Autore: Fabio Loscerbo

  • Why the “Integration or ReImmigration” Paradigm Can Become a Model in the United States

    The Trump administration, which returned to the White House in January 2025, has once again placed immigration policy at the center of the American agenda with a series of measures that have drawn international attention.

    The suspension of the refugee program, decided through an executive order immediately after inauguration, blocked thousands of pending applications, leaving families and host communities in uncertainty. Shortly afterward, the Department of Homeland Security reactivated the Migrant Protection Protocols, better known as Remain in Mexico, forcing non-Mexican asylum seekers to stay in Mexico throughout the entire examination of their claims.

    In June, Presidential Proclamation No. 10949 introduced a new travel ban, restricting or prohibiting entry from nineteen countries, a clear return to nationality-based policies. At the same time, an order issued on April 28 targeted so-called “sanctuary cities,” requiring them to comply with federal immigration demands under threat of losing funding and facing criminal action.

    These measures are consistent with a firm line that prioritizes closing borders and expelling those who have no legal right to stay. Yet this approach, while producing immediate numerical effects, does not create a sustainable model.

    The United States today appears to swing between indiscriminate admission and mass deportation, without defining what should happen to those who remain legally on its territory. It is precisely here that space opens up for a new paradigm.

    “Integration or ReImmigration” means moving from a policy that merely says “no” to entry, to a more structured vision that requires those admitted to follow a binding path of integration. It is not just about deterring irregular flows, but about tying the right to remain to concrete obligations: learning English, participating in civic education programs, entering the labor market, and respecting the fundamental rules of coexistence.

    Those who demonstrate integration consolidate their stay; those who refuse or evade this obligation are directed toward a process of reimmigration—organized and dignified, but firm in principle.

    Trump’s measures—whether the travel ban, the suspension of the refugee program, or the confrontation with sanctuary cities—show a growing awareness of the need to restore order to the immigration system.

    However, they remain rooted in a purely defensive logic. What is missing is the dimension of mandatory integration, the one element that can transform migrants from a potential problem into a verifiable resource.

    This is precisely where the “Integration or ReImmigration” paradigm can become a model for the United States: not only rejecting, but also selecting, binding, and, when necessary, returning.

    A country that built its identity on the integration of generations of immigrants cannot rely on emergency solutions. Walls, deportations, and bans may contain flows, but they cannot govern them.

    America now has the historic opportunity to shift to a system where rights are not granted automatically but are conditional on a serious path of responsibility and obligations.

    Only in this way can it transform its tradition as a “nation of immigrants” into a modern project of mandatory integration and, when necessary, reimmigration.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbyist in migration and asylum – Transparency Register of the European Union, ID 280782895721-36

  • Naufragi a Lampedusa e scontri nel Regno Unito: due facce della stessa emergenza migratoria

    Il mese di agosto 2025 ci consegna due immagini emblematiche della crisi migratoria contemporanea: da un lato, il Mediterraneo teatro di ennesime tragedie; dall’altro, le piazze britanniche percorse da tensioni sociali sempre più accese.

    Italia: la tragedia di Lampedusa

    Il 13 agosto, due naufragi al largo di Lampedusa hanno provocato la morte di almeno 26 migranti, con numerosi dispersi ancora da rintracciare. L’episodio si colloca in un contesto di apparente calo complessivo degli arrivi: secondo Frontex, nei primi sette mesi del 2025 le frontiere esterne dell’Unione Europea hanno registrato una diminuzione del 18% degli attraversamenti irregolari rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, attestandosi a circa 95.200.

    La riduzione numerica, tuttavia, non basta a mascherare la gravità delle singole vicende umane. I naufragi continuano a ripetersi, dimostrando che l’attuale modello di gestione non riesce a coniugare efficacia operativa e tutela della dignità delle persone. L’Italia resta così schiacciata tra il dovere umanitario e l’impossibilità materiale di sostenere flussi che non trovano più corrispondenza in una logica di integrazione strutturata.

    Fonte:

    Europa: le piazze britanniche in tensione

    Sul fronte europeo, il Regno Unito ha vissuto nelle prime settimane di agosto una serie di scontri tra manifestanti anti-immigrazione e gruppi anti-razzisti. A Falkirk, in Scozia, le contrapposizioni si sono consumate davanti a un hotel destinato all’accoglienza dei richiedenti asilo. Episodi analoghi hanno interessato anche Londra, Manchester e Newcastle, con almeno 25 arresti complessivi per disordini pubblici.

    Questi fatti rappresentano il segnale tangibile di un clima sociale sempre più polarizzato. L’assenza di politiche chiare e coerenti sull’immigrazione alimenta il malcontento, lasciando spazio a derive estremiste e conflitti di piazza. La società britannica mostra in maniera evidente ciò che attende l’Europa intera se non si saprà passare a un modello di gestione basato sulla responsabilità, sulla selettività e sull’integrazione obbligatoria.

    Fonte:

    Integrazione o ReImmigrazione come unica alternativa

    Le due vicende – i corpi senza vita recuperati nel Mediterraneo e le strade britanniche trasformate in luoghi di scontro – sono la fotografia di un’Europa che non ha ancora saputo elaborare un paradigma migratorio coerente.

    La proposta di Integrazione o ReImmigrazione nasce proprio da questa constatazione. L’idea è semplice e radicale: non esiste più spazio per un’immigrazione slegata da un percorso di inserimento obbligatorio.

    • Integrazione come obbligo: chi entra in Europa deve accettare di imparare la lingua del Paese ospitante, di inserirsi in un percorso lavorativo regolare e di rispettare le regole fondamentali della convivenza civile. L’integrazione non è più una scelta individuale, ma un dovere giuridico e sociale.
    • ReImmigrazione come conseguenza: chi rifiuta, ostacola o si dimostra incapace di rispettare questo percorso deve essere accompagnato in un programma di rientro nel Paese d’origine, con garanzie di dignità ma con la fermezza necessaria a tutelare la società ospitante.
    • Equilibrio tra diritti e doveri: i diritti non sono cancellati, ma subordinati all’adempimento dei doveri di integrazione. Questo rovesciamento della prospettiva consente di superare la sterile contrapposizione tra accoglienza indiscriminata e chiusura totale.

    Solo un modello di questo tipo può evitare che l’Italia continui a contare i morti in mare e che il Regno Unito – o altri Paesi europei – continuino a vedere le proprie strade trasformarsi in terreno di conflitto sociale.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista in materia di migrazione e asilo – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

  • Senza integrazione, niente accoglienza: il cambiamento della mentalità europea e il rischio di nuove derive


    di Fabio Loscerbo – Lobbista in materia di migrazione e asilo, iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

    Il recente episodio avvenuto su una spiaggia andalusa, dove un gruppo di bagnanti ha fisicamente bloccato dei migranti appena sbarcati da una barca veloce, segna un punto di svolta simbolico e sostanziale nel rapporto tra società europee e fenomeno migratorio. Non si tratta più solo di “mancata accoglienza” o di rigetto istituzionale, ma dell’emergere di una risposta spontanea e viscerale da parte della popolazione civile. Fino a qualche anno fa, episodi simili avrebbero suscitato empatia, mobilitazione umanitaria, perfino solidarietà attiva. Oggi, in sempre più casi, prevalgono reazioni di rifiuto, allarme o perfino ostilità.



    Ma cosa è cambiato? La risposta è semplice e al tempo stesso scomoda: è cambiato il paradigma.

    Il vuoto del “diritto a entrare” senza un “dovere a integrarsi”

    Per troppo tempo l’Europa ha gestito i flussi migratori secondo logiche emergenziali, rinunciando a costruire un modello normativo e culturale fondato sull’integrazione come precondizione per l’ingresso e la permanenza. In assenza di una visione coerente, si è lasciato spazio a una percezione diffusa di squilibrio, di accesso indiscriminato, di assenza di reciprocità.

    Non si può pretendere che la cittadinanza europea — già provata da trasformazioni sociali rapide, crisi economiche e tensioni culturali — continui ad accettare una narrativa che considera la migrazione come un fatto ineluttabile, da subire e non da regolare. Il concetto di “accoglienza incondizionata” è stato portato all’estremo, fino a diventare insostenibile nella percezione pubblica.

    Dall’empatia al sospetto: il cambio di percezione tra i cittadini

    Il passaggio da una mentalità solidaristica a una reattiva non è avvenuto in modo improvviso. È il frutto di anni di scollamento tra le norme e la realtà vissuta, tra la retorica dell’inclusione e l’assenza concreta di strumenti per garantire integrazione, sicurezza e coesione sociale.

    Quando lo Stato non seleziona, i cittadini selezionano da sé. Ed è qui che nasce il rischio. Il confine tra autodifesa collettiva e giustizia sommaria è labile. Se non si fissa un perimetro chiaro di regole, l’opinione pubblica può legittimare comportamenti che vanno ben oltre la legalità, in nome di una sicurezza “percepita” ma non regolamentata.

    Il rischio di derive pericolose

    Questa mutazione profonda del sentire collettivo può facilmente degenerare. Le immagini dei bagnanti che rincorrono i migranti sulla spiaggia non devono essere interpretate né come “buon senso popolare” né come atti di eroismo civile. Sono il sintomo di un fallimento strutturale, quello delle istituzioni europee e nazionali nel governare i flussi migratori secondo criteri di legalità, umanità e sostenibilità.

    Quando la politica abdica al suo ruolo, la piazza — reale o digitale — prende il suo posto. E lo fa con la legge del più forte, con la paura, con l’istinto. La storia ci insegna che questi processi portano a derive pericolose, a forme di vigilanza popolare, discriminazione sistemica, o addirittura violenza razzializzata. È un terreno scivoloso su cui nessuna democrazia dovrebbe permettersi di scivolare.

    La soluzione: un nuovo patto europeo sull’integrazione

    È tempo di affermare un nuovo paradigma: “integrazione o ReImmigrazione”. Un modello in cui:

    l’ingresso sia subordinato alla capacità di integrarsi concretamente;

    la permanenza sia valutata su parametri oggettivi (lavoro, lingua, rispetto delle regole);

    chi non si integra sia rimpatriato, in modo equo ma fermo.


    Solo così si potrà ricostruire il patto di fiducia tra cittadini, istituzioni e stranieri regolarmente presenti, e ridare legittimità al principio di accoglienza, svuotandolo però di ogni connotazione passiva o ideologica.

    Conclusione

    La scena della spiaggia in Spagna non è un’anomalia: è un segnale. Chi lo interpreta come isolato sbaglia. Chi lo giustifica in automatico, pure. Serve un cambio di passo, urgente e strutturale. Integrare chi merita, ri-immigrare chi rifiuta le regole: questa è la via per evitare il collasso del modello europeo e per impedire che le paure si trasformino in rabbia, e la rabbia in ingiustizia.

  • Dopo la sentenza della Corte UE, serve un nuovo paradigma: “Integrazione o ReImmigrazione”Una soluzione realistica, compatibile con il modello Albania come strumento di gestione migratoria globale

    di Fabio Loscerbo
    Avvocato – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)


    La pronuncia della Corte UE e le sue implicazioni

    La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-638/22), pubblicata il 1° agosto 2025, ha stabilito che la designazione legislativa di un Paese terzo come “sicuro” non può sottrarsi al vaglio giurisdizionale, anche laddove disposta da norme nazionali generali. Pur rispettando la funzione di garanzia propria del giudice, il provvedimento solleva interrogativi sul possibile indebolimento della capacità degli Stati di strutturare in modo coerente ed efficiente le proprie politiche migratorie.

    Il Governo italiano ha espresso riserve, sostenendo che la sentenza attribuisce un potere eccessivo ai giudici ordinari nella valutazione sistemica delle politiche di rimpatrio, con potenziali effetti disomogenei su scala nazionale.

    Anche il prof. Sabino Cassese, intervenendo su Il Foglio, ha parlato di sentenza “inutile e suicida”, sottolineando l’incongruenza tra tale intervento giurisprudenziale e l’imminente entrata in vigore del nuovo Patto UE sull’immigrazione (2026), che affiderà alle istituzioni europee – e non più agli Stati – il potere di individuare i Paesi terzi sicuri.

    La necessità di un approccio equilibrato

    Va riconosciuto che la Corte ha inteso rafforzare le garanzie procedurali del singolo richiedente, evitando automatismi e presunzioni assolute. Tuttavia, in un contesto come quello migratorio, segnato da dinamiche globali e crescenti pressioni, è essenziale che la tutela dei diritti sia conciliata con l’esigenza di efficienza amministrativa e responsabilità politica.

    Serve un modello che non sacrifichi la funzione del giudice, ma che valorizzi la distinzione tra ruolo giurisdizionale e funzione legislativa, particolarmente quando è in gioco la sicurezza interna, la sostenibilità dei sistemi di accoglienza e il principio di sovranità regolata.


    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: la base di una riforma strutturale

    Alla luce di tali criticità, il paradigma elaborato su ReImmigrazione.com – “Integrazione o ReImmigrazione” – si conferma come una proposta sistemica in grado di coniugare inclusione e selettività, diritti e doveri, accoglienza e responsabilità.

    Il modello si fonda su tre requisiti essenziali:

    1. Occupazione regolare e stabile, come indice di autosufficienza e contribuzione;


    2. Conoscenza linguistica e culturale, verificata attraverso standard oggettivi;


    3. Osservanza delle regole, incluse quelle amministrative, penali e civiche.

    Chi soddisfa questi criteri ha titolo per restare. Chi invece rifiuta l’integrazione attiva o nega il patto di cittadinanza, deve essere incluso in un percorso di rientro ordinato, volontario o coattivo, nel proprio paese di origine o in uno Stato terzo sicuro.

    Il modello Albania come strumento di gestione migratoria generalizzata

    In quest’ottica, il modello Albania non va inteso come mero strumento per la gestione delle domande di asilo o delle “protezioni”. Al contrario, può – e deve – essere ricondotto all’interno di una strategia più ampia di governance migratoria, orientata a:

    1) filtrare e valutare le richieste di ingresso in chiave preventiva, fuori dal territorio nazionale;

    2) accogliere e trattenere temporaneamente i soggetti privi dei requisiti per l’integrazione;

    3) attuare misure rapide di allontanamento, nel pieno rispetto delle garanzie minime europee e internazionali.


    La detenzione amministrativa extraterritoriale, se regolata in modo chiaro, trasparente e proporzionato, può rappresentare uno strumento di regolazione legittimo e funzionale, inserito all’interno di accordi bilaterali e multilaterali.

    Ciò consente di rendere selettivo l’accesso al territorio italiano, ridurre i flussi irregolari e assicurare un uso coerente delle risorse pubbliche.


    Conclusione: un cambio di paradigma per una politica migratoria sostenibile

    La sentenza della Corte UE ha il merito di riaccendere il dibattito sull’equilibrio tra garanzie e sovranità. Tuttavia, la sola giurisdizione – per quanto necessaria – non può supplire all’assenza di una visione politica chiara, ordinata e lungimirante.

    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” rappresenta un modello alternativo e pragmatico, capace di rimettere al centro la responsabilità individuale dello straniero e di promuovere una migrazione regolare, sostenibile e orientata all’integrazione reale.

    Il modello Albania, se ricondotto a una cornice di gestione multilivello del fenomeno migratorio, può trovare piena legittimità e funzionalità anche alla luce delle recenti pronunce europee.

  • La BCE misura l’immigrazione in punti di PIL. Si superi la visione economicista dell’immigrazione e si persegua un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

    di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato nel Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID n. 280782895721-36), in materia di migrazione e asilo

    L’8 maggio 2025 la Banca Centrale Europea ha pubblicato sul proprio sito istituzionale un blog a firma di quattro economisti del proprio staff, intitolato Foreign workers: a lever for economic growth (https://www.ecb.europa.eu/press/blog/date/2025/html/ecb.blog20250508~897078ce87.en.html).

    Fin dalle prime righe, il tono del documento è inequivocabile: la presenza di lavoratori stranieri è descritta come un fattore determinante di stabilizzazione macroeconomica, in un’Eurozona dove la produttività langue e il capitale investito resta debole.

    Nel testo si legge chiaramente che, in assenza dell’aumento della popolazione lavorativa straniera, la crescita del PIL reale sarebbe stata molto più contenuta. Addirittura, si arriva ad affermare che “non è un’esagerazione dire che, in alcune delle maggiori economie europee, la crescita sarebbe stata molto più lenta senza i lavoratori stranieri”. Il blog si concentra solo sulla componente economica dell’immigrazione, ammettendo espressamente che “non vengono analizzate altre conseguenze economiche e sociali”. Ecco il primo grande limite dell’impostazione.

    Ridurre il fenomeno migratorio a una semplice funzione di riequilibrio demografico e produttivo rappresenta una visione estremamente parziale, e in ultima analisi pericolosa.

    Questa visione rafforza l’idea che il valore dello straniero dipenda unicamente dalla sua capacità di lavorare, produrre reddito, versare contributi. Ma cosa accade quando quella capacità viene meno? Quando l’età, la salute o la congiuntura economica lo rendono “inutile”? La logica sottesa è chiara: se non sei più produttivo, non sei più necessario. Una società fondata su questo principio non solo è disumana, ma è anche destinata a fallire sul piano della coesione e della stabilità interna.

    In secondo luogo, il documento della BCE presenta come “miglioramento” la crescente presenza di stranieri nei lavori più qualificati e la riduzione dell’overqualification rispetto agli anni precedenti. Tuttavia, ammette che la maggior parte dei lavoratori stranieri rimane impiegata in occupazioni a bassa qualifica e con contratti temporanei. In altri termini, la “leva di crescita” su cui l’Europa si sta appoggiando è fatta ancora oggi di precarietà, sottoutilizzo delle competenze e fragilità contrattuale.

    È necessario ribaltare il paradigma.

    L’Europa non può costruire il proprio futuro sulla disponibilità di manodopera straniera da impiegare in condizioni spesso subalterne, né può tollerare un sistema in cui il diritto a restare sul territorio sia subordinato unicamente all’essere funzionali al sistema produttivo.

    Il lavoro, certo, è un indicatore importante, ma non può essere l’unico. Il criterio guida deve essere l’integrazione.

    Integrazione non come generico inserimento, ma come partecipazione effettiva e responsabile alla vita della comunità nazionale. Integrazione linguistica, sociale, culturale, giuridica. Il rispetto delle regole, la volontà di stabilirsi, la capacità di contribuire alla società nel suo complesso – non solo al PIL – devono diventare il vero metro di giudizio per la permanenza sul territorio europeo.

    È in questa prospettiva che propongo, ormai da tempo, il principio di Integrazione o Reimmigrazione.

    Chi dimostra di volersi integrare realmente va messo nelle condizioni di restare e di progredire.

    Chi invece rifiuta consapevolmente ogni percorso di integrazione, chi resta ai margini per scelta o ostilità verso i valori della società ospitante, deve essere accompagnato a un rientro dignitoso ma deciso nel Paese di origine.

