Autore: Fabio Loscerbo

  • Seconde generazioni e nuove radicalità: le avvisaglie di un problema che chiede un nuovo paradigma

    Negli ultimi mesi, in diverse città italiane, si sono moltiplicati episodi di protesta, disordini o scontri urbani in cui sono stati coinvolti anche giovani di seconda generazione: ragazzi nati o cresciuti in Italia, figli di genitori stranieri, formalmente integrati nel tessuto sociale, ma ancora in bilico tra appartenenza e marginalità.

    Dietro a questi episodi — spesso liquidati come semplice “devianza giovanile” o “problema di ordine pubblico” — si intravede invece qualcosa di più profondo: un vuoto identitario e sociale che rischia di trasformarsi, nel tempo, in terreno fertile per derive radicali o anarchiche. È il segnale che l’Italia, come l’Europa, ha bisogno di un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione.

    Le avvisaglie: quando la protesta diventa linguaggio dell’esclusione

    A Bologna, lo scorso inverno, i giornali locali hanno parlato di “guerriglia in piazza” e di stranieri di seconda generazione tra i protagonisti degli scontri.

    “Così gli stranieri di seconda generazione hanno ‘preso’ la piazza”, titolava Il Resto del Carlino nel gennaio 2025, descrivendo tensioni tra giovani e forze dell’ordine nel centro della città.
    Fonte: https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/caos-guerriglia-stranieri-seconda-generazione-cpo2yy9t

    A Milano, un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano dell’agosto 2025 ha raccolto testimonianze di ragazzi con genitori stranieri che si sentono “eternamente sospesi”:

    “Non odio l’Italia, odio essere guardato come un criminale”, racconta un giovane intervistato, denunciando discriminazioni e disillusione rispetto alle istituzioni.
    Fonte: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/08/31/non-odio-litalia-odio-essere-guardato-come-un-criminale-viaggio-tra-le-seconde-generazioni-di-milano-il-procuratore-per-loro-e-piu-dura-si-scontrano-con-la-disillusione/8096824

    Sempre a Bologna, La Nuova Bussola Quotidiana ha messo in luce la commistione tra attivismo politico e tensioni etniche, citando la partecipazione di “immigrati islamici di seconda generazione” accanto a frange anarchiche e movimenti pro-palestinesi:
    Fonte: https://lanuovabq.it/it/scontri-a-bologna-il-7-ottobre-dei-giovani-palestinesi-ditalia

    Questi fatti — al di là delle semplificazioni mediatiche — delineano un quadro di giovani cresciuti in Italia ma rimasti ai margini del progetto d’integrazione.

    Non più immigrati, ma non ancora cittadini pienamente riconosciuti. È in questo limbo che nascono identità “reattive”, dove la protesta diventa risposta alla frustrazione.

    L’attivismo che si sposta verso i margini

    Un’analisi pubblicata dalla rivista Il Mulino (“Giovani di seconda generazione e attivismo”) evidenzia come molti ragazzi con background migratorio trovino nella partecipazione politica e sociale uno spazio per affermarsi, ma anche quanto la mancanza di riconoscimento possa spingerli verso forme di militanza più radicale o antagonista.
    Fonte: https://www.rivistailmulino.it/a/giovani-di-seconda-generazione-e-attivismo

    La transizione dall’impegno civile alla contestazione estrema non è inevitabile, ma può emergere quando la società non offre strumenti di ascolto, rappresentanza e opportunità reali. È qui che si innestano le influenze dei movimenti anarchici contemporanei, spesso presenti nei centri sociali o negli ambienti digitali, dove l’antiautoritarismo si fonde con la rabbia generazionale.

    Uno studio accademico recente — Anarchia nel Terzo Millennio (Università del Piemonte Orientale, 2024) — mostra come l’anarchismo moderno si sia trasformato in un insieme di pratiche fluide: mutualismo, azione diretta, ambientalismo, digital activism.
    Fonte:https://unitesi.uniupo.it/handle/20.500.14238/3081

    In questo quadro, le seconde generazioni trovano spesso un linguaggio politico che le accoglie più dell’istituzione pubblica.

    Ma quando la protesta sostituisce l’integrazione, la frattura sociale diventa inevitabile.

    Un problema di domani che si costruisce oggi

    Quello che oggi si manifesta in piazza o sui social come protesta generazionale, domani può trasformarsi in un problema di sicurezza e coesione sociale.
    Le cause non sono solo economiche o culturali: sono istituzionali.
    Per anni, l’Italia ha gestito l’immigrazione come un fenomeno da “contenere” o “tollerare”, senza mai elaborare una visione chiara su cosa significhi davvero integrare.

    Quando l’integrazione diventa un concetto astratto, privo di obblighi reciproci e di percorsi verificabili, il rischio è quello di creare una generazione sospesa, priva di appartenenza e di fiducia.

    Non si tratta di criminalizzare la protesta, ma di comprendere che il disagio delle seconde generazioni è il prodotto di un modello incompiuto.

    Serve un nuovo paradigma: Integrazione o ReImmigrazione

    Il futuro richiede una scelta netta: non basta più gestire l’immigrazione, bisogna governare l’integrazione.
    Il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” propone un approccio chiaro: chi si integra — lavorando, studiando, rispettando le regole e partecipando alla vita sociale — deve poter restare e diventare parte piena della comunità nazionale; chi invece rifiuta l’integrazione e sceglie di collocarsi ai margini deve rientrare nel proprio paese, secondo un principio di responsabilità reciproca tra individuo e Stato.

    È un principio che non nasce da pulsioni punitive, ma da una logica di equilibrio: senza regole condivise e verificabili, non può esistere né cittadinanza né coesione.
    L’integrazione deve essere obbligatoria e misurabile; la permanenza sul territorio non può prescindere da un reale percorso di inclusione.

    Solo così si eviterà che le tensioni di oggi — nate nei quartieri, nelle scuole o nelle manifestazioni — diventino domani una frattura sociale irreversibile.

    Conclusione

    Le cronache di Bologna e Milano, le analisi de Il Mulino e le ricerche accademiche mostrano un segnale inequivocabile: non siamo di fronte a un’emergenza, ma a una tendenza.
    Se l’Italia continuerà a ignorarla, la protesta delle seconde generazioni diventerà la prova del fallimento dell’integrazione.
    Serve un nuovo paradigma, oggi, per affrontare ciò che domani potrebbe esplodere: integrazione o ReImmigrazione.

    Fonti citate (link completi):

    1. Il Resto del Carlino – “Caos e guerriglia a Bologna: così gli stranieri di seconda generazione hanno ‘preso’ la piazza”:
      https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/caos-guerriglia-stranieri-seconda-generazione-cpo2yy9t
    2. Il Fatto Quotidiano – “Non odio l’Italia, odio essere guardato come un criminale”:
      https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/08/31/non-odio-litalia-odio-essere-guardato-come-un-criminale-viaggio-tra-le-seconde-generazioni-di-milano-il-procuratore-per-loro-e-piu-dura-si-scontrano-con-la-disillusione/8096824
    3. La Nuova Bussola Quotidiana – “Scontri a Bologna, il 7 ottobre dei Giovani Palestinesi d’Italia”:
      https://lanuovabq.it/it/scontri-a-bologna-il-7-ottobre-dei-giovani-palestinesi-ditalia
    4. Il Mulino – “Giovani di seconda generazione e attivismo”:
      https://www.rivistailmulino.it/a/giovani-di-seconda-generazione-e-attivismo
    5. Università del Piemonte Orientale – “Anarchia nel Terzo Millennio” (Tesi di laurea, 2024):
      https://unitesi.uniupo.it/handle/20.500.14238/3081

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Dalla Cechia un segnale all’Europa: il ritorno di Babiš e la fine dell’integrazione incondizionata

    Il recente esito delle elezioni parlamentari nella Repubblica Ceca segna un punto di svolta nel dibattito europeo sull’immigrazione.
    Il partito ANO, guidato da Andrej Babiš, ha vinto con circa il 34,7 per cento dei voti, superando nettamente la coalizione liberal-conservatrice Spolu del premier uscente Petr Fiala.
    La vittoria non basta per una maggioranza autonoma, ma è sufficiente a cambiare l’agenda politica: il tema dell’immigrazione torna al centro del discorso pubblico e rischia di ridefinire il rapporto tra Praga e Bruxelles.

    Dal “no alle quote” al rifiuto del Patto UE sulla migrazione

    Babiš ha definito il Nuovo Patto europeo su migrazione e asilo “il più grande tradimento della Cechia”.
    Dietro lo slogan, un messaggio chiaro: riaffermare la sovranità nazionale nelle politiche migratorie, rifiutando qualsiasi automatismo europeo di redistribuzione dei richiedenti asilo.
    La posizione di ANO si inserisce in una linea ormai consolidata, che comprende l’opposizione alle quote obbligatorie di ricollocamento, la richiesta di espulsioni più rapide per chi si trova illegalmente sul territorio, il rafforzamento dei controlli alle frontiere e la netta distinzione tra rifugiati reali e migranti economici.
    Non è un linguaggio nuovo, ma cambia il contesto: dopo anni di crisi, anche in Europa centrale cresce l’idea che l’integrazione non possa essere incondizionata, né politicamente né giuridicamente.

    Remigrazione o ReImmigrazione?

    Nel linguaggio politico ceco non ricorre il termine “remigrazione”, oggi diffuso in altri paesi europei per indicare il rimpatrio forzato dei migranti.
    ANO parla piuttosto di “rimpatri efficaci” e di “zero rifugiati”.
    Non si tratta però di una dottrina coerente: più che un progetto politico, è una reazione.
    E qui si apre il punto di contatto con il paradigma che da tempo propongo: “Integrazione o ReImmigrazione”.
    La ReImmigrazione non è espulsione di massa né negazione dei diritti fondamentali.
    È l’esito logico di un percorso che valuta, caso per caso, se l’integrazione sia effettivamente realizzata.
    Chi rispetta le regole, lavora, studia e partecipa alla vita civile trova nel sistema uno spazio stabile.
    Chi rifiuta di integrarsi o nega i valori di convivenza rientra nel proprio paese come conseguenza naturale del fallimento integrativo, non come punizione ideologica.

    L’Europa davanti a un bivio

    La posizione di Babiš non può essere liquidata come nazionalismo sterile.
    Riflette una crisi strutturale del modello di integrazione europeo, fondato per anni su presupposti meramente assistenziali.
    Oggi, anche in paesi di lunga tradizione laica e liberale, emerge la consapevolezza che il diritto a restare in Europa deve fondarsi su un dovere di integrazione.
    È questo il punto in cui la ReImmigrazione si differenzia dalla Remigrazione: non un ritorno punitivo, ma un sistema di responsabilità reciproca tra Stato ospitante e straniero accolto.

    Verso un nuovo paradigma

    La Repubblica Ceca offre così un laboratorio politico interessante: un Paese che, pur non avendo mai subito forti pressioni migratorie, ha costruito un’intera campagna elettorale sul tema dell’identità nazionale.
    Ma la vera sfida non sarà chiudere le frontiere: sarà definire criteri oggettivi di integrazione e, conseguentemente, di permanenza.
    Solo così si potrà superare la Remigrazione come slogan politico e realizzare finalmente la ReImmigrazione come modello giuridico e culturale fondato sulla responsabilità, la reciprocità e l’effettiva integrazione.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Il Ministero dell’Interno verso un nuovo paradigma: la Commissione Territoriale e la differenza tra Remigrazione e ReImmigrazione

    Un recente provvedimento della Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Verona – Sezione Vicenza, adottato nell’agosto 2025, segna un passaggio di grande rilievo nel dibattito sulle politiche migratorie italiane.
    Un organo amministrativo del Ministero dell’Interno ha riconosciuto che l’integrazione effettiva di un cittadino straniero in Italia può costituire di per sé una ragione di tutela ai sensi dell’art. 19, commi 1 e 1.1, del D.Lgs. 286/1998 e dell’art. 8 CEDU.

    Non si tratta di una decisione giudiziaria, ma di un atto amministrativo che riflette una presa di posizione dello Stato attraverso la propria catena gerarchica. È il segno di un’evoluzione culturale e istituzionale: l’integrazione come valore giuridico e non solo sociale.

    L’integrazione come presupposto della protezione complementare

    Nel caso esaminato, la Commissione ha respinto la domanda di protezione internazionale, ma ha ritenuto che l’allontanamento del richiedente avrebbe comportato una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, disponendo la trasmissione degli atti alla Questura per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione complementare.

    La motivazione è chiara e coerente con la normativa vigente: il soggetto ha dimostrato un radicamento effettivo in Italia, un’attività lavorativa stabile, un reddito adeguato e un percorso di integrazione solido.
    Secondo la Commissione, in tali casi il rimpatrio non può essere imposto senza ledere diritti fondamentali tutelati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

    Questa interpretazione rafforza l’idea che la protezione complementare costituisce uno strumento di valorizzazione dei percorsi di integrazione, ponendosi come ponte tra l’asilo politico e il diritto al soggiorno fondato sull’inserimento sociale e lavorativo.

    Il rilievo istituzionale

    Il valore del provvedimento è accresciuto dal suo contesto.
    La Commissione Territoriale, infatti, è un organo amministrativo del Ministero dell’Interno, presieduto da un funzionario prefettizio e dunque direttamente inserito nella gerarchia ministeriale.
    Questo significa che non si tratta di una decisione imposta dall’autorità giudiziaria, ma di una presa di posizione interna alla stessa amministrazione dello Stato, che riconosce la forza giuridica dell’integrazione.

    È un segnale politico e amministrativo di grande importanza: l’integrazione non è più un fattore accessorio, ma un criterio oggettivo di valutazione della legittimità del soggiorno.

    ReImmigrazione e Remigrazione: due modelli a confronto

    Il provvedimento offre anche un’occasione preziosa per distinguere tra ReImmigrazione e Remigrazione, termini spesso confusi nel dibattito pubblico.

    • La Remigrazione, come oggi viene evocata in alcune proposte di carattere politico-ideologico, tende a configurarsi come un ritorno forzato o generalizzato, basato su criteri etnici, culturali o economici.
      È una visione che rischia di confliggere con i principi costituzionali e con il rispetto della dignità individuale.
    • La ReImmigrazione, invece, è un modello giuridico fondato sul principio di responsabilità reciproca: chi si integra e contribuisce alla vita sociale e lavorativa del Paese deve essere tutelato; chi non lo fa, è destinato al rientro nel Paese d’origine come conseguenza naturale e necessaria della mancata integrazione, indipendentemente dalla sua volontà.
      In questo senso, la ReImmigrazione non è una misura punitiva, ma l’esito coerente di un percorso non compiuto, che restituisce equilibrio e razionalità al sistema.

    La decisione della Commissione di Vicenza incarna la logica dell’“Integrazione o ReImmigrazione”: tutela per chi si è radicato, rientro per chi non ha costruito un legame reale con la comunità ospitante.

    Verso una nuova politica migratoria

    Il provvedimento dimostra che una nuova politica migratoria è possibile: equilibrata, coerente e rispettosa dei valori costituzionali.
    L’integrazione diventa il vero discrimine tra la permanenza e il rientro, tra la stabilità e la mobilità.
    Lo Stato riconosce e premia chi partecipa al patto di cittadinanza sostanziale, mentre prevede il rientro per chi non si integra, in coerenza con il principio di legalità e di responsabilità sociale.

    È in questo equilibrio che si realizza il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: una politica che supera tanto l’assistenzialismo quanto la rigidità della Remigrazione, fondandosi su una logica di diritto, dovere e reciprocità.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Giappone e ReImmigrazione: la politica migratoria secondo Sanae Takaichi

    La recente dichiarazione di Sanae Takaichi, candidata alla guida del Partito Liberal Democratico giapponese, ha suscitato un acceso dibattito internazionale.
    Nel suo intervento, Takaichi ha affermato che il Giappone dovrebbe «riconsiderare politiche che permettano l’ingresso di persone con culture e background completamente diversi», richiamando la necessità di tutelare la coesione sociale e l’identità nazionale.
    Queste parole, pronunciate in un Paese dove l’immigrazione è ancora rigidamente controllata, assumono un significato profondo: il Giappone si trova oggi di fronte a una sfida demografica senza precedenti, ma rifiuta di rispondere ad essa attraverso un’apertura indiscriminata.
    La linea di Takaichi è chiara: accogliere chi si integra, non chi pretende di cambiare la società che lo ospita.
    Dietro questa visione vi sono tre principi che meritano attenzione anche nel dibattito europeo.

    1. Identità come bene collettivo

    Per Takaichi, la nazione non è soltanto una struttura politica o economica, ma un insieme di valori, regole e tradizioni condivise.
    Aprire le frontiere a culture radicalmente diverse senza un percorso di integrazione reale rischia di alterare l’equilibrio che tiene unita la comunità.
    Il suo messaggio, sintetizzato nella frase “il Giappone deve restare il Giappone”, non è un appello all’isolamento, ma un richiamo alla responsabilità culturale.


    2. Immigrazione funzionale e temporanea


    Il modello giapponese accoglie lavoratori stranieri solo in funzione delle esigenze produttive e con contratti a termine.
    L’obiettivo non è costruire una società multiculturale, ma mantenere un equilibrio che permetta di rispondere alle necessità del mercato del lavoro senza compromettere la coesione interna.
    Chi si integra, lavora e rispetta le regole è benvenuto; chi non lo fa deve tornare nel proprio Paese. È una logica di integrazione o reimmigrazione, espressa in termini chiari e coerenti.


    3. Sovranità e sicurezza nazionale


    L’immigrazione, secondo Takaichi, non può essere un automatismo morale, ma una scelta politica sovrana.
    Solo lo Stato può decidere chi entra, per quanto tempo e a quali condizioni.
    Questo principio di controllo, più che una chiusura, rappresenta una forma di autodeterminazione nazionale , un modello che in Europa è spesso frainteso o delegittimato in nome di un universalismo astratto.

    Il caso giapponese mostra come un Paese possa difendere la propria identità senza rinunciare alla modernità.
    In fondo, il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione” non è altro che l’adattamento europeo di questa filosofia: accogliere chi dimostra di voler far parte della comunità, ma non mantenere indefinitamente chi ne rifiuta i valori.
    In un mondo che confonde accoglienza con resa culturale, il Giappone — e con esso la visione di Sanae Takaichi — offre un esempio concreto di realismo politico e rispetto dell’identità nazionale.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea — ID 280782895721-36

  • Dai disordini di Bologna al fallimento dell’integrazione: il caso dei maranza e la necessità di un nuovo paradigma

    I recenti disordini di Bologna, esplosi durante il corteo pro Gaza, hanno offerto un’immagine chiara e inquietante: accanto a studenti, collettivi e gruppi antagonisti, le cronache hanno segnalato la presenza dei “maranza”, protagonisti di lanci di petardi, devastazioni urbane e scontri con le forze dell’ordine. Non si tratta di una coincidenza lessicale o di un’etichetta giornalistica passeggera: è un campanello d’allarme sociale che conferma il fallimento dell’attuale modello di integrazione.

    Maranza: un fenomeno giovanile che diventa politico

    Il termine “maranza” è entrato da tempo nel linguaggio comune per indicare gruppi giovanili delle periferie urbane, spesso coinvolti in risse, microcriminalità e vandalismi. Non si tratta di un movimento organizzato, ma di un fenomeno sociale che raccoglie giovani accomunati da stili di vita, codici culturali e atteggiamenti di sfida.

    Ciò che desta preoccupazione è che questi giovani iniziano a comparire nei cortei e nelle manifestazioni politiche. La loro presenza non porta contenuti ideologici, ma comportamenti violenti che trasformano proteste in guerriglia. È accaduto a Bologna e rischia di ripetersi altrove.

    Le seconde generazioni e l’integrazione incompiuta

    Molti dei cosiddetti “maranza” appartengono alle seconde generazioni, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia. Qui sta il nodo: non parliamo di nuovi arrivati, ma di giovani che hanno attraversato scuole, istituzioni e percorsi educativi italiani. Nonostante ciò, non si riconoscono nel tessuto sociale e scelgono percorsi di devianza.

    Questo è il segno di una integrazione incompiuta. Il sistema ha garantito presenze formali (permessi, cittadinanza, scuola), ma non ha costruito appartenenza reale. Il risultato è un vuoto identitario che si traduce in conflitto: non pienamente italiani, non legati al Paese d’origine, trovano nel gruppo di strada la loro unica comunità.

    Non a caso avevo già affrontato questo nodo in due articoli precedenti:

    Il fenomeno maranza: denuncia di un sistema allo sbando e necessità di un nuovo paradigma” (8 giugno 2025), dove segnalavo la deriva sociale insita nel fenomeno;

    Integrazione mancata: il vero nodo delle seconde generazioni” (26 agosto 2025), in cui sottolineavo la responsabilità delle istituzioni nel non aver costruito percorsi di reale inclusione.


    Gli eventi di Bologna confermano oggi, con forza ancora maggiore, quanto quelle analisi fossero attuali: il problema delle seconde generazioni non può più essere ignorato.

    Rischi futuri: dalla devianza al conflitto sociale

    La partecipazione dei “maranza” ai disordini non è un dettaglio marginale.
    Se questo segmento giovanile, privo di radici e di riconoscimento, si salda con movimenti antagonisti o proteste politiche, il rischio è di assistere a una nuova stagione di conflittualità urbana permanente. Le città diventerebbero il teatro di una frustrazione collettiva che non trova canali istituzionali, ma solo la violenza come forma di visibilità.

    Integrare o ReImmigrare: un bivio necessario

    Di fronte a questo scenario, occorre abbandonare le illusioni. L’integrazione non può restare un concetto astratto o una promessa incompiuta: deve diventare un obbligo concreto e verificabile.

    Tre sono i pilastri irrinunciabili:

    Lavoro regolare come strumento di dignità e responsabilità.

    Lingua italiana come fondamento di appartenenza.

    Rispetto delle regole come base della convivenza.


    Chi non aderisce a questo patto deve essere ricondotto al principio della ReImmigrazione. Non è accettabile mantenere all’interno della comunità nazionale sacche di devianza che rifiutano di integrarsi.

    Conclusione

    I disordini di Bologna dimostrano che i “maranza” non sono folklore giovanile, ma il volto di un’integrazione fallita. Già nei miei articoli precedenti avevo denunciato i rischi legati al fenomeno e alle seconde generazioni: ora la realtà li ha resi concreti e sotto gli occhi di tutti. Ignorare il problema significherebbe condannare le nostre città a una crescente instabilità sociale.
    È il momento di scegliere: integrazione vera e obbligatoria, o ReImmigrazione.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Remigrazione e ReImmigrazione: due concetti diversi, un confronto necessario


    Negli ultimi mesi il termine “remigrazione” è entrato nel dibattito politico italiano. A Livorno, il generale Roberto Vannacci interverrà in un evento che riprende il contestato summit di Gallarate, scatenando polemiche e contrapposizioni. Da un lato, la sinistra descrive la remigrazione come un piano di deportazioni di massa; dall’altro, alcuni ambienti della destra radicale la esaltano come soluzione definitiva all’immigrazione.

    In questa formulazione estrema, la remigrazione – intesa come rientro forzato indiscriminato di tutti gli stranieri, regolari o meno – è chiaramente incostituzionale e irrealizzabile. Non solo vìola i principi della nostra Carta, ma anche le convenzioni internazionali ratificate dall’Italia.

    Diverso è il concetto di ReImmigrazione. Non si tratta di deportazioni di massa, ma di un nuovo paradigma costituzionalmente compatibile: il diritto a rimanere in Italia non è automatico, ma condizionato a un effettivo percorso di integrazione fondato su tre pilastri essenziali – lavoro, lingua, rispetto delle regole. Chi non si integra, sceglie da sé la strada del ritorno.

    Esempi di questo paradigma già esistono nel nostro ordinamento.

    La conversione del permesso da minore età a lavoro: per ottenere il titolo di soggiorno, il giovane straniero deve ricevere il parere positivo del Comitato minori, che valuta il percorso di integrazione. In assenza, non c’è conversione e il giovane deve lasciare l’Italia.

    La protezione complementare: la prassi prevede che il passaporto del richiedente resti trattenuto presso la Questura. Questo non è un dettaglio burocratico, ma il segno tangibile che il diritto al soggiorno è legato a una verifica costante dell’integrazione. Se tale percorso non si realizza, il ritorno nel Paese d’origine diventa la conseguenza naturale.


    Questi istituti dimostrano che il nostro ordinamento già conosce una forma di “integrazione o ReImmigrazione”. Non si tratta di deportazioni arbitrarie, ma di meccanismi giuridici che bilanciano diritti e doveri, accoglienza e responsabilità.

    Per questo, pur marcando la distanza dalla “remigrazione” intesa come slogan politico e irrealizzabile progetto di espulsioni di massa, è necessario aprire un confronto serio. L’Italia e l’Europa non possono restare ostaggio di estremismi e semplificazioni: serve un modello che riconosca i diritti fondamentali ma pretenda, al tempo stesso, l’integrazione come condizione imprescindibile.

    La ReImmigrazione è questa via: un paradigma che rende compatibile l’accoglienza con la Costituzione, trasformando la permanenza in un atto di responsabilità reciproca.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato UE (ID 280782895721-36)

  • Libertà contro tradizioni: il caso di Rimini e la scelta tra integrazione o ReImmigrazione


    La vicenda accaduta a Rimini, riportata dal Corriere di Bologna, non è solo una storia di cronaca nera, ma un caso emblematico che mette in luce tutte le fragilità del modello attuale di convivenza.

    Una ragazza di origine bangladese, cresciuta in Italia fin dall’età di sei anni, frequentante le scuole superiori, è stata costretta dai propri genitori ad accettare un matrimonio combinato in patria. Una scelta imposta con pressioni e maltrattamenti, che ha portato all’arresto dei genitori e alla messa in protezione della giovane.

    Siamo di fronte a un reato gravissimo, previsto dall’articolo 558 bis del codice penale, che punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque costringa una persona a contrarre matrimonio o unione civile. Ma soprattutto siamo davanti a un fallimento evidente del processo di integrazione: dopo quindici anni in Italia, questa famiglia non ha interiorizzato i principi fondamentali della nostra convivenza civile, a partire dalla libertà personale e dall’uguaglianza tra uomo e donna.

    La domanda è inevitabile: cosa significa “vivere in Italia” se non si accetta il rispetto delle regole che fondano la nostra società? È proprio qui che entra in gioco il paradigma di integrazione o ReImmigrazione. L’Italia, come ogni democrazia europea, non può limitarsi a garantire diritti senza pretendere il rispetto di doveri: chi non si integra, chi rifiuta i valori costituzionali e continua a imporre pratiche tribali e violente, non può restare.

    Il caso di Rimini ci dice che il tempo della neutralità è finito. Accogliere non significa chiudere gli occhi di fronte a tradizioni incompatibili con la libertà individuale. Accogliere significa chiedere a chi arriva e a chi vive in Italia un atto di responsabilità: rispettare la legge, rispettare le donne, rispettare la dignità di ogni persona.

    Se questo non accade, l’unica strada è la ReImmigrazione. Perché la libertà delle nostre figlie, cresciute nelle scuole italiane, vale più di qualsiasi tradizione che odora di sopraffazione.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato UE (ID 280782895721-36)

  • La conversione del permesso da minore età a lavoro: un esempio di “integrazione o ReImmigrazione” già nel nostro ordinamento

    Quando si parla di ReImmigrazione, qualcuno potrebbe pensare a un concetto nuovo o ancora tutto da inventare.

    In realtà, il nostro ordinamento già conosce una forma concreta di questo paradigma: la conversione del permesso di soggiorno rilasciato ai minori stranieri in un permesso per lavoro al compimento della maggiore età.

    La disciplina, infatti, prevede che il giovane non possa semplicemente trasformare automaticamente il proprio titolo di soggiorno.

    Per ottenere la conversione, è necessario un parere favorevole del Comitato per i minori stranieri presso il Ministero del Lavoro. Questo parere non si limita a un controllo burocratico, ma ha al centro una valutazione sostanziale: viene esaminato il percorso di integrazione del ragazzo in Italia.

    Scuola, formazione, eventuali esperienze lavorative, rispetto delle regole: tutti questi elementi servono a capire se il giovane abbia realmente costruito un percorso di vita nel nostro Paese.

    In caso positivo, la conversione è concessa e il ragazzo può continuare a vivere in Italia da adulto, entrando regolarmente nel mondo del lavoro.

    In caso contrario, il permesso non viene convertito e la conseguenza naturale è il rientro nel Paese di origine.

    Questa procedura dimostra come il principio “integrazione o ReImmigrazione” non sia un’invenzione ideologica, ma un meccanismo già previsto dalla legge.

    L’ordinamento riconosce il diritto a rimanere non come fatto automatico, ma come risultato di un’integrazione effettiva.

    È una regola che tutela la società, responsabilizza i giovani migranti e stabilisce un equilibrio tra accoglienza e necessità di coesione.

    Il futuro delle politiche migratorie potrebbe partire proprio da qui: estendere un modello già esistente, basato sull’integrazione concreta come condizione per restare, e sulla ReImmigrazione come esito naturale quando quell’integrazione manca.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Remigrazione: tra slogan ideologici e la necessità di un nuovo paradigma (Integrazione o ReImmigrazione)

    Negli ultimi mesi, soprattutto a partire da settembre 2025, la parola “remigrazione” è entrata con forza nel dibattito pubblico, diventando virale su X (ex Twitter) e comparendo in striscioni affissi in molte città italiane.

    A livello comunicativo, è un termine che colpisce: evoca l’idea di un ritorno immediato dei migranti nei Paesi d’origine, viene presentato come soluzione semplice a problemi complessi e si carica di un forte valore identitario.

    Ma proprio la sua forza retorica rivela anche il suo limite. La “remigrazione” così come viene proposta in rete e nei manifesti non trova alcun riscontro nel diritto positivo né nelle dinamiche reali dei flussi migratori.

    Non esiste in Italia, né in Europa, un istituto che consenta un rimpatrio collettivo su base etnica o culturale: si tratterebbe di misure incompatibili con la Costituzione, con le Convenzioni internazionali e con i principi fondamentali dell’Unione Europea. Espulsioni, respingimenti e rimpatri volontari assistiti sono gli strumenti concreti a disposizione, e si applicano caso per caso, non in maniera indiscriminata.

    Di fronte a questa distanza tra slogan e realtà, rischiamo di alimentare un dibattito sterile, che produce consenso immediato ma non soluzioni.

    È qui che diventa necessario un cambio di paradigma. Il modello che propongo, “Integrazione o ReImmigrazione”, nasce proprio dall’esigenza di dare una cornice giuridica e politica praticabile a quella che altrimenti resta una parola vuota.

    “Integrazione” significa riconoscere che chi arriva in Italia deve rispettare un patto chiaro con la società che lo accoglie. Non basta vivere sul territorio: occorre inserirsi nel tessuto sociale, imparare la lingua, lavorare regolarmente, rispettare le regole comuni. Sono tre pilastri semplici e concreti – lavoro, lingua, legalità – che definiscono l’appartenenza e la possibilità di costruire un futuro stabile.

    “ReImmigrazione” diventa, allora, non un sinonimo di deportazione, ma la conseguenza per chi rifiuta quel patto o lo viola gravemente. Chi non lavora e non cerca di integrarsi, chi non rispetta la legge, chi rifiuta di imparare la lingua del Paese ospitante non può pretendere di godere indefinitamente degli stessi diritti di chi invece si impegna. Il ritorno nel Paese d’origine non è una misura punitiva ideologica, ma il naturale risultato del mancato rispetto di un dovere reciproco.

    Un laboratorio di questo paradigma esiste già e lo troviamo nella protezione complementare. Questa forma di tutela riconosce che l’integrazione sociale, lavorativa e relazionale raggiunta dal richiedente in Italia rende sproporzionato e lesivo un rimpatrio forzato. Non si guarda soltanto al rischio oggettivo nel Paese d’origine, ma soprattutto al radicamento concreto della persona nel tessuto sociale italiano. In altre parole, il legislatore ha già aperto una strada: se sei integrato, hai diritto a restare; se non lo sei, viene meno la ragione della protezione.

    Questo approccio consente di superare due rischi opposti: da un lato l’illusione che basti uno slogan come “remigrazione” per affrontare un fenomeno globale e complesso; dall’altro l’idea che l’accoglienza possa essere illimitata e indipendente dai comportamenti individuali.

    La proposta “Integrazione o ReImmigrazione” si colloca in uno spazio costituzionalmente compatibile, perché fonda diritti e doveri su basi chiare e verificabili, e nello stesso tempo offre un terreno politico su cui maggioranza e opposizione potrebbero misurarsi senza ricadere nelle contrapposizioni ideologiche.

    Per arrivarci, però, serve un tavolo di confronto che vada oltre le tifoserie. Non bastano i thread su X o le dichiarazioni da comizio: serve un lavoro serio tra giuristi, istituzioni, forze politiche e società civile, capace di distinguere ciò che è realizzabile da ciò che resta solo propaganda.

    Il fenomeno migratorio, con la sua dimensione economica, sociale e culturale, merita un approccio responsabile, che tenga insieme sicurezza e diritti, identità nazionale e coesione sociale.

    Solo così si può passare dal rumore degli slogan a un progetto politico credibile, capace di dare risposte concrete a cittadini e migranti.

    La sfida non è scegliere tra accoglienza incondizionata e espulsioni di massa, ma costruire un modello che premi chi si integra e stabilisca un percorso chiaro di rientro per chi invece rifiuta di farlo.

    È questa la vera differenza tra la “remigrazione” gridata sui social e il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: da un lato un simbolo identitario senza basi giuridiche, dall’altro un criterio operativo già sperimentato nella protezione complementare, che può trasformarsi in politica pubblica.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
    ID 280782895721-36

  • Remigrazione vs. ReImmigrazione: La Differenza che l’Europa Deve Capire

    Chi oggi propone la remigrazione lo fa con l’intento dichiarato di proteggere le nostre società da tensioni che sembrano ormai croniche.

    È un tema che merita rispetto, perché nasce da paure reali e da un bisogno di sicurezza e coesione che non può essere liquidato come ideologico.

    Tuttavia, proprio per la sua carica emotiva e per il suo carattere di parola d’ordine, la remigrazione rischia di diventare un atto isolato, uno slogan più che una strategia.

    Rimandare indietro chi non si integra può sembrare una scorciatoia, ma senza un impianto giuridico condiviso e senza strumenti concreti finisce per produrre nuove fratture invece che sanarle.

    Per questo credo che serva fare un passo in avanti. Il paradigma che chiamo “Integrazione o ReImmigrazione” non vuole sostituirsi alla remigrazione come concetto, né negarne le ragioni profonde. Vuole piuttosto tradurre quella preoccupazione in una cornice giuridica chiara e sostenibile, che tenga insieme il principio di coesione sociale con la tutela dei diritti fondamentali.

    Non si tratta di deportazioni di massa, ma di un percorso regolato, trasparente, nel quale l’integrazione diventa un vero e proprio obbligo. Lavoro, conoscenza della lingua e rispetto delle regole non sono solo auspicabili, ma diventano criteri verificabili e vincolanti. Chi si impegna a rispettarli trova nello Stato un alleato; chi rifiuta, dopo un percorso equo e garantito, affronta la reimmigrazione come ritorno assistito, non come punizione.

    Un simile paradigma offre anche garanzie giuridiche. Penso, ad esempio, al deposito del passaporto in Questura come strumento che assicura certezza e responsabilità reciproca, senza criminalizzare nessuno. Penso al ruolo decisivo dei giudici e degli avvocati, chiamati a valutare non in base a simpatie politiche ma a regole condivise. Penso agli accordi bilaterali che possono trasformare il ritorno in un processo ordinato, dignitoso e sostenibile. È un modello che, invece di generare conflitto, può aprire spazi di dialogo, perché non si limita a dire “fuori chi non ci piace”, ma stabilisce regole chiare per tutti.

    In Europa il dibattito su questi temi è polarizzato: da un lato chi invoca rimpatri di massa, dall’altro chi difende uno status quo che spesso riduce l’immigrazione a questione puramente economica. Io credo che la verità stia nel mezzo. L’Europa ha bisogno di migranti che scelgano di integrarsi, che contribuiscano davvero alla vita collettiva, e al tempo stesso ha bisogno di strumenti legali per accompagnare chi non riesce o non vuole a rientrare nel proprio Paese. È questo l’equilibrio che la ReImmigrazione cerca di costruire.

    Non propongo dunque uno scontro tra visioni opposte, ma un tavolo comune di lavoro.

    Possiamo discutere insieme – politici, giuristi, società civile – se la remigrazione, intesa come atto di forza, sia sufficiente o se invece serva un paradigma più completo, capace di trasformare l’integrazione da auspicio a obbligo.

    L’importante è non fermarsi allo slogan, ma dare alle nostre società europee strumenti concreti per restare coese, libere e sicure.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

  • Passaporto in Questura: la garanzia del nuovo paradigma integrazione o reimmigrazione

    Sottotitolo
    Dal fallimento del modello economicista alla nuova regola del passaporto trattenuto: così l’Italia sperimenta un sistema che lega la permanenza degli stranieri al successo del percorso di integrazione.


    Il Decreto Flussi 2026-2028 ha messo in evidenza tutti i limiti di una politica migratoria basata solo sui numeri: quasi mezzo milione di ingressi autorizzati, ma appena il 12% degli stranieri che riesce a trovare un lavoro.

    È l’ennesima conferma del fallimento del modello economicista, che riduce l’immigrazione a una variabile di PIL e fabbisogno demografico.

    In questo scenario prende forma una novità dirompente: la consegna del passaporto in Questura da parte di chi presenta domanda di protezione complementare.

    Non si tratta di un dettaglio burocratico, ma di una misura di garanzia che cambia radicalmente la prospettiva.

    Il meccanismo è semplice: finché lo straniero costruisce un percorso di integrazione – lingua, lavoro, rispetto delle regole – la sua permanenza viene tutelata. Se invece l’integrazione fallisce, la Questura dispone già dello strumento operativo per il rimpatrio immediato.

    Una scelta che trasforma il permesso da diritto astratto a patto concreto di responsabilità reciproca.
    È qui che si delinea il nuovo paradigma: integrazione o reimmigrazione.

    Non più l’illusione che basti importare manodopera per sostenere il sistema economico, ma la consapevolezza che la tenuta sociale del Paese dipende dalla capacità di integrare chi resta e dal rimpatrio effettivo di chi non si integra.

    Il passaporto trattenuto diventa così il simbolo di una politica migratoria diversa: meno fondata sui numeri e più ancorata a regole chiare, verificabili e costituzionalmente compatibili.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista registrato presso il Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36)

  • Why Immigration Feels Like a Crisis: The Missing Key Is Integration

    In the United States, immigration is often described as a constant crisis. Many Americans ask: why does immigration always feel like an emergency? The answer is simple—because too many immigrants do not integrate.

    When newcomers do not work, do not learn the language, and do not respect the law, they remain outsiders. This creates insecurity in communities, fuels resentment among citizens, and turns immigration into a permanent political battlefield. The problem is not only how many people arrive, but also what happens after they arrive.

    Italy has developed a unique legal tool called complementary protection. It was created to recognize that integration itself generates rights. If a person works, speaks the language, and respects the rules, they are not a burden but a contributor. For such people, deportation would not only be unfair—it would weaken society. But for those who refuse to integrate, the answer is clear: return.

    This is the new paradigm I propose: integration or reimmigration. Immigration policy should no longer be reduced to “open borders” or “closed borders,” but should be based on measurable standards. Work, language, and lawfulness are the three pillars. If you meet them, you earn the right to stay. If you reject them, you must go back.

    And so the inevitable question is: could this paradigm also work in the United States?


    Fabio Loscerbo
    Lobbyist registered in the EU Transparency Register
    ID 280782895721-36

  • La protezione complementare come laboratorio del nuovo paradigma migratorio

    La protezione complementare, spesso liquidata come strumento “residuale”, oggi rivela un potenziale diverso: può diventare il laboratorio concreto del nuovo paradigma migratorio.

    Non è più soltanto il rimedio che interviene quando mancano i presupposti dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria; è lo spazio in cui il diritto riconosce valore alla vita reale costruita qui: relazioni, lavoro, lingua, appartenenza.

    Il baricentro si sposta dalla domanda “cosa ti accadrebbe se tornassi?” a “cosa stai perdendo se ti sradico adesso?”.

    È un passaggio silenzioso ma decisivo: dalla protezione dalla persecuzione alla protezione dello radicamento.

    Dentro questo cambio di prospettiva, tre pilastri diventano misurabili e quindi azionabili: lavoro come autonomia e partecipazione, lingua come capacità di relazione e responsabilità, legalità come patto sociale rispettato.

    Quando questi elementi sono presenti, la permanenza non è più una concessione politica ma l’esito di un percorso verificabile.

    E il bilanciamento con l’ordine pubblico non è un pretesto: è il filtro che rende credibile il modello, perché consente di distinguere nettamente tra chi contribuisce e chi no.

    In questa chiave, la protezione complementare funziona già oggi come un “prototipo” europeo: definisce criteri chiari, sposta il focus sulla vita effettiva in Italia, traduce l’integrazione da slogan in parametro giuridico.

    È qui che l’idea “integrazione o reimmigrazione” smette di essere solo formula e diventa metodo: tutelare i diritti fondamentali di chi è radicato, e al tempo stesso pretendere coerenza a chi rifiuta le regole del patto.

    Meno conflitto ideologico, più governance: la protezione complementare può essere l’officina in cui questo nuovo equilibrio prende forma, rendendo la politica migratoria uno strumento stabile di regolazione sociale e non un’emergenza permanente.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista registrato – Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea
    ID 280782895721-36

  • Unite the Kingdom: il grido di Londra che invoca un nuovo paradigma

    Il 13 settembre 2025 il Regno Unito ha assistito a una delle più grandi manifestazioni di estrema destra degli ultimi decenni. A Londra, sotto la guida di Tommy Robinson, oltre centomila persone hanno preso parte alla marcia denominata “Unite the Kingdom”, che ha avuto un carattere fortemente anti-immigrazione e nazionalista.

    La protesta, accompagnata da simbologia patriottica e da slogan xenofobi, è sfociata in scontri violenti con le forze dell’ordine, che hanno riportato decine di feriti e proceduto a numerosi arresti.

    Parallelamente, un contro-corteo promosso da organizzazioni antifasciste come Stand Up to Racism ha visto la partecipazione di migliaia di cittadini, confermando la polarizzazione profonda della società britannica.

    Il dato rilevante non è soltanto numerico, ma politico e culturale. Una mobilitazione di tale portata riflette un malessere che va oltre i confini della marginalità, rivelando come le tematiche legate all’immigrazione e alla sicurezza siano capaci di catalizzare consensi trasversali.

    L’adesione di figure pubbliche e la risonanza mediatica hanno trasformato la piazza in un laboratorio di egemonia culturale, con l’obiettivo di spostare il baricentro del dibattito nazionale.

    In questo quadro, il confronto europeo e internazionale non può ignorare le implicazioni di lungo periodo.

    Se l’estrema destra britannica punta a imporre una narrazione esclusivamente securitaria, la sfida per le democrazie liberali è mantenere un equilibrio tra garanzie fondamentali e gestione dei flussi migratori.

    È qui che si innesta il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: un modello che non nega la necessità di regole e responsabilità, ma che supera l’alternativa semplicistica tra accoglienza incondizionata e chiusura totale.

    Il caso britannico dimostra come l’assenza di un paradigma chiaro lasci spazio alla radicalizzazione.

    Quando l’integrazione viene percepita come fallita, il rischio è che la richiesta di ordine si traduca in piattaforme di esclusione e conflitto. Al contrario, un approccio che vincoli il diritto a rimanere a un dovere di integrazione — lavoro, lingua, rispetto delle regole — può fornire una risposta credibile tanto alle esigenze di sicurezza quanto alla coesione sociale.

    La manifestazione di Londra rappresenta dunque un campanello d’allarme per l’Europa intera: se le politiche migratorie non sapranno produrre integrazione reale, il discorso pubblico sarà inevitabilmente egemonizzato da forze che individuano nell’espulsione e nel rifiuto l’unica soluzione.

    È in questa tensione che la proposta “Integrazione o ReImmigrazione” acquista rilevanza non solo in Italia, ma come chiave di lettura transnazionale, capace di prevenire la deriva verso lo scontro permanente tra comunità.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

  • Trump e la riscrittura del diritto d’asilo all’ONU

    L’amministrazione Trump ha annunciato l’intenzione di proporre alle Nazioni Unite una revisione restrittiva del diritto d’asilo: una svolta che potrebbe ridimensionare decenni di evoluzione interpretativa della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo del 1967.

    L’orientamento trapelato punta a ricondurre l’asilo alla sola persecuzione individuale, tagliando fuori gran parte delle situazioni oggi considerate rilevanti (conflitti diffusi, collassi istituzionali, disastri ambientali).

    Le conseguenze sarebbero profonde: milioni di persone potrebbero non trovare più tutela internazionale, mentre il segnale politico alimenterebbe un approccio securitario che trasforma l’asilo da diritto universale a eccezione marginale.

    In Europa, il confronto resta aperto sul nuovo Patto migrazione-asilo e sull’equilibrio fra garanzie e gestione dei flussi; in Italia, la discussione chiama in causa la responsabilità concreta dell’integrazione.

    Qui si innesta il paradigma “Integrazione o ReImmigrazione”: restare non è un automatismo, ma la risultante di un dovere positivo di integrazione — lavoro, lingua, rispetto delle regole — e, in difetto, del rientro assistito e dignitoso.

    La possibile riforma statunitense, pur discutibile nella sua durezza, costringe a chiarire confini e finalità della protezione: distinguere la persecuzione che necessita asilo da altre mobilità che richiedono strumenti diversi (corridoi umanitari, visti di lavoro, cooperazione allo sviluppo), collocando l’integrazione al centro delle politiche interne.

    La domanda, allora, è se “Integrazione o ReImmigrazione” possa entrare nel dibattito americano come griglia di responsabilità reciproca — Stato e persona — capace di coniugare accoglienza, ordine pubblico e sostenibilità sociale, proprio mentre Washington valuta di riscrivere l’architettura globale dell’asilo.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

  • Decreto Flussi 2025: le novità del 4 settembre e il grande assente, l’integrazione

    Le novità introdotte

    Il Consiglio dei Ministri del 4 settembre 2025 ha approvato nuove disposizioni in materia di ingresso regolare dei lavoratori stranieri.
    Tra i punti principali:

    • Nulla osta: il termine decorre non più dalla presentazione della domanda, ma dal momento dell’imputazione in quota, per accelerare le procedure.
    • Precompilazione a regime: diventa definitiva la precompilazione digitale delle richieste di nulla osta, con limite massimo di tre domande per datore, esteso anche al lavoro stagionale.
    • Controlli più ampi: le verifiche sulla veridicità delle dichiarazioni dei datori si estendono a nuove tipologie di ingressi (ricerca, volontariato, altamente qualificati).
    • Permanenza legittima: viene chiarito che lo straniero ha diritto a soggiornare e lavorare non solo in attesa del rilascio o rinnovo, ma anche durante la conversione del permesso.
    • Tutela delle vittime di sfruttamento: il permesso di soggiorno per le vittime di caporalato e sfruttamento passa da 6 a 12 mesi, con pari durata per i permessi per protezione sociale. Previsto anche l’accesso all’Assegno di inclusione.
    • Assistenza familiare fuori quota: l’ingresso per l’assistenza a disabili e grandi anziani viene stabilmente escluso dalle quote. Per i primi 12 mesi l’attività lavorativa resta vincolata e il cambio datore necessita di autorizzazione dell’ITL.
    • Ricongiungimenti familiari: il termine per il rilascio del nulla osta sale da 90 a 150 giorni, in linea con la normativa UE.

    Un pacchetto che modernizza le procedure, rafforza i controlli e amplia alcune tutele. Ma manca un tassello decisivo.

    L’integrazione dimenticata

    Nessuna delle misure approvate parla di integrazione.
    Non vi è traccia di percorsi di formazione linguistica, programmi di inserimento sociale, sostegno all’abitare, strumenti di coesione con i territori.

    Il Decreto Flussi continua a trattare l’immigrazione come questione di quote e procedure, dimenticando che l’integrazione è condizione essenziale per rimanere in Italia.
    Chi non si integra non può costruire un futuro stabile nel nostro Paese.

    La lezione della giurisprudenza

    Proprio in questi giorni, il Tribunale di Bologna ha ribadito questo principio.
    Con la sentenza del 29 agosto 2025 (R.G. 11352/2023), è stata riconosciuta la protezione speciale a una cittadina straniera stabilmente presente in Italia.

    I giudici hanno valorizzato:

    • un contratto di lavoro regolare,
    • l’autonomia economica,
    • la conoscenza della lingua italiana,
    • e le relazioni sociali e affettive consolidate.

    Il Collegio ha ritenuto che l’allontanamento avrebbe determinato una lesione della vita privata tutelata dall’art. 8 CEDU e dall’art. 19 TUI

    In altre parole, ciò che il decreto ignora, la giurisprudenza riconosce: l’integrazione è la base giuridica e sociale che giustifica la permanenza in Italia.

    Conclusione: il laboratorio della protezione complementare

    Il Decreto Flussi 2025 introduce miglioramenti procedurali e amplia le quote, ma non offre alcuna visione sull’integrazione.
    La giurisprudenza, invece, afferma chiaramente che integrazione significa diritto a rimanere.

    Per questo motivo sostengo che la protezione complementare possa diventare il laboratorio dove dare attuazione al nuovo paradigma:

    • premiare chi lavora, studia la lingua e rispetta le regole;
    • garantire stabilità a chi si integra;
    • orientare la politica migratoria italiana non solo sul numero di ingressi, ma sulla qualità dell’inserimento sociale.

    Integrazione o Reimmigrazione: questa è la scelta che l’Italia deve compiere, e la protezione complementare può esserne il terreno di sperimentazione più avanzato.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea, ