappresenta un’autentica svolta culturale: per la prima volta, l’integrazione – o meglio, la sua assenza – viene riconosciuta come fallimento strutturale del modello attuale.

    Ecco perché è giunto il momento di cambiare paradigma. Non può più essere il solo lavoro a giustificare l’ingresso e la permanenza sul territorio europeo. Il lavoro è semmai un indicatore di avvenuta integrazione, ma non può costituire l’unico criterio. Il nuovo metro dev’essere l’integrazione, fondata su tre pilastri: lavoro, lingua e rispetto delle regole.

    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” rappresenta questa nuova visione: un patto trasparente tra chi arriva e la società che accoglie. Chi si impegna a integrarsi, ne acquisisce diritti. Chi rifiuta, non può rimanere. Nessuna ideologia, nessuna scorciatoia. Solo realtà.

    La lettera dei nove Stati è la conferma che il sistema attuale è giunto al capolinea. Serve un nuovo approccio, onesto, esigente e coerente con i valori europei. Serve il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”.

  • Integrazione o ReImmigrazione: oltre lo slogan della “remigrazione”

    di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista in materia di Migrazione e Asilo iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID: 280782895721-36)

    Negli ultimi giorni, il termine “remigrazione” ha trovato spazio nel dibattito pubblico, anche grazie alla risonanza del Remigration Summit organizzato a Gallarate il 17 maggio 2025. L’evento ha suscitato reazioni diversificate: da un lato, chi ne apprezza la chiarezza concettuale; dall’altro, chi teme derive incompatibili con l’assetto costituzionale e internazionale.

    A prescindere dalle opinioni ideologiche, è utile interrogarsi su cosa significhi concretamente regolare i flussi migratori in una democrazia fondata sul diritto, e quali strumenti siano davvero idonei a farlo.

    La “remigrazione” e i suoi limiti applicativi
    Il termine “remigrazione”, così come oggi proposto da alcune aree del dibattito politico, richiama l’idea di un ritorno organizzato dei migranti nei Paesi di origine. Si tratta di una visione che risponde al bisogno, sentito da una parte della popolazione, di riappropriarsi di un controllo ordinato sui fenomeni migratori.

    Tuttavia, quando la proposta si traduce nella previsione generalizzata di rientro forzato anche per persone regolarmente soggiornanti o integrate, emergono criticità giuridiche e operative difficili da superare, tanto a livello costituzionale quanto nell’ambito del diritto europeo.

    Per questo motivo, accanto alle parole d’ordine, è necessario costruire paradigmi funzionali, legittimi e sostenibili.

    Integrazione o ReImmigrazione: un modello centrato sulla responsabilità
    Il paradigma che propongo – Integrazione o ReImmigrazione – si basa su un concetto chiave: l’integrazione come dovere e come misura oggettiva della permanenza sul territorio nazionale.

    In questa visione, il lavoro non è più l’unico parametro, ma diventa uno degli indici per valutare il grado di inserimento sociale e culturale. A questo si affiancano:

    la conoscenza della lingua italiana;

    il rispetto delle leggi e delle regole fondamentali della convivenza.

    Chi dimostra di essersi integrato, ha diritto a restare. Chi rifiuta l’integrazione, in modo volontario e reiterato, dovrà invece far ritorno nel proprio Paese. È questo il senso della ReImmigrazione: non una sanzione collettiva, ma una conseguenza logica del mancato rispetto del patto di convivenza.

    Realismo, non ideologia
    Mentre altri approcci si limitano a definizioni rigide e a tratti conflittuali, il paradigma Integrazione o ReImmigrazione si fonda su criteri misurabili e personalizzati, capaci di distinguere tra situazioni concrete e di premiare il merito, non l’origine.

    La sicurezza, la coesione sociale e la dignità della persona possono convivere solo se si afferma un principio chiaro e condiviso: non è la provenienza che decide il diritto a restare, ma il comportamento, l’adesione ai valori democratici e il contributo reale alla società ospitante.

    Conclusione
    Chi oggi propone la “remigrazione” pone questioni legittime sul piano del controllo migratorio. Io propongo una risposta alternativa, che parte dalla Costituzione, dal diritto, dall’esperienza sul campo.
    Integrazione o ReImmigrazione è un paradigma fondato sulla responsabilità individuale, non su classificazioni etniche; è attuabile, perché si basa su regole esistenti; è equo, perché premia chi partecipa, e non punisce chi è semplicemente diverso.

    L’Italia può governare l’immigrazione solo se sceglie la strada della coerenza. E la coerenza, in una democrazia, si costruisce su diritti e doveri.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista in materia di Migrazione e Asilo iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

  • Contro la scorciatoia della cittadinanza: no a un referendum che svuota il senso dell’integrazione

      Il referendum proposto per ridurre da 10 a 5 anni il tempo minimo di residenza legale per ottenere la cittadinanza italiana sembra voler premiare l’integrazione. Ma, in realtà, finisce per svuotarla di significato.
      La cittadinanza non può e non deve essere concessa solo sulla base della permanenza nel territorio, ma dev’essere il punto d’arrivo di un percorso autentico, basato su lavoro, conoscenza della lingua e rispetto delle regole.

      Ridurre il requisito temporale a soli cinque anni significa abbassare l’asticella della responsabilità civica. L’integrazione non è una formalità burocratica: è un processo culturale, sociale e personale che richiede tempo. Una cittadinanza prematura rischia di produrre “nuovi italiani” privi di legami reali con la società, il territorio e le istituzioni.

      Ma c’è di più. Questa proposta sembra rispondere a una logica economicista dell’immigrazione: l’idea che basti trasformare rapidamente gli stranieri in cittadini per stabilizzare forza lavoro, regolarizzare presenze e, soprattutto, rendere inespellibili interi nuclei familiari. Con la cittadinanza al capofamiglia, infatti, diventano automaticamente titolari di diritti anche figli, genitori e fratelli. Una sanatoria indiretta, che rischia di incentivare nuovi arrivi, più che consolidare percorsi autentici di inserimento.

      A questo modello – che trasforma la cittadinanza in uno strumento di gestione demografica ed economica – si deve contrapporre una visione alternativa: quella dell’integrazione responsabile, fondata su tre pilastri concreti (lavoro, lingua, regole) e su un principio chiaro e coerente: integrazione o ReImmigrazione.

      Il concetto di ReImmigrazione prevede che chi rifiuta di integrarsi, non lavora, non rispetta le leggi o non vuole realmente diventare parte della comunità nazionale, debba essere rimandato nel proprio Paese d’origine. L’Italia accoglie chi vuole costruire, non chi pretende senza contraccambiare. E la cittadinanza, in questa visione, è il riconoscimento finale di un patto di convivenza consapevole.

      In conclusione, il referendum in discussione non rafforza i processi di integrazione, ma rischia di svuotarli, riducendo la cittadinanza a un atto formale anziché a un risultato sostanziale.

      Avv. Fabio Loscerbo
      Avvocato e lobbista in materia di Migrazione e Asilo – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

      • ReImmigrazione vs Remigrazione: superare la retorica e costruire una strategia coerente

        di Avv. Fabio Loscerbo – Avvocato e Lobbista

        Negli ultimi anni, il termine remigrazione è stato rilanciato da alcune formazioni identitarie e nazionaliste – come CasaPound – come soluzione assoluta a tutte le criticità legate all’immigrazione. Secondo queste posizioni estreme, dovrebbero essere rimpatriati persino gli stranieri nati in Italia, indipendentemente dal loro comportamento o dal grado di integrazione.

        Una simile visione, oltre a risultare giuridicamente inapplicabile e socialmente divisiva, è futile e inefficace. Non distingue, non valuta, non costruisce. Semplicemente espelle, simbolicamente e fisicamente.

        La Remigrazione fine a sé stessa è un vicolo cieco

        Espellere chi è nato in Italia – magari perfettamente integrato – solo in base all’origine etnica dei genitori, non ha alcuna possibilità di trovare applicazione concreta in un sistema costituzionale e internazionale fondato sui diritti umani. È una proposta ideologica che alimenta il conflitto ma non fornisce soluzioni concrete. È retorica travestita da politica.

        La ReImmigrazione è una proposta politica concreta e fondata

        Il concetto di ReImmigrazione, che ho introdotto in ambito giuridico e culturale, si distingue radicalmente dalla remigrazione ideologica.

        Non nasce da un rigetto etnico, ma da un criterio etico e funzionale:

        solo chi si integra pienamente ha il diritto di restare in Italia; chi non si integra o manifesta incompatibilità con i valori e le regole della nostra società, deve essere accompagnato nel Paese d’origine.

        Un’idea fondata sul pensiero di Giuseppe Mazzini

        La ReImmigrazione, così come da me proposta, trova il suo fondamento ideale nel pensiero di Giuseppe Mazzini, padre dell’Italia moderna e promotore dell’idea che la cittadinanza comporta doveri prima ancora che diritti.
        Mazzini concepiva la Nazione come una comunità etica, unita da un patto di valori e responsabilità reciproche. Chi entra a far parte di una comunità nazionale deve abbracciarne il linguaggio, le leggi, il lavoro come impegno collettivo.

        In questo senso, il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” non è un’esclusione arbitraria, ma l’applicazione coerente di un principio fondativo: la comunità nazionale non è un territorio neutro, ma un corpo vivo che accoglie chi partecipa e si difende da chi rifiuta di farlo.

        Perché la ReImmigrazione funziona (mentre la Remigrazione fallisce)

        🔹 Giuridicamente praticabile: la ReImmigrazione si basa su criteri oggettivi e non discriminatori, quindi compatibili con la Costituzione e con il diritto europeo.

        🔹 Socialmente accettabile: espellere chi rifiuta di integrarsi è condivisibile anche dall’opinione pubblica più moderata.

        🔹 Politicamente sostenibile: evita derive razziste e propone una visione civica del patto di convivenza.


        Chi continua a invocare “remigrazioni totali” propone soluzioni estreme, inapplicabili e controproducenti.
        Chi propone invece la ReImmigrazione disegna un nuovo patto sociale fondato sul rispetto, sul contributo e sull’identità condivisa.

        Non si tratta di escludere per pregiudizio, ma di proteggere la coesione della comunità attraverso una regola semplice: o ti integri, o torni.


        📌 Pubblicato su www.reimmigrazione.com
        Avv. Fabio Loscerbo
        Avvocato e Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

      • Superare la visione economicista dell’immigrazione

        di Avv. Fabio Loscerbo – Avvocato e Lobbista

        L’articolo pubblicato da Il Bo Live dell’Università di Padova, dal titolo “Tito Boeri: ‘Pensioni, impossibile fare a meno degli immigrati’”, propone con forza un approccio ormai ricorrente e – a mio avviso – profondamente miope: l’immigrazione come strumento per salvare il sistema pensionistico.

        Boeri afferma che:

        “È molto importante che arrivino immigrati e che paghino i contributi. È importante per permettere la sostenibilità del nostro sistema previdenziale. Con la sola natalità italiana, questo sistema non regge”.

        Questa impostazione tradisce una visione puramente utilitaristica del fenomeno migratorio: l’immigrato non è più persona, ma risorsa. Una risorsa numerica, utile a tappare le falle dell’equilibrio demografico e finanziario del Paese.

        Questa visione economicista, portata avanti da decenni da istituzioni accademiche, centri studi, fondazioni bancarie e anche da alcuni settori della politica, ha completamente fallito. L’Italia – che si sarebbe dovuta “salvare” grazie all’immigrazione – oggi è invece attraversata da tensioni sociali, ghetti, lavoro nero, degrado urbano e disgregazione comunitaria.

        È tempo di cambiare paradigma.

        Il nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

        Contro l’ideologia dell’immigrazione come “iniezione contributiva”, serve una regola chiara, semplice, etica: entra in Italia e vi resta solo chi si integra. Chi non si integra, deve essere riaccompagnato nel Paese d’origine.

        L’immigrazione non può essere un diritto incondizionato. È una possibilità, subordinata al rispetto di un triplice dovere:

        1. Imparare la lingua italiana;
        2. Lavorare o darsi da fare per contribuire al Paese ospitante;
        3. Rispettare le regole della convivenza civile.

        Chi non adempie a questi tre criteri, deve essere destinato alla ReImmigrazione. Non espulsione punitiva, ma un principio di razionalità politica: se non condividi o non accetti il patto sociale italiano, torni nel tuo contesto originario.

        Questo è un principio che si fonda su una visione etica dell’appartenenza, non sul cinismo della necessità economica. Un principio che trova radici nel pensiero mazziniano: la cittadinanza e il diritto a far parte di una comunità non possono essere svincolati dal dovere morale di contribuire alla sua crescita e al suo ordine.

        La retorica della necessità: una trappola

        Ridurre il migrante a una “leva contributiva” è pericoloso quanto inefficace. Come se il contributo INPS fosse più importante del rispetto delle leggi o della sicurezza pubblica. Come se bastasse “riempire i buchi” della popolazione senza preoccuparsi della coesione nazionale.

        L’immigrazione può essere una risorsa solo se accompagnata da un progetto serio di integrazione. Altrimenti è solo un’invasione silenziosa tollerata in nome di un feticcio economico.

        Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” segna una rottura netta con la visione che Boeri e altri continuano a promuovere. È tempo di metterlo al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche.


        📌 Pubblicato su www.reimmigrazione.com

        Avv. Fabio Loscerbo
        Avvocato e Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

      • Decreto Flussi: un sistema privo di integrazione che alimenta l’immigrazione economica senza regole

        Con i Decreti Flussi 2024–2025 l’Italia si prepara ad accogliere, in soli due anni, oltre 332.450 lavoratori stranieri, ai quali si aggiungeranno ulteriori ingressi “fuori quota” attraverso la conversione dei permessi stagionali in permessi di lavoro subordinato.
        Un numero impressionante, reso ancor più preoccupante dalla totale assenza di qualsiasi vincolo di integrazione.


        Un modello superato e pericoloso

        La logica che governa il sistema dei Decreti Flussi è rimasta la stessa degli ultimi decenni: l’immigrazione è concepita come mera forza lavoro, come una riserva economica da mobilitare secondo le esigenze contingenti del mercato.
        Non si richiede, né si prevede, che chi entra in Italia:

        • conosca la lingua italiana,
        • comprenda le regole fondamentali della convivenza civile,
        • aderisca realmente ai valori della società che lo ospita.

        L’ingresso è subordinato esclusivamente a un’offerta di lavoro. Nessun controllo, nessuna verifica sull’effettiva capacità di integrarsi.
        Così, anno dopo anno, si crea una massa crescente di persone presenti solo in funzione di necessità economiche, senza alcun vero progetto di integrazione.


        Le conseguenze di questa visione economicista

        Questo approccio produce gravi effetti collaterali:

        • Marginalizzazione sociale: chi non si integra resta ai margini della società, alimentando tensioni, disagio e insicurezza.
        • Precarietà: legare il soggiorno unicamente a un rapporto di lavoro crea condizioni di vita instabili, prive di reali prospettive di inclusione.
        • Crisi della coesione sociale: senza un percorso di integrazione reale, si minano le basi stesse della comunità nazionale.

        È evidente che un modello puramente economico dell’immigrazione è destinato a fallire, lasciando macerie sia per i migranti sia per la società ospitante.


        La necessità di un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

        È ora di abbandonare definitivamente questa logica miope e sterile.
        Bisogna adottare un nuovo paradigma:
        Integrazione o ReImmigrazione.

        L’Italia deve:

        • accogliere solo chi è disposto a integrarsi pienamente, lavorando, imparando la lingua e rispettando le regole fondamentali della convivenza civile;
        • accompagnare verso la ReImmigrazione chi rifiuta di integrarsi o si dimostra incompatibile con i valori della nostra società.

        Non si tratta di chiusura.
        Non si tratta di respingimento indiscriminato.
        Si tratta di responsabilità: verso gli italiani, verso gli stranieri che desiderano veramente diventare parte della nostra comunità, verso il futuro del nostro Paese.


        Conclusione: il coraggio di cambiare rotta

        Continuare a gestire l’immigrazione come semplice variabile economica significa tradire sia i diritti dei migranti sia la stabilità sociale italiana.
        L’Italia ha bisogno di una politica migratoria fondata sull’integrazione reale, non su sanatorie continue o flussi incontrollati.

        È tempo di voltare pagina.
        È tempo di scegliere: Integrazione o ReImmigrazione.


        Avv. Fabio Loscerbo
        Lobbista in materia di Migrazione e Asilo registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

      • “Integrazione o ReImmigrazione”: il nuovo paradigma conquista spazio anche nel mondo progressista

        La recente pubblicazione del mio articolo “Integrazione o ReImmigrazione” sulla rivista DuepiùDue (https://www.duepiudue.it/opinioni/integrazione-o-reimmigrazione/), voce vicina agli ambienti progressisti, segna un passaggio fondamentale:
        il nuovo paradigma dell’integrazione entra finalmente nel dibattito serio, superando le paure, i tabù e i filtri del politically correct.


        Quando il progresso accetta la sfida reale

        Per anni si è evitato di affrontare apertamente il tema di una integrazione autentica, temendo di ledere la sensibilità collettiva o di essere etichettati come “restrittivi”.
        Oggi, il fatto che DuepiùDue — un luogo di riflessione attento ai diritti e alla solidarietà — ospiti una riflessione sul nuovo paradigma dimostra che non si può più confinare la questione alla teoria o ai margini del dibattito pubblico.

        Affrontare la realtà non significa abbandonare i valori progressisti, ma renderli concreti.


        Il cuore del nuovo paradigma: diritti e doveri

        Nel mio contributo, ho ribadito con forza che l’integrazione non può più essere vista come un evento automatico o scontato, ma come un percorso concreto, basato su:

        • Inserimento lavorativo stabile,
        • Conoscenza adeguata della lingua italiana,
        • Rispetto delle regole fondamentali della convivenza civile.

        Chi si integra pienamente, diventa cittadino di fatto nella comunità che lo accoglie.
        Chi invece rifiuta volontariamente tale percorso, dovrà essere indirizzato, con rispetto e dignità, verso la ReImmigrazione.

        Il nuovo paradigma si fonda su un principio semplice: nessun diritto senza responsabilità.


        Un’apertura culturale che cambia il dibattito

        Il fatto che una rivista progressista dia spazio a questa visione è il segnale di una presa di coscienza più matura:
        l’integrazione autentica è l’unica forma di vera inclusione.

        Non si tratta di respingere. Non si tratta di discriminare.
        Si tratta di costruire una società dove chi entra partecipa e chi partecipa ne condivide le regole.

        Solo così si tutelano davvero i valori di uguaglianza, dignità e giustizia sociale che il progressismo ha sempre rivendicato.


        Conclusioni: la fine dei silenzi

        La pubblicazione su DuepiùDue dimostra che il nuovo paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” ha ormai superato il confine della discussione teorica:
        è diventato un’opzione concreta, una necessità culturale e politica.

        L’epoca dei silenzi, delle paure e dei compromessi verbali è finita.
        È iniziato il tempo della chiarezza, della responsabilità e della costruzione di una società dove diritti e doveri camminano insieme.


        Avv. Fabio Loscerbo
        Lobbista in materia di Migrazione e Asilo registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

        • Rimpatriare tutti gli stranieri irregolari? Un’impresa da 800 anni (anche con i centri in Albania), ma con il nuovo paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” sarà più facile rimpatriare chi fallisce l’integrazione o chi non è compatibile con la società italiana

          Ogni volta che si parla di immigrazione, prima o poi salta fuori la stessa proposta: “Rimpatriamo tutti gli irregolari”.

          Un’affermazione che suona forte, decisa, a tratti anche rassicurante per chi crede che il problema si possa risolvere con un semplice biglietto di sola andata.

          Ma la domanda vera è un’altra: è davvero possibile?

          Per capirlo, dobbiamo partire dai numeri.

          Secondo la Fondazione ISMU, al 1° gennaio 2024, in Italia erano presenti circa 321.000 stranieri irregolari (Fonte:
          https://anci.lombardia.it/dettaglio-news/20252191028-rapporto-sulle-migrazioni-ismu-presentata-la-trentesima-edizione/ ).

          Un numero in calo rispetto agli anni precedenti, anche grazie alla conclusione delle sanatorie e alla diminuzione degli sbarchi.

          Fin qui tutto chiaro.

          Ma quanti di questi irregolari vengono effettivamente espulsi ogni anno?

          I dati parlano chiaro: nel 2024 sono stati rimpatriati 5.389 cittadini stranieri (Fonte:
          https://www.facebook.com/Viminale.MinisteroInterno/photos/sono-5389-i-cittadini-stranieri-rimpatriati-nel-loro-paese-dorigine-nel-2024-un-/558583753818776/).

          Sembra un buon risultato, ma lo è davvero?

          Consideriamo anche che ogni anno, tra sbarchi e ingressi irregolari via terra o per scadenza dei documenti, arrivano in media almeno 5.000 nuovi irregolari.

          Se il ritmo dei rimpatri resta quello attuale, il saldo netto è di appena 389 persone in meno ogni anno.

          Facendo un rapido calcolo:
          321.000 / 389 = circa 825 anni.

          Hai letto bene: più di otto secoli per azzerare la presenza di irregolari, sempre che nel frattempo nessun altro arrivi in Italia senza documenti validi.

          Se anche ipotizzassimo flussi completamente fermi, e mantenessimo i 5.389 rimpatri annui, ci vorrebbero comunque quasi 60 anni.

          A tutto questo si aggiungono le ben note difficoltà operative: identificazione dei soggetti, mancanza di documenti, assenza di accordi bilaterali con i paesi di origine, costi elevati e una macchina burocratica spesso lenta e inefficiente.
          E infatti, secondo ActionAid, dai Centri di Permanenza per il Rimpatrio nel 2023 è stato eseguito solo il 10% degli ordini di espulsione (Fonte: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/10/25/dai-cpr-rimpatriati-solo-il-10-dei-migranti-con-ordine-di-espulsione_9b76ea57-1cff-4359-8450-7ef5ee04829b.html )

          E i nuovi CPR in Albania?

          Con il Protocollo firmato tra Italia e Albania, il governo ha annunciato la creazione di strutture extraterritoriali italiane in territorio albanese, con la possibilità di trattenere fino a 3.000 migranti contemporaneamente (Fonte:
          https://i2.res.24o.it/pdf2010/S24/Documenti/2024/11/14/AllegatiPDF/PROTOCOLLO-ITALIA-ALBANIA-in-materia-migratoria%20GRIGIO.pdf ).

          In teoria, quindi, si ampliano gli spazi e la logistica, ma da sola questa misura non risolve l’enigma del rimpatrio.

          Il Consiglio dei Ministri ha approvato a marzo 2025 un decreto per destinare quei centri anche ai migranti presenti nei CPR italiani in attesa di espulsione (Fonte:
          https://lespresso.it/c/politica/2025/3/28/governo-meloni-cpr-albania-consiglio-dei-ministri/53512

          Ma l’efficacia è ancora tutta da verificare.

          Perché allora il nuovo paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” può davvero fare la differenza?

          La risposta è semplice: perché lo attuiamo attraverso la procedura della protezione complementare.

          Questa procedura prevede che lo straniero consegni il passaporto alla Questura al momento della domanda.

          Un elemento che può sembrare secondario, ma che in realtà è fondamentale: con il passaporto già in mano, lo Stato può eseguire rapidamente ed efficacemente il rimpatrio di chi fallisce il percorso di integrazione o si rende incompatibile con i principi della convivenza civile.

          Non solo. Questo paradigma ribalta la logica attuale.

          Oggi si parte da un’assenza di controllo, da una situazione di irregolarità a tempo indeterminato.

          Con “Integrazione o ReImmigrazione”, invece, l’immigrazione è condizionata: lavoro, lingua italiana, rispetto delle regole. Chi si integra, resta. Chi non si integra, torna.

          È la prima volta che in Italia si propone un modello di permanenza fondato su criteri chiari e verificabili.

          Un sistema che non si limita a tollerare la presenza dello straniero, ma la condiziona a un effettivo percorso di integrazione, misurato su elementi oggettivi: il lavoro, la lingua, il rispetto delle regole.

          Non più una permanenza passiva e indefinita, ma un soggiorno attivo e responsabilizzante, che restituisce allo Stato la possibilità di gestire l’immigrazione in modo ordinato, trasparente e sostenibile.

          Conclusione

          I numeri parlano chiaro: rimpatriare tutti gli irregolari è un obiettivo impossibile, almeno con gli strumenti attuali.

          Ma questo non significa che dobbiamo rassegnarci all’anarchia migratoria. Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” apre una nuova strada, giuridicamente fondata, tecnicamente praticabile, politicamente realistica.

          Una strada che può finalmente conciliare accoglienza e sovranità, diritti e sicurezza.

          Avv. Fabio Loscerbo
          Lobbista in materia di Migrazione e Asilo
          Registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

        • Remigrazione è futile. Serve un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

          Ho scelto con attenzione le parole che accompagnano lo slogan del mio sito. “Remigrazione è futile. Serve un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione” non è una provocazione, né una presa di distanza ideologica da chi propone la “remigrazione” come soluzione.
          Non è nemmeno una critica nel senso polemico del termine.
          Al contrario, vuole essere un invito alla riflessione, rivolto anche a quegli ambienti che in buona fede, e spesso per reazione a un’immigrazione mal gestita, hanno fatto della remigrazione il fulcro del loro approccio.

          Io credo che il problema sia a monte: sta nel modo in cui abbiamo concepito e raccontato l’immigrazione negli ultimi trent’anni. L’abbiamo letta quasi esclusivamente in termini economicisti, come se lo straniero potesse essere accolto solo se “serve” al mercato. Lo abbiamo ridotto a forza lavoro, a numeri da calcolare in base al PIL, ignorando che prima ancora dell’utilità, viene la compatibilità sociale, il senso di appartenenza, la capacità di vivere insieme secondo regole comuni.

          Ed è qui che il concetto di ReImmigrazione si distingue e si propone come nuovo paradigma.
          Non come alternativa alla remigrazione, ma come suo superamento civile, strutturato, regolato.
          Un modello che non respinge per principio, ma che accoglie chi si integra e prevede il ritorno per chi rifiuta di farlo.
          Un modello che non si fonda sull’identità etnica o religiosa, ma sulla volontà di condivisione, sul rispetto della lingua, delle leggi, della convivenza.

          Perché “remigrazione è futile”

          Quando dico che la remigrazione è “futile”, non voglio dire che sia sbagliata nelle intenzioni.
          Molti che la invocano lo fanno mossi da un’esigenza legittima: ristabilire ordine, tutelare la coesione sociale, arginare gli abusi.
          Il punto è che, nella forma in cui viene proposta, non è attuabile. Non tiene conto della realtà giuridica, dei legami familiari e lavorativi creati nel tempo, delle tutele costituzionali e internazionali. Non risolve il problema, lo sposta.

          Per questo la considero futile: perché è una risposta che non regge alla prova dei fatti, e perché rischia di rimanere confinata in un orizzonte di reazione, anziché aprire a una visione di sistema.

          ReImmigrazione: una proposta per chi vuole davvero cambiare

          Il mio invito è semplice, e rivolto a tutti, anche — e forse soprattutto — a chi oggi sostiene la necessità della remigrazione: cambiamo insieme il paradigma.
          Se vogliamo che l’immigrazione diventi finalmente gestibile e sostenibile, dobbiamo costruire regole chiare, basate su responsabilità reciproche, non su automatismi o ideologie.

          Chi si integra, resta.
          Chi non si integra, torna.

          Questo è il cuore del principio di ReImmigrazione. Non è un espediente ideologico, non è una teoria astratta. È una proposta pragmatica, fondata sul rispetto dei diritti, ma anche sulla tutela della comunità nazionale.

          L’integrazione deve tornare ad essere il centro della politica migratoria, non un effetto collaterale.
          Solo così possiamo superare l’approccio economicista, affrontare il nodo culturale, e ricostruire un patto civico tra cittadini italiani e stranieri.

          La remigrazione come unica risposta è sterile.
          La ReImmigrazione, invece, è una visione strutturata, che riconosce la complessità, ma non si arrende al caos.

          È tempo di scegliere.
          Non tra destra e sinistra, non tra chi accoglie tutto e chi espelle tutto.
          Ma tra chi vuole gestire con serietà, e chi si limita a denunciare.
          Io scelgo la responsabilità.

          Integrazione o ReImmigrazione. È da qui che possiamo ricominciare.

          Avv. Fabio Loscerbo
          Lobbista in materia di Migrazione e Asilo registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36

        • Remigrazione o integrazione? Il caso Fersina e la necessità di un nuovo paradigma

          di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID: 280782895721-36


          Il fatto

          Nella notte tra il 18 e il 19 aprile 2025 (https://www.ildolomiti.it/cronaca/2025/remigrazione-subito-blitz-notturno-di-casapound-alla-residenza-fersina-attaccato-uno-striscione-allingresso-non-vogliamo-ne-accoglienza-diffusa-ne-accentrata ) , militanti di CasaPound hanno affisso uno striscione con la scritta “Remigrazione subito” all’ingresso della Residenza Fersina di Trento, struttura che ospita richiedenti asilo.

          L’azione è stata motivata da recenti episodi di tensione all’interno della struttura, tra cui l’incendio doloso di alcuni bidoni. CasaPound ha dichiarato di non volere né accoglienza diffusa né accentrata, ma l’emigrazione totale e senza compromessi di tutti gli immigrati irregolari presenti sul territorio.


          La risposta: il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”

          Di fronte a queste polarizzazioni, è necessario proporre un approccio razionale e costruttivo. Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” si fonda su due pilastri:

          1. Integrazione: per chi dimostra un effettivo radicamento nel tessuto sociale italiano attraverso lavoro, rispetto delle leggi e partecipazione alla vita comunitaria.
          2. ReImmigrazione: per coloro che, pur avendo avuto l’opportunità di integrarsi, scelgono di non rispettare le regole fondamentali della convivenza civile.

          Conclusioni

          Il caso della Residenza Fersina evidenzia la necessità di superare le dicotomie ideologiche e adottare un modello di gestione dell’immigrazione basato su criteri oggettivi e verificabili. Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” offre una soluzione equilibrata, che tutela i diritti individuali e garantisce la sicurezza e la coesione sociale.


          Avv. Fabio Loscerbo
          Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36
          www.reimmigrazione.com

          • Il valore della protezione complementare nel nuovo paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”A proposito della sentenza del Tribunale di Bologna, R.G. 9465/2024, del 14 aprile 2025

            di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID: 280782895721-36


            Introduzione

            La sentenza n. 935/2025 del Tribunale Ordinario di Bologna (R.G. 9465/2024), emessa in data 14 aprile 2025, costituisce una tappa fondamentale nel processo di consolidamento della protezione complementare come strumento di attuazione del nuovo paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”. La pronuncia, emessa dalla Sezione specializzata in materia di immigrazione, ha riconosciuto il diritto al rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale, valorizzando il radicamento effettivo della ricorrente sul territorio nazionale.


            Un paradigma per la gestione razionale dei flussi migratori

            “Integrazione o ReImmigrazione” non è uno slogan, ma una proposta strutturale per riformulare l’intero approccio alle politiche migratorie. L’integrazione, fondata su lavoro, lingua e rispetto delle regole, deve costituire il perno attorno al quale ruotano tutte le forme di protezione. La sentenza in commento dimostra come la protezione complementare possa e debba essere applicata in funzione di un concreto inserimento dello straniero nella società italiana, nonché quale alternativa giuridica praticabile a fronte dell’assenza di requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.


            Il caso deciso dal Tribunale di Bologna

            La ricorrente, cittadina albanese, aveva visto rigettata dalla Questura di Modena la propria domanda di protezione speciale. Il Collegio giudicante ha invece riconosciuto, sulla base di una valutazione attuale e approfondita, il diritto al rilascio del permesso, rilevando come:

            • la ricorrente abbia stabilmente radicato la propria vita in Italia da circa otto anni;
            • abbia intrapreso e mantenuto un’attività lavorativa regolare, con contratto a tempo indeterminato;
            • conviva con un partner titolare di protezione speciale, condividendo un vincolo affettivo stabile e duraturo;
            • abbia una condotta attuale conforme alla legge, con un percorso di progressiva integrazione anche economica.

            Il Tribunale ha ritenuto, in applicazione dell’art. 19, co. 1.1, TUI e dei principi elaborati dalla Corte EDU (in primis art. 8 CEDU), che l’allontanamento della ricorrente avrebbe comportato una lesione grave e ingiustificata della sua vita privata e familiare.


            La protezione complementare come leva di civiltà giuridica

            Ciò che emerge con chiarezza è che la protezione complementare – nell’interpretazione datane dal Tribunale – rappresenta un meccanismo di bilanciamento tra le esigenze dello Stato e i diritti individuali dello straniero effettivamente integrato. Non si tratta di una concessione di favore, ma di un diritto soggettivo fondato su una rete di norme costituzionali, europee e internazionali.

            La sentenza riconosce che, quanto maggiore è il grado di radicamento in Italia, tanto più elevato è il rischio che un’espulsione provochi una violazione grave dei diritti fondamentali della persona, come chiarito anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Sent. n. 24413/2021).


            Conclusioni

            La decisione del Tribunale di Bologna costituisce un esempio virtuoso dell’applicazione coerente e teleologica della protezione complementare. Essa dimostra come tale strumento non solo garantisca una tutela efficace dei diritti umani, ma contribuisca anche alla stabilità sociale e alla coesione del territorio.

            È su questi casi che si deve costruire una nuova visione delle politiche migratorie: una visione che abbandona la logica emergenziale e premiale, e che si fonda invece sul principio di responsabilità e reciprocità. “Integrazione o ReImmigrazione” significa riconoscere i diritti a chi dimostra di rispettare le regole e voler essere parte attiva della comunità nazionale. La protezione complementare, in questo quadro, diventa uno strumento chiave per attuare il paradigma.


            Avv. Fabio Loscerbo
            Lobbista in materia di migrazione e asilo registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID: 280782895721-36
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