    Continuare a leggere l’immigrazione soltanto in chiave economica significa ignorare ciò che rende sostenibile una democrazia. Le persone non sono ingranaggi.

    Le politiche migratorie devono essere orientate alla costruzione di comunità, non alla ricerca di forza lavoro usa e getta. La vera sfida europea non è “quanti migranti servono”, ma quanti migranti vogliono davvero far parte della nostra società.

    In conclusione, il blog della BCE dimostra con chiarezza come l’establishment europeo continui a guardare all’immigrazione con lenti contabili.

    È tempo, invece, di una politica migratoria che metta al centro le persone, i valori, e l’identità democratica delle nazioni europee. Solo così l’immigrazione potrà smettere di essere un problema o una leva e diventare un’opportunità fondata sull’appartenenza.

  • La crisi migratoria francese: una riflessione sulle politiche assenti e sul bisogno di un nuovo paradigma

    Il contesto migratorio francese rappresenta oggi un banco di prova emblematico per comprendere le difficoltà strutturali che l’Europa affronta nel concepire una politica dell’immigrazione coerente, esigente e capace di generare integrazione autentica. La Francia, da decenni tra i principali paesi di destinazione per flussi migratori extraeuropei, ha attraversato varie stagioni politiche senza mai riuscire a consolidare un impianto normativo e amministrativo che tenga insieme principi di accoglienza, selettività e inclusione civica.

    Le cifre più recenti indicano la presenza stabile di oltre sette milioni di cittadini di origine extra-UE, una quota significativa della popolazione residente, accompagnata da un numero consistente di richieste di asilo. Si tratta di dati che, in assenza di un progetto politico organico, hanno alimentato dinamiche contraddittorie: da un lato, l’accoglienza diffusa e frammentata, talvolta orientata da logiche emergenziali; dall’altro, il moltiplicarsi di zone urbane socialmente segregate, dove il mancato assorbimento linguistico e culturale ha finito per radicalizzare l’emarginazione.

    La Francia è oggi priva di una visione strategica che metta al centro il dovere di integrazione come condizione necessaria del diritto al soggiorno. Le misure adottate nel tempo appaiono disarticolate e reattive.

    Non si è sviluppato un sistema di incentivi e controlli effettivi in grado di vincolare la permanenza nel paese all’adesione a percorsi strutturati di inserimento, né si è dato seguito a proposte legislative che avrebbero potuto riformare la materia in modo razionale.

    Il tentativo di riforma promosso nel 2023, durante il mandato del ministro Darmanin, ne è una prova emblematica: oscillante tra l’apertura selettiva al lavoro e la retorica della sicurezza, non è mai approdato a una sintesi politica condivisa, finendo per essere archiviato.

    La polarizzazione del dibattito ha contribuito a svuotare il campo della discussione razionale. Da un lato, la sinistra continua a difendere modelli multiculturali che si sono rivelati disfunzionali nel lungo periodo.

    Dall’altro, la destra nazionalista avanza risposte securitarie, prive però di efficacia strutturale. In mezzo, manca del tutto un’opzione capace di tenere insieme l’idea di inclusione con quella di responsabilità. L’integrazione, infatti, non può rimanere un’esortazione morale o un auspicio politico: deve diventare un obbligo giuridico, contrattualizzato, esigibile.

    La riflessione sulla Francia, dunque, va oltre il caso nazionale e investe l’Europa intera. Il disorientamento parigino, infatti, rispecchia quello dell’intera Unione Europea, dove ogni Stato membro continua a gestire i flussi secondo interessi propri, senza un paradigma condiviso. I fallimenti francesi – le rivolte urbane, la marginalità intergenerazionale, l’impossibilità di realizzare una cittadinanza coesa – sono un monito. Continuare a ignorare il legame tra diritti e doveri in materia migratoria significa rinunciare all’idea stessa di integrazione.

    È in questo contesto che si colloca la proposta di un nuovo approccio, definito “Integrazione o ReImmigrazione”, che mira a superare l’antitesi irrisolta tra accoglienza e respingimento.

    Il paradigma si fonda su un principio elementare ma trascurato: l’immigrazione può essere una risorsa solo se accompagnata da un percorso di responsabilizzazione, in cui il migrante accetta e dimostra di voler diventare parte attiva della società di arrivo, attraverso l’apprendimento della lingua, il rispetto delle regole comuni, il contributo al lavoro e alla coesione sociale. In assenza di tali requisiti, la permanenza non può essere indefinita.

    Una simile impostazione non è né punitiva né esclusiva, ma anzi mira a tutelare i percorsi virtuosi, distinguendo tra chi investe nel proprio inserimento e chi invece si limita a subire – o peggio a strumentalizzare – i margini dell’accoglienza.

    La Francia, oggi più di altri paesi europei, avrebbe bisogno di tale chiarezza concettuale, per uscire da una stagnazione normativa che alimenta disuguaglianze, tensioni e conflitti irrisolti.

    In ultima analisi, ciò che si rivela urgente non è l’adozione di misure estemporanee, ma la costruzione di una vera dottrina europea dell’immigrazione giusta, fondata su reciprocità, selettività, obblighi di integrazione e strumenti efficaci di rimpatrio.

    Solo così si potrà restituire credibilità alle istituzioni, coesione alle comunità e futuro a chi, davvero, sceglie di far parte di un nuovo paese.

    di Fabio Loscerbo
    Avvocato
    ID Registro Trasparenza UE: 280782895721-36

  • Decreto Flussi e obbligo di integrazione: una criticità strutturale nel sistema migratorio italiano

    Il recente Decreto Flussi triennale 2025–2028, adottato con DPCM, prevede l’ingresso regolare in Italia di centinaia di migliaia di cittadini stranieri per lavoro subordinato, autonomo e stagionale.

    Si tratta di uno strumento previsto dall’ordinamento, volto a regolare i flussi migratori in base alle esigenze del mercato del lavoro nazionale.

    Tuttavia, l’attuale disciplina solleva questioni sostanziali in ordine alla tenuta del sistema sotto il profilo dell’effettiva integrazione dei beneficiari.


    Una criticità evidente: 39 giornate per accedere al soggiorno biennale

    In base alla normativa vigente, è sufficiente aver svolto 39 giornate di lavoro agricolo per poter convertire un permesso di soggiorno per motivi stagionali in un permesso biennale per lavoro subordinato. Questa soglia, estremamente ridotta, costituisce un automatismo privo di reali garanzie sul piano della durata, continuità e serietà dell’inserimento lavorativo.

    A ciò si aggiunge il dato sistemico: non è previsto alcun obbligo formale di integrazione. Il passaggio da una condizione di soggiorno precaria a una stabilizzazione giuridica non è accompagnato da verifiche sul piano linguistico, culturale, comportamentale o civico.


    Il nodo giuridico: assenza di reciprocità tra diritto e dovere

    Il sistema migratorio italiano continua ad essere impostato secondo una logica unilaterale e concessoria. Si concede il titolo di soggiorno, si riconosce l’accesso al mercato del lavoro, ma non si richiede nulla in termini di doveri di integrazione strutturale.

    In questo quadro, l’assenza di un modello di permanenza condizionato al rispetto di parametri oggettivi produce effetti distorsivi:

    • difficoltà di monitoraggio effettivo dei percorsi individuali;
    • stabilizzazione di situazioni solo formalmente regolari;
    • ostacolo alla distinzione tra integrazione autentica e semplice presenza giuridica.

    Un possibile criterio correttivo: integrazione come presupposto della stabilizzazione

    È possibile immaginare un meccanismo differente, nel quale:

    • la conversione dei titoli di soggiorno sia subordinata, oltre che alla mera prova lavorativa, a verifiche su conoscenza della lingua italiana, assenza di condanne penali, adesione a percorsi di formazione civica;
    • la durata della permanenza sia legata al mantenimento di comportamenti conformi, con controlli periodici non solo formali ma sostanziali;
    • venga introdotto un principio di revisione attiva, secondo cui l’integrazione non è presunta, ma accertata.

    Si tratterebbe di passare da un sistema che presume l’integrazione dalla presenza a un sistema che presume la permanenza dall’integrazione.


    Considerazioni finali

    Il Decreto Flussi, nella sua attuale struttura, consente l’accesso e la stabilizzazione di lavoratori stranieri sulla base di parametri minimi e senza criteri di selezione qualitativa. Il rischio evidente è quello di una migrazione formalmente regolare ma socialmente disfunzionale, in cui il permesso di soggiorno diventa un titolo svincolato da ogni percorso di inserimento effettivo.

    Il sistema, così concepito, non premia l’integrazione, ma la presenza.

    Una riforma coerente con i principi di sostenibilità, sicurezza giuridica e coesione sociale dovrebbe introdurre verifiche obbligatorie e periodiche sul rispetto degli elementi fondamentali della convivenza civile.

    Non si tratta di chiudere. Si tratta, al contrario, di ordinare: integrare chi partecipa, riorientare chi si sottrae.

  • Il Tribunale di Bologna riconosce la protezione speciale: chi si integra ha diritto a restare

    Il Tribunale di Bologna continua a tracciare una linea giurisprudenziale chiara: chi si è effettivamente integrato in Italia ha diritto a rimanere.

    Nei giorni scorsi, tre diverse pronunce hanno accolto i ricorsi di cittadini stranieri, accertando la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale ex art. 19, comma 1.1 del Testo Unico Immigrazione.

    Le decisioni, rese nelle cause iscritte ai numeri 14052/2023, 12984/2023 e 17192/2023, confermano l’approccio consolidato secondo cui il radicamento personale, familiare e lavorativo costituisce limite insuperabile al potere espulsivo dello Stato, in assenza di gravi motivi di ordine pubblico.

    Integrazione effettiva, non formale

    Il primo caso riguarda un cittadino nigeriano giunto in Italia nel 2006, con contratto a tempo indeterminato in un’azienda alimentare e con una moglie incinta regolarmente presente sul territorio. Il Tribunale ha sottolineato l’effettivo inserimento sociale, il possesso di titoli di studio e il radicamento economico. Di fronte a un simile percorso, l’allontanamento avrebbe costituito una lesione ingiustificata dei diritti fondamentali, protetti anche dall’art. 8 CEDU.

    Il secondo ricorso è stato proposto da un cittadino egiziano arrivato nel 2022, già impiegato in modo stabile in Italia. Anche in questo caso, il Collegio ha riconosciuto la solidità del percorso integrativo, pur a fronte di un soggiorno relativamente recente.

    La chiave è nella continuità lavorativa, nell’assenza di precedenti penali e nella rete sociale creata nel contesto italiano.

    Il terzo provvedimento ha infine accolto la domanda di una cittadina marocchina residente in Italia dal 2019, che ha partecipato alla sanatoria del 2020, ha intrapreso percorsi lavorativi regolari ed è oggi autonoma sul piano abitativo ed economico.

    Il Tribunale ha ribadito che la sua vita privata e familiare è ormai interamente costruita in Italia e che l’espulsione sarebbe contraria agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano.

    Una protezione “sociale”, non “umanitaria”

    La protezione speciale, così come delineata dal decreto legge n. 130/2020 e valorizzata dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 24413/2021, non è una misura discrezionale, ma un vero e proprio diritto soggettivo, attivabile ogniqualvolta vi sia un rischio di compromissione della vita privata e familiare del migrante, in caso di espulsione.

    È una forma di tutela che guarda non al pericolo nel Paese d’origine, ma all’integrazione in Italia.

    Non sostituisce lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, ma si affianca ad esse, offrendo una risposta giuridica a situazioni consolidate e radicate nella nostra società.

    Integrazione o Reimmigrazione: la linea è tracciata

    Queste decisioni rafforzano il cuore del paradigma che sostengo: integrazione o reimmigrazione.

    Chi ha dimostrato con i fatti di voler diventare parte attiva della comunità italiana – attraverso il lavoro, l’educazione, il rispetto delle regole – deve poter restare, senza incertezza o precarietà giuridica.

    Ma è altrettanto vero che chi rifiuta consapevolmente di integrarsi, chi rimane ai margini per scelta, chi viola sistematicamente le regole del vivere civile, non può vantare un diritto assoluto alla permanenza.

    La protezione non può essere concessa per inerzia, né tollerata come pretesto. Deve essere il premio di un percorso, non una concessione automatica.

    Conclusione

    L’Europa non può più permettersi politiche migratorie senza criteri. Il diritto deve riconoscere chi si è radicato e al contempo prevedere forme ordinate di reimmigrazione per chi non ha alcun legame concreto con il territorio.

    Il Tribunale di Bologna, con queste pronunce, ha scelto la strada del diritto responsabile.

    È tempo che anche la politica europea raccolga il segnale e costruisca norme che garantiscano integrazione reale, sicurezza giuridica e rispetto reciproco.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36), in materia di Migrazione e Asilo

  • L’Italia guida il cambiamento europeo sull’immigrazione: Integrazione obbligatoria o ReImmigrazione

    Articolo a cura dell’Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36), in materia di Migrazione e Asilo

    Nel contesto europeo attuale, attraversato da tensioni sociali e crisi di fiducia nella capacità delle istituzioni di gestire i flussi migratori in modo ordinato ed equo, il recente mini‑summit sull’immigrazione promosso dall’Italia a Bruxelles il 26 giugno 2025 rappresenta un passaggio politico di rilievo. La partecipazione di numerosi Stati membri, tra cui Germania, Grecia, Polonia e Svezia, ha confermato che esiste una convergenza crescente su un’esigenza comune: porre fine alla gestione frammentaria e inefficace del fenomeno migratorio, in favore di un approccio unitario, pragmatico e rispettoso dei diritti.

    In tale scenario, l’Italia non si limita più al ruolo di Paese di primo ingresso, ma si propone come capofila nella costruzione di una nuova visione europea dell’immigrazione. Il Ministro Foti ha rilanciato una linea d’azione fondata sulla cooperazione rafforzata tra Stati membri, sul dialogo strutturato con i Paesi di origine e transito e, soprattutto, sulla necessità di regolare con fermezza l’ingresso e la permanenza sul territorio dell’Unione. Questo cambio di passo non può tuttavia esaurirsi in dichiarazioni politiche o tavoli negoziali, ma deve tradursi in un paradigma operativo e giuridico coerente con i principi dell’Unione e con le esigenze concrete dei cittadini europei.

    In questa prospettiva, il concetto che propongo da tempo – “integrazione o reimmigrazione” – trova finalmente un terreno di legittimazione. È un principio che si fonda su una premessa semplice e rigorosa: lo straniero che viene accolto ha il dovere, non la facoltà, di integrarsi nella comunità che lo ospita. Non si può più tollerare una permanenza indifferenziata e indeterminata sul territorio nazionale per soggetti che, anche dopo anni, non abbiano dato alcuna prova di inserimento, di rispetto delle regole, di partecipazione sociale o di autonomia economica.

    Questo non significa negare i diritti fondamentali. Significa condizionarli, in misura progressiva e proporzionata, al rispetto di un patto sociale implicito: da una parte lo Stato garantisce protezione, servizi e dignità; dall’altra il migrante deve impegnarsi a diventare parte attiva del tessuto collettivo. L’integrazione non può essere più solo un auspicio o una variabile culturale: deve essere un obbligo giuridico, valutabile in base a parametri oggettivi e, in caso di inadempienza strutturale e reiterata, deve poter legittimare misure di reimmigrazione assistita. Non parliamo di espulsioni arbitrarie, ma di un rientro ordinato, concordato, umanamente dignitoso per chi, pur avendo avuto l’opportunità, ha scelto di restare ai margini.

    L’Italia può e deve portare questa visione al centro del dibattito normativo europeo. La sua posizione geopolitica, il suo peso nei flussi mediterranei, la sua esperienza amministrativa e il suo recente protagonismo diplomatico la rendono il soggetto più adatto a farsi promotore di un’iniziativa legislativa che definisca in modo chiaro e vincolante cosa significhi oggi “integrazione” e come debba essere gestito chi, legittimamente, rifiuta di integrarsi.

    Non si tratta di introdurre un sistema punitivo, ma di rendere il diritto coerente con il principio di responsabilità. Il migrante non è solo portatore di bisogni, ma anche di doveri. E le politiche migratorie non possono continuare ad alimentarsi di emergenze, automatismi e illusioni umanitarie. È giunto il momento di fissare regole chiare, esigibili, eque, per tutti. La reimmigrazione, in questa visione, non è uno stigma, ma un atto razionale e necessario per restituire credibilità al sistema e stabilità alle nostre società.

    Il vertice del 26 giugno è stato un segnale. Ora serve un progetto. E il paradigma “integrazione o reimmigrazione” può essere la base normativa e culturale su cui costruirlo.

  • GERMANIA: STOP AI RICONGIUNGIMENTI IN ASSENZA DI INTEGRAZIONRE


    Di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

    La Germania cambia passo sull’immigrazione.

    E lo fa nel segno della coerenza giuridica e della responsabilità politica.

    Con l’approvazione da parte del Bundestag della sospensione per due anni dei ricongiungimenti familiari per chi ha ottenuto la protezione sussidiaria, accompagnata dallo stop ai finanziamenti statali alle ONG impegnate nei soccorsi in mare, il governo guidato da Friedrich Merz lancia un messaggio netto, che merita attenzione e rispetto.

    La misura non deve essere letta come un atto punitivo, né tantomeno come una chiusura indiscriminata.

    Al contrario, si tratta di uno strumento equilibrato e razionale per ristabilire un ordine di priorità e offrire un tempo adeguato per l’effettiva integrazione a chi ha ottenuto una protezione che, ricordiamolo, è diversa per natura e finalità dalla protezione complementare.

    La protezione sussidiaria, infatti, ha carattere residuale e temporaneo: è pensata per tutelare persone esposte a gravi rischi nel paese d’origine, ma non puo’ garantire automaticamente un radicamento familiare e sociale in Europa.

    Il principio è semplice e giusto: prima di estendere benefici durevoli come il ricongiungimento, è necessario valutare se vi sia stato un autentico percorso di inserimento sociale, linguistico, culturale e lavorativo.

    Questa sospensione, dunque, non nega un diritto, ma dà tempo al sistema e agli individui per verificare se vi siano i presupposti per una permanenza stabile e responsabile.

    L’Italia e l’Europa intera devono prendere esempio. Serve una riflessione profonda che porti ad abbandonare la logica emergenziale e assistenzialista, per costruire un modello migratorio fondato sull’equilibrio tra doveri e diritti.

    È tempo di introdurre il nuovo paradigma dell’“Integrazione o ReImmigrazione”, che si fonda su tre pilastri:

    1. Chi si integra può restare: attraverso lavoro regolare, conoscenza della lingua, adesione ai valori costituzionali.


    2. Chi non si integra, deve rientrare nel proprio Paese: con dignità, ma anche con fermezza.

    La solidarietà non può più essere disgiunta dal principio di responsabilità. L’immigrazione non è un diritto incondizionato, ma un processo che deve essere gestito nel rispetto delle comunità ospitanti e dei principi dello Stato di diritto.

    Non si tratta di respingere, ma di ristabilire un equilibrio.

    Di dire finalmente che l’accoglienza non è un automatismo, ma un percorso che deve avere un senso, una direzione e – se necessario – anche un termine.

  • GERMANIA: STOP AI RICONGIUNGIMENTI IN ASSENZA DI INTEGRAZIONRE


    Di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

    La Germania cambia passo sull’immigrazione.

    E lo fa nel segno della coerenza giuridica e della responsabilità politica.

    Con l’approvazione da parte del Bundestag della sospensione per due anni dei ricongiungimenti familiari per chi ha ottenuto la protezione sussidiaria, accompagnata dallo stop ai finanziamenti statali alle ONG impegnate nei soccorsi in mare, il governo guidato da Friedrich Merz lancia un messaggio netto, che merita attenzione e rispetto.

    La misura non deve essere letta come un atto punitivo, né tantomeno come una chiusura indiscriminata.

    Al contrario, si tratta di uno strumento equilibrato e razionale per ristabilire un ordine di priorità e offrire un tempo adeguato per l’effettiva integrazione a chi ha ottenuto una protezione che, ricordiamolo, è diversa per natura e finalità dalla protezione complementare.

    La protezione sussidiaria, infatti, ha carattere residuale e temporaneo: è pensata per tutelare persone esposte a gravi rischi nel paese d’origine, ma non puo’ garantire automaticamente un radicamento familiare e sociale in Europa.

    Il principio è semplice e giusto: prima di estendere benefici durevoli come il ricongiungimento, è necessario valutare se vi sia stato un autentico percorso di inserimento sociale, linguistico, culturale e lavorativo.

    Questa sospensione, dunque, non nega un diritto, ma dà tempo al sistema e agli individui per verificare se vi siano i presupposti per una permanenza stabile e responsabile.

    L’Italia e l’Europa intera devono prendere esempio. Serve una riflessione profonda che porti ad abbandonare la logica emergenziale e assistenzialista, per costruire un modello migratorio fondato sull’equilibrio tra doveri e diritti.

    È tempo di introdurre il nuovo paradigma dell’“Integrazione o ReImmigrazione”, che si fonda su tre pilastri:

    1. Chi si integra può restare: attraverso lavoro regolare, conoscenza della lingua, adesione ai valori costituzionali.


    2. Chi non si integra, deve rientrare nel proprio Paese: con dignità, ma anche con fermezza.

    La solidarietà non può più essere disgiunta dal principio di responsabilità. L’immigrazione non è un diritto incondizionato, ma un processo che deve essere gestito nel rispetto delle comunità ospitanti e dei principi dello Stato di diritto.

    Non si tratta di respingere, ma di ristabilire un equilibrio.

    Di dire finalmente che l’accoglienza non è un automatismo, ma un percorso che deve avere un senso, una direzione e – se necessario – anche un termine.

  • Perché la detenzione amministrativa è (ancora) necessaria nel nuovo paradigma della Reimmigrazione

    Mentre alcune organizzazioni – come le ACLI Nazionali nel webinar del 27 giugno 2025 “In viaggio con Marco Cavallo” – propongono l’abolizione totale dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) e della detenzione amministrativa, è necessario affermare con chiarezza una posizione differente: la detenzione amministrativa non solo è legittima, ma resta uno strumento indispensabile in un sistema migratorio fondato sul binomio integrazione o Reimmigrazione.

    Uno strumento di necessità, non di abuso

    La detenzione amministrativa degli stranieri irregolari o non cooperanti con le procedure di rimpatrio non va letta come una forma di repressione, ma come un passaggio tecnico e giuridico per dare efficacia concreta ai provvedimenti di allontanamento. Senza una misura coercitiva legittima, lo Stato rimane paralizzato nella sua funzione essenziale di garantire l’ordine giuridico, i confini e la sovranità decisionale.

    Il rimpatrio volontario è sempre auspicabile, ma la Reimmigrazione richiede anche strumenti obbligatori, quando l’interesse pubblico prevale.

    Diritti sì, ma senza negare la funzione dello Stato

    Chi propone l’abolizione dei CPR dimentica che la detenzione amministrativa è prevista e regolata sia dalla normativa nazionale (art. 14 del D.Lgs. 286/1998) sia da quella europea (Direttiva 2008/115/CE – c.d. “direttiva rimpatri”).

    La Corte di Giustizia dell’UE ha più volte affermato la legittimità della detenzione ai fini del rimpatrio, purché proporzionata, motivata, soggetta a controllo giurisdizionale e rispettosa dei diritti fondamentali.

    Nel paradigma della Reimmigrazione, questa detenzione assume un nuovo significato: è l’estrema ratio per chi, dopo aver avuto accesso a misure di integrazione, ha rifiutato il percorso, ha commesso gravi violazioni o ha mostrato inadempienza strutturale. In tali casi, non è lo Stato a fallire, ma lo straniero a sottrarsi al patto d’integrazione.

    Il giusto processo come pilastro di garanzia

    Chi teme derive autoritarie dimentica che la detenzione amministrativa è già sottoposta a controllo giurisdizionale del Giudice di Pace entro 48 ore, con possibilità di difesa e assistenza legale.

    Una riflessione da chi ha vissuto anche “dall’altra parte”

    Parlo con cognizione di causa: ho collaborato per anni come consulente per il Patronato ACLI Immigrazione di Bologna, dove ho assistito centinaia di stranieri nei percorsi di regolarizzazione, ricongiungimento familiare e protezione. Proprio questa esperienza diretta mi ha insegnato che il sistema può funzionare solo se è chiaro, esigente e giusto per tutti, anche nei momenti più delicati come il trattenimento amministrativo.

    Conclusione: non abolire, ma riformare in chiave responsabilizzante

    La proposta di abolizione tout court dei CPR e della detenzione amministrativa è ideologica e scollegata dalla realtà.

    Non tiene conto dell’urgenza di riordinare il sistema migratorio italiano secondo criteri di giustizia sociale, sicurezza e responsabilità.

    Nel paradigma della Reimmigrazione, la detenzione amministrativa resta uno strumento necessario e legittimo, da mantenere e riformare, per garantire l’effettività delle decisioni di rimpatrio e per tutelare un’immigrazione fondata sull’impegno e il rispetto reciproco.

    L’alternativa è l’impunità amministrativa e l’illegalità strutturale.

    Chi rifiuta l’integrazione, deve poter essere riaccompagnato nel proprio Paese – anche coattivamente – nel rispetto delle regole e della dignità umana.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Il dossier riservato sull’immigrazione: come i servizi segreti italiani percepiscono il fenomeno

    Di Fabio Loscerbo – Avvocato in materia di immigrazione e lobbista registrato (EU Transparency Register ID: 280782895721-36)

    Sicurezza e immigrazione: un legame spesso sottovalutato

    In Italia, il dibattito sull’immigrazione è troppo spesso limitato a una contrapposizione tra accoglienza e respingimento, senza approfondire il livello più delicato: quello della sicurezza nazionale. Eppure, i servizi di intelligence italiani lo monitorano costantemente, come confermato dalle relazioni annuali del DIS, dalle audizioni davanti al COPASIR (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) e dai dossier dell’AISI (Agenzia per la Sicurezza Interna).


    Le relazioni del DIS: cosa dicono

    Le relazioni pubbliche annuali disponibili sul sito del Sistema di Informazione per la Sicurezza della Repubblica (SISR) segnalano regolarmente che i flussi migratori irregolari rappresentano un ambito di attenzione strategica. In particolare, viene evidenziato:

    • l’infiltrazione di reti criminali internazionali nelle rotte migratorie (Libia, Tunisia, Balcani);
    • la strumentalizzazione del fenomeno migratorio da parte di organizzazioni terroristiche;
    • il fallimento dei meccanismi di integrazione, che può creare sacche di marginalità sociale vulnerabili alla radicalizzazione.

    Fonte:
    Relazione annuale sulla politica dell’informazione per la sicurezza 2023
    https://www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2024/03/Relazione-2023-SICUREZZA.pdf


    Audizioni riservate e conferme politiche

    Nel corso delle audizioni tenute dal COPASIR, i vertici dell’intelligence hanno confermato che le autorità italiane sono in possesso di informazioni dettagliate sulla natura dei flussi, inclusi:

    • i canali di reclutamento;
    • i costi pagati dai migranti alle organizzazioni criminali;
    • le modalità di sfruttamento nei Paesi di arrivo.

    Fonte:
    Resoconto stenografico audizione del Direttore generale del DIS, Ambasciatore Belloni – 18 aprile 2023
    https://www.camera.it/leg19/126?tab=&leg=19&idDocumento=35&sede=&tipo=


    Quando l’integrazione fallisce, la sicurezza vacilla

    L’elemento più preoccupante – e meno discusso – è quello che collega integrazione e sicurezza. I servizi segreti italiani non parlano solo di “sbarchi” o “numeri”: segnalano la debolezza strutturale delle politiche di inserimento sociale, con particolare riferimento:

    • alla mancata conoscenza della lingua italiana;
    • al rifiuto di norme e valori costituzionali;
    • alla creazione di comunità chiuse e impermeabili.

    In questo contesto, il paradigma proposto (“Integrazione o ReImmigrazione“) non è solo una strategia di inclusione, ma una risposta sistemica ai rischi segnalati dalle istituzioni.


    ReImmigrazione: da principio sociale a strumento di prevenzione

    Il modello “Integrazione o ReImmigrazione” propone un approccio in linea con quanto emerso nelle relazioni istituzionali: chi vuole restare deve dimostrarlo concretamente, attraverso:

    • l’acquisizione della lingua italiana;
    • la frequenza di percorsi formativi e civici obbligatori;
    • l’adesione esplicita ai principi della Costituzione;
    • la piena osservanza delle leggi italiane.

    La permanenza sul territorio non può essere garantita a chi rifiuta ogni forma di integrazione o rappresenta un fattore destabilizzante per l’ordine pubblico e la sicurezza collettiva.


    Conclusione

    I servizi di intelligence italiani non indicano mai soluzioni politiche: si limitano ad analizzare i rischi. Ma il messaggio è chiaro: senza una regolazione rigorosa dell’integrazione, l’immigrazione si trasforma in un fattore di insicurezza.

    Integrazione o ReImmigrazione” rappresenta oggi l’unica proposta coerente con queste analisi, offrendo una risposta giuridica, civile e democratica a una sfida complessa.

  • Germania: quando i migranti diventano anti-migranti. Il paradosso che svela l’integrazione fallita

    Di Fabio Loscerbo – Avvocato immigrazionista e lobbista registrato (EU Transparency Register ID: 280782895721-36)

    In Germania, il dibattito sull’immigrazione ha prodotto negli ultimi anni un fenomeno paradossale. Secondo quanto riportato da Deutsche Welle (“Why one in four immigrants leaves Germany”, 2024) e WeaveNews (“Refugees for Remigration? When immigrants echo the far-right”, giugno 2024), alcuni cittadini con background migratorio hanno manifestato posizioni favorevoli a politiche di remigrazione selettiva, ovvero il ritorno nei Paesi di origine per determinati gruppi di stranieri.

    Si tratta, a tutti gli effetti, di migranti o figli di migranti che assumono posizioni ostili verso altri migranti, invocando la necessità di tutelare la società tedesca da ulteriori arrivi o di distinguersi da coloro che – a loro dire – non si integrano.


    Assimilazione reattiva: il riflesso di un’integrazione debole

    Queste prese di posizione non rappresentano il risultato di un’integrazione riuscita, bensì il sintomo di un’integrazione incompiuta, superficiale o formalmente acquisita ma non sostanziale. In molti casi, la spinta a “prendere le distanze” dagli altri stranieri deriva da:

    • isolamento sociale,
    • percezione di marginalità culturale,
    • frustrazione esistenziale o lavorativa,
    • bisogno di legittimazione pubblica e differenziazione individuale.

    Il risultato è una forma di assimilazione che non radica la persona nei valori democratici, ma la porta ad assumere posizioni iperadattive, reattive o talvolta ideologicamente radicali.


    La proposta ReImmigrazione: un percorso obbligato, non facoltativo

    La soluzione a questa distorsione non può essere né il silenzio né la tolleranza passiva.
    Il paradigma della ReImmigrazione offre una prospettiva diversa:
    non selettiva sul piano culturale, ma rigorosa sul piano della condotta civica.

    Chi desidera restare in Europa, e in particolare in Italia, ha il dovere giuridico e morale di integrarsi.
    L’integrazione è un obbligo, non una scelta discrezionale.

    ReImmigrazione significa:

    • apprendere la lingua nazionale,
    • rispettare le leggi del Paese ospitante,
    • aderire ai principi costituzionali,
    • dimostrare concretamente volontà di inserimento.

    Non è esclusione. È condizionalità civile.


    Una lezione per l’Italia e per l’Europa

    Ciò che oggi accade in Germania deve essere colto come un campanello d’allarme per tutta l’Unione Europea. Anche in Italia emergono, seppur episodicamente, segnali di disorientamento identitario tra giovani di seconda generazione o migranti integrati solo nominalmente.

    Il vuoto normativo e culturale lasciato da un modello di accoglienza privo di vincoli ha generato una coesistenza instabile, fondata più su tolleranza passiva che su reale condivisione.
    È il momento di ricostruire un paradigma fondato su regole certe, percorsi chiari, responsabilità reciproche.

    Solo la ReImmigrazione può offrire questo quadro:
    una via giuridica, politica e culturale per ripensare la cittadinanza non come concessione automatica, ma come esito meritato di un percorso autentico d’integrazione.

  • ReImmigrazione vs. Remigration: A Civil Response to a Radical Problem

    Authored by Fabio Loscerbo, Immigration Lawyer and Registered Lobbyist (EU Transparency Register ID: 280782895721-36)

    In today’s European debate on immigration, dominated by extremes, clarity is urgently needed.
    On one side, we find defenders of unconditional multiculturalism. On the other, rising voices call for mass remigration, often based on ethnic or religious criteria.

    But there is a third path — one that is civil, legal, and coherent with the rule of law:
    It is called ReImmigrazione.


    What is ReImmigrazione?

    ReImmigrazione is a political and legal paradigm built on a simple and democratic principle:

    Those who want to stay must integrate. Those who refuse integration must return to their country of origin.

    Integration is not a cultural preference. It is a legal, linguistic, and civic obligation.
    ReImmigrazione holds that residency and citizenship rights must be conditional upon the effective fulfillment of integration duties.


    Why Remigration is not the solution

    The concept of remigration, promoted by identitarian movements in France, Germany and elsewhere, is often based on collective logic: removing entire groups of immigrants, regardless of their individual behavior.

    This approach:

    • violates constitutional principles,
    • makes no distinction between integrated and non-integrated individuals,
    • and fuels social division and polarization.

    Mass deportation is not only unrealistic — it is also morally and legally unacceptable in democratic societies.


    ReImmigrazione: A legal, not ideological model

    Unlike remigration, ReImmigrazione is not based on ethnicity or religion. It relies on verifiable legal criteria:

    • Proven knowledge of the national language
    • Respect for the Constitution and the law
    • Genuine employment and tax contribution
    • Demonstrated social participation

    Those who reject these duties cannot demand the rights that come with long-term residence.
    ReImmigrazione therefore proposes a return — assisted, legal, and proportionate — for those who refuse or fail to integrate.


    Conclusion: Rights must come with responsibilities

    ReImmigrazione is not extremism.
    It is a proposal of balance, responsibility, and democratic consistency, one that defends national cohesion and republican values.
    It is the civil response to a real problem.

    Because where integration fails, ReImmigrazione is the only alternative.

  • Quando governava Berlusconi: l’unico tentativo normativo serio di regolare l’integrazione

    di Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

    Nel dibattito sull’immigrazione in Italia, è frequente – e spesso fondato – criticare i governi del passato per aver adottato politiche emergenziali, securitarie e frammentate.

    Tuttavia, un dato storico e normativo rilevante sfugge spesso al racconto pubblico: è stato proprio durante il IV Governo Berlusconi (2008–2011) che venne introdotto l’unico strumento giuridico nazionale strutturato con intento sistemico di regolamentare l’integrazione degli stranieri.

    Parlo del cosiddetto Accordo di Integrazione, approvato con D.P.R. 179/2011, su proposta del Ministro dell’Interno Roberto Maroni.


    L’Accordo di Integrazione: struttura e principi

    Introdotto ai sensi dell’art. 4-bis del Testo Unico Immigrazione (D.lgs. 286/1998), l’Accordo di Integrazione è entrato in vigore nel 2012.
    Ha rappresentato – almeno sulla carta – il primo tentativo di condizionare il soggiorno legale non soltanto alla disponibilità di un lavoro o a requisiti economici, ma alla dimostrazione di un impegno culturale e civico.

    Cosa prevede:

    • Sistema a crediti: ogni straniero con più di 16 anni che chiede un permesso superiore a 12 mesi riceve 16 punti iniziali.
    • I punti possono essere persi o guadagnati in base a:
      • livello di conoscenza della lingua italiana (A2),
      • conoscenza della Costituzione e delle istituzioni pubbliche,
      • adempimento di obblighi scolastici per i figli minori,
      • rispetto della legalità e del contratto di soggiorno.
    • Se al termine del periodo di validità i crediti sono insufficienti, può essere negato il rinnovo del permesso di soggiorno.

    Riferimento normativo:
    Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 179


    Un atto di governo contraddittorio, ma rilevante

    Il dato più interessante, anche dal punto di vista politico, è che questo strumento fu varato da un esecutivo politicamente orientato a contenere e limitare l’immigrazione, non certo a favorirne l’integrazione indiscriminata.

    Eppure, proprio quel governo seppe cogliere un’intuizione giuridica fondamentale: non può esserci convivenza duratura senza un quadro normativo che ponga obblighi positivi di integrazione a carico dello straniero.

    L’Accordo di Integrazione, pur con limiti operativi evidenti (scarsa applicazione, monitoraggio carente, formazione inadeguata), è l’unica misura normativa che ha provato a rendere l’integrazione una condizione giuridica verificabile, e non una generica intenzione.


    Un passo verso il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”

    Chi oggi promuove, come noi, il paradigma Integrazione o ReImmigrazione, non può ignorare che le premesse giuridiche sono già contenute proprio in quel decreto del 2011.
    Il modello a crediti, la centralità della lingua e della legalità, la valutazione progressiva della permanenza sul territorio, rappresentano elementi oggi più attuali che mai.

    La differenza è che, rispetto a ieri, oggi occorre:

    • estendere l’Accordo di Integrazione a tutti gli stranieri, non solo ai nuovi arrivati;
    • renderlo vincolante anche per l’accesso alla cittadinanza;
    • prevedere la revoca del soggiorno per chi non rispetta gli obblighi formativi, civici e comportamentali;
    • introdurre un contratto di integrazione multilivello, con obblighi chiari per il migrante.

    Conclusione

    Sotto il IV Governo Berlusconi è stato introdotto il solo strumento giuridico con una visione strutturata dell’integrazione.
    Nonostante il contesto politico restrittivo, si è affermato un principio chiave: restare in Italia non può dipendere solo dal lavoro o dal tempo, ma da un impegno civico misurabile.

    Oggi, a distanza di più di un decennio, è tempo di riattualizzare quell’impianto: non più integrazione facoltativa, ma integrazione come condizione giuridica della permanenza.
    In assenza di ciò, la via deve essere chiara: ReImmigrazione, volontaria o legalmente assistita.

  • La moschea di Bologna e l’imam di TikTok: il caso che svela l’integrazione fallita

    di Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

    Il 22 giugno 2025 il quotidiano Il Tempo ha pubblicato un articolo dal titolo: “Omar Mamdouh, l’imam su TikTok: ‘L’Islam arriverà in tutte le case’”.
    Il pezzo descrive la figura di Omar Mamdouh, noto influencer religioso attivo sui social con il nome “Il vero Islam”, recentemente nominato imam della moschea IQRAA di Bologna. Si tratta di un episodio che va ben oltre il folklore religioso e che impone una riflessione seria sullo stato dell’integrazione in Italia.

    📎 Fonte: Il Tempo, 22/06/2025
    https://www.iltempo.it/attualita/2025/06/22/news/omar-mamdouh-il-vero-islam-tiktok-imam-maranza-fatwa-religione-moschea-bologna-43092568/


    “L’Islam arriverà in tutte le case”: una predicazione incompatibile con la convivenza

    Dalle dichiarazioni riportate nell’articolo emergono affermazioni sconcertanti: Mamdouh invita i musulmani a non celebrare il Natale, definito “una bestemmia”, auspica una separazione netta tra uomini e donne, rigetta apertamente il femminismo e afferma che “l’Islam arriverà in tutte le case”.

    Si tratta di enunciati che non possono essere ridotti a semplici opinioni religiose. Veicolati in modo sistematico e autorevole – ora anche attraverso una posizione di guida spirituale all’interno di una moschea – questi contenuti potrebbero assumere rilevanza penale, soprattutto se letti alla luce degli articoli 604-bis e 604-ter c.p., che puniscono l’istigazione all’odio e alla discriminazione per motivi religiosi.

    Anche qualora non integrassero pienamente una fattispecie delittuosa, resta il fatto che sono profondamente incompatibili con i principi fondamentali della Costituzione italiana, tra cui la parità di genere, la libertà religiosa, la laicità dello Stato, la dignità della persona.


    Dalla cittadinanza alla disgregazione: quando lo Stato rinuncia a integrare

    Il caso della moschea IQRAA di Bologna dimostra quanto sia fragile l’attuale modello di “integrazione italiana”: si fonda spesso su un’idea puramente documentale, in cui si acquisisce un titolo giuridico – permesso di soggiorno o cittadinanza – senza alcuna verifica sostanziale della condivisione dei valori comuni.

    Ma il problema non riguarda solo i “nuovi cittadini”: riguarda tutti gli stranieri presenti sul territorio nazionale, anche regolarmente soggiornanti, che non abbiano mai intrapreso un percorso di integrazione effettiva.
    E mentre la Repubblica abdica al proprio compito educativo, nascono figure che – dall’interno delle nostre istituzioni religiose – diffondono visioni parallele, etnicamente chiuse, contrarie al patto costituzionale.


    Il paradigma necessario: Integrazione o ReImmigrazione

    Per questo, su reimmigrazione.com da tempo proponiamo una riforma radicale: Integrazione o ReImmigrazione.
    Chi vuole risiedere stabilmente in Italia, cittadino o straniero che sia, deve dimostrare concretamente:

    1. Inserimento lavorativo legale e continuativo
    2. Adeguata conoscenza linguistica e culturale
    3. Adesione sostanziale ai principi costituzionali

    Non si tratta di discriminare, ma di ristabilire la reciprocità dei doveri, condizione imprescindibile per la convivenza in una società democratica.


    Cosa deve fare lo Stato

    Il caso Mamdouh impone scelte chiare. Tra le misure necessarie:

    • Introduzione di contratti di integrazione vincolanti, anche per i rappresentanti religiosi;
    • Controlli sui contenuti diffusi nei luoghi di culto, soprattutto quando entrano in contrasto con l’ordinamento;
    • Trasparenza obbligatoria dei finanziamenti esteri alle strutture religiose;
    • Previsioni di revoca della cittadinanza o del permesso di soggiorno in caso di gravi violazioni dell’ordine costituzionale.

    Conclusione: la convivenza non è automatica

    L’imam di TikTok rappresenta una sfida concreta alla coesione nazionale. Non perché professa una fede diversa, ma perché la interpreta in senso assolutista, ideologico, separativo.
    L’Italia ha il dovere di garantire la libertà religiosa, ma anche quello – non meno importante – di impedire che tale libertà venga usata per minare le basi della Repubblica.

    Se l’integrazione viene ignorata, resta una sola via per tutelare la comunità: la reimmigrazione volontaria o assistita di chi rifiuta di condividere i valori comuni.

  • Non è xenofobia, è stanchezza sociale. Il vero problema è l’integrazione assente

    di Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

    Il 13 giugno 2025, sulle colonne di la Repubblica, Luigi Manconi firma un articolo dal titolo emblematico: “Cittadinanza, come ci siamo svegliati xenofobi”. Un testo che, come spesso accade nei circoli intellettuali progressisti, attribuisce alla società italiana un rigurgito di razzismo di massa, insinuando che l’opinione pubblica sia affetta da un crescente rifiuto ideologico dello straniero. Il bersaglio è chiaro: chiunque sollevi dubbi o critiche sulla gestione dell’immigrazione viene tacciato di intolleranza.

    Ma la realtà, purtroppo per Manconi, è ben più concreta e difficile da liquidare con etichette morali.


    Il nodo non è la cittadinanza, ma ciò che (non) avviene dopo

    L’assunto implicito dell’articolo è che il riconoscimento formale della cittadinanza sia sufficiente a determinare l’integrazione. Ma ciò che si osserva quotidianamente sul territorio italiano è esattamente l’opposto: il passaggio formale non corrisponde a un cambiamento sostanziale nei comportamenti, nei valori condivisi e nel senso di appartenenza alla società.

    Il vero nodo – ignorato nell’articolo – è che i “nuovi cittadini” sono troppo spesso tali solo su carta. Non parlano la lingua in modo adeguato, non si riconoscono nei valori fondanti della Repubblica, non accettano i principi costituzionali su cui si basa la convivenza democratica. La cittadinanza, senza un percorso serio e verificabile di integrazione civica e culturale, rischia di diventare un atto puramente burocratico, svuotato di senso.


    L’integrazione non è un’opzione: è un dovere

    Il paradigma che proponiamo su reimmigrazione.comIntegrazione o ReImmigrazione – parte da un principio semplice ma cruciale: il diritto a rimanere deve poggiare sul dovere di integrarsi.
    Tre sono i pilastri imprescindibili:

    1. Lavoro legale e continuativo
    2. Conoscenza effettiva della lingua italiana
    3. Rispetto delle regole dello Stato e dei suoi valori

    Senza questi tre elementi, nessun modello di cittadinanza è sostenibile. Al contrario, la permanenza si trasforma in disgregazione sociale, con riflessi che colpiscono soprattutto le fasce più fragili della popolazione italiana: periferie, scuole, sanità pubblica, sicurezza urbana.


    La verità che molti non vogliono dire: la coesistenza è fragile

    I cittadini italiani non si sono “svegliati xenofobi”. Si sono svegliati consapevoli. Dopo trent’anni di accoglienza indiscriminata e integrazione lasciata al caso, iniziano a cogliere i costi di una scelta politica sbagliata: insediamenti etnici, criminalità di strada, ghettizzazione culturale, radicalizzazione.

    Quando il vicino non saluta, il compagno di banco non capisce la lingua, e l’operatore che assiste un genitore anziano non rispetta le norme igieniche o contrattuali, non si genera razzismo, ma esasperazione.


    Conclusione: una cittadinanza fragile produce una società instabile

    È tempo di uscire dalla logica colpevolizzante che vorrebbe ridurre ogni critica all’integrazione a una manifestazione di odio.
    La vera responsabilità è costruire un modello in cui la cittadinanza sia un punto d’arrivo, non un punto di partenza. Dove chi vuole restare, deve dimostrare di voler condividere diritti e doveri. Dove l’accoglienza non è una resa ma una scommessa bilaterale.

    Integrazione o ReImmigrazione: questa è la scelta civile, non ideologica.
    Non è xenofobia. È richiesta di coerenza democratica.

  • Il diritto a restare passa dall’integrazione: l’esempio della Protezione Complementare

    di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato UE n. 280782895721-36

    Nel sistema attuale della protezione complementare si afferma un principio ormai giuridicamente consolidato: il diritto a restare in Italia è subordinato a un percorso individuale di integrazione, che deve essere dimostrato dal richiedente e sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria.

    Non si tratta più di una mera dichiarazione d’intenti né di un automatismo fondato sulla durata della presenza nel territorio nazionale.

    Al contrario, l’accesso alla protezione complementare richiede una verifica concreta, puntuale, approfondita, del livello effettivo di radicamento personale, familiare e sociale raggiunto dal cittadino straniero. Chi non dimostra di voler appartenere realmente alla comunità nazionale, non può rimanere.

    La giurisprudenza recente: quattro casi, quattro nazionalità, un solo principio

    Le sentenze emesse nel 2025 dal Tribunale Ordinario di Bologna – Sezione Immigrazione costituiscono un importante corpus giurisprudenziale utile a comprendere la direzione in cui si sta muovendo il diritto dell’immigrazione, e confermano in modo uniforme che l’integrazione costituisce condizione giuridica per l’accesso alla protezione.

    • Sentenza R.G. 15841/2023, emessa il 19 maggio 2025: riguarda un cittadino peruviano, il quale ha ottenuto il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso per protezione complementare in forza di un radicamento lavorativo e personale ormai consolidato. Il tribunale richiama il principio secondo cui la comparazione tra la situazione in Italia e nel paese d’origine va condotta tenendo conto dell’effettivo inserimento sociale, non solo del lavoro.
    • Sentenza R.G. 12303/2023, emessa il 12 maggio 2025: riconosciuta la protezione complementare a un cittadino marocchino sulla base della sua permanenza pluriennale e del percorso di integrazione svolto, sebbene inizialmente sottovalutato dalla Commissione territoriale. Il giudice sottolinea che non è sufficiente la presenza fisica, ma serve una prova concreta della partecipazione alla vita sociale.
    • Sentenza R.G. 8632/2024, emessa il 28 gennaio 2025: il tribunale riconosce la protezione a un cittadino tunisino con lavoro stabile, buona conoscenza della lingua italiana, e un tessuto relazionale basato su frequentazioni e responsabilità familiari. La sua condizione personale viene valutata in relazione al rischio di sradicamento e deprivazione del diritto alla vita privata e familiare garantito dall’art. 8 CEDU.
    • Sentenza R.G. 8636/2023, emessa il 16 aprile 2025: riguarda una donna albanese, madre e coniuge, priva di occupazione ma stabilmente presente sul territorio e pienamente inserita nella rete scolastica e domestica familiare. Il tribunale valorizza la “vita familiare effettiva” come criterio autonomo e sufficiente, confermando l’orientamento per cui la protezione può essere concessa anche in assenza di requisiti lavorativi se ricorrono condizioni familiari significative.

    La protezione complementare come verifica giudiziale dell’integrazione

    A emergere da queste decisioni è l’immagine di un giudice della protezione che assume il ruolo di valutatore dell’integrazione individuale. Non si limita ad accertare la presenza di elementi formali o l’assenza di pericoli nel paese d’origine: verifica, caso per caso, il grado di inserimento reale del richiedente nel contesto sociale italiano.

    Tale verifica coinvolge:

    • la lingua parlata e compresa;
    • il lavoro svolto (anche irregolare, se sintomatico di autonomia);
    • le relazioni personali e familiari in Italia;
    • la durata della permanenza;
    • la assenza di legami significativi col Paese d’origine.

    Il parametro giuridico non è più l’astratta vulnerabilità, ma la concreta incompatibilità tra l’integrazione raggiunta e l’imposizione di un rimpatrio.

    Integrazione o ReImmigrazione: la nuova frontiera normativa

    La giurisprudenza mostra chiaramente che non si può più rimanere in Italia senza integrarsi. Questo implica una ridefinizione del concetto stesso di “diritto al soggiorno”.
    Non è più sufficiente vivere nel territorio nazionale: è necessario appartenere, secondo criteri valutabili, a una comunità sociale e giuridica.

    È in questa prospettiva che si colloca il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”:

    • chi percorre volontariamente un cammino di integrazione ha titolo per restare;
    • chi non lo fa o lo rifiuta, deve affrontare un rientro assistito o obbligato nel Paese d’origine.

    Non si tratta di discriminazione, ma di coerenza costituzionale: i diritti possono essere garantiti solo a chi rispetta i doveri fondamentali di partecipazione alla vita comune. L’integrazione non è un’astrazione: è un dovere civile.

    Conclusioni: un diritto condizionato alla responsabilità

    Le sentenze analizzate dimostrano che la protezione complementare, lungi dall’essere una scorciatoia amministrativa, è diventata lo spazio giuridico in cui si valuta la volontà concreta di integrarsi.
    Chi si inserisce, partecipa, rispetta le regole e costruisce legami ha diritto alla protezione.
    Chi non lo fa, non può più invocare una permanenza incondizionata.

  • Trent’anni di (non) integrazione: una lettura alternativa al 30° Rapporto ISMU

    di Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato ID UE 280782895721-36

    Nel marzo 2025 è stato pubblicato il 30° Rapporto sulle Migrazioni della Fondazione ISMU (https://www.ismu.org/convegno-presentazione-30-rapporto-sulle-migrazioni-2024/) , un documento di straordinaria importanza per comprendere l’evoluzione dei flussi migratori e delle politiche di integrazione in Italia.

    Il Rapporto fotografa, con l’abituale rigore statistico, la realtà di un Paese che, da terra di emigrazione, è diventato polo attrattivo per milioni di cittadini stranieri. Ma proprio quella stessa fotografia impone una riflessione critica: a trent’anni dall’inizio dell’“immigrazione di massa”, possiamo davvero parlare di un’integrazione riuscita?

    La risposta, se si osserva la realtà senza paraocchi ideologici, è negativa.

    I dati confermano una presenza radicata e duratura, ma l’integrazione effettiva è rimasta spesso un miraggio.

    Ecco perché oggi è necessario proporre un nuovo paradigma: non più l’integrazione come promessa indefinita e ideologica, ma l’integrazione come dovere misurabile, il cui mancato assolvimento comporta l’alternativa: la ReImmigrazione.

    Il mito della crescita “strutturale”

    Secondo ISMU, al 1° gennaio 2024 gli stranieri regolarmente presenti in Italia erano circa 5,8 milioni, con un aumento netto di oltre 150.000 unità in un solo anno.

    L’analisi evidenzia che l’immigrazione è ormai strutturale, stabile, radicata nei territori.

    Ma ciò che il rapporto non approfondisce – o solo marginalmente – è il grado effettivo di integrazione culturale, civica e linguistica di queste persone.

    Perché se è vero che molti lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola, è altrettanto vero che:

    • l’abbandono scolastico tra i minori stranieri è superiore alla media nazionale;
    • i reati in alcune fasce giovanili immigrate sono in crescita;
    • l’uso della lingua italiana in famiglia è spesso marginale anche dopo molti anni;
    • la partecipazione civica, politica e associativa resta bassa.

    L’errore è stato confondere la permanenza con l’integrazione.

    Una lunga storia di rimozione

    Dal 1990 in poi, ogni governo ha affrontato il tema dell’integrazione come emergenza burocratica, non come strategia culturale e istituzionale.

    La legge Turco-Napolitano (L. 40/1998) aveva introdotto il “contratto di soggiorno” e le prime forme di programmazione, ma mancava di obblighi reali. La successiva legge Bossi-Fini (L. 189/2002) ha irrigidito gli ingressi, ma senza dare un senso compiuto all’integrazione. Il “Pacchetto sicurezza” del 2009 e il D.L. 130/2020 (governo Conte II) hanno solo sfiorato il tema.

    Nel frattempo, si è preferito delegare l’integrazione al mondo del volontariato, delle scuole, dei sindaci, delle associazioni. Una politica assente che ha permesso una narrazione tossica: chiunque soggiorni stabilmente sarebbe “integrato” per definizione.

    Ma è proprio questa concezione che ha fallito. È il momento di riscrivere le regole del gioco.

    L’alternativa: integrazione come dovere, ReImmigrazione come conseguenza

    La proposta che porto avanti – anche come avvocato esperto in diritto dell’immigrazione e come lobbista registrato presso l’UE – è chiara: non può esserci integrazione senza criteri oggettivi e obblighi misurabili. L’integrazione non è un’opzione, ma un dovere civile e personale.

    Tre i pilastri:

    1. Lingua: obbligo di raggiungere un livello B1 in italiano entro un triennio.
    2. Lavoro: attività lavorativa regolare e continuativa o comprovata autosufficienza.
    3. Legalità e civismo: nessuna condanna penale, partecipazione ad attività formative o civiche.

    Chi non raggiunge questi obiettivi, nonostante il sostegno pubblico, non può rimanere. Non per punizione, ma per coerenza. Questo è il senso della ReImmigrazione: un ritorno assistito, dignitoso, volontario o accompagnato, per chi rifiuta di integrarsi o ne è strutturalmente incapace.

    Una proposta per riformare l’approccio nazionale

    A trent’anni dal primo Rapporto ISMU, è giunto il tempo di:

    • modificare l’Accordo di Integrazione (art. 4-bis T.U. Immigrazione), rendendolo vincolante e valutato annualmente;
    • creare un Registro nazionale digitale degli adempimenti integrativi, interoperabile con Inps, Inail, Anagrafe e Ministero dell’Interno;
    • prevedere meccanismi di ReImmigrazione, fondati su accordi bilaterali con i Paesi d’origine, mirati e controllati.

    Questo non è estremismo. È buon senso giuridico. È responsabilità democratica. È la sola alternativa a una convivenza imposta e disfunzionale, che produce marginalità, criminalità e insicurezza.

    Conclusione

    Il Rapporto ISMU racconta trent’anni di numeri. Ma l’Italia non ha bisogno solo di dati. Ha bisogno di regole chiare, di responsabilità condivise, di una visione che metta al centro la coerenza tra diritti e doveri.

    L’integrazione può funzionare solo se diventa condizione per la permanenza, non automatismo. E per chi non rispetta questa condizione, deve esistere una via d’uscita ordinata, umana, ma obbligatoria: la ReImmigrazione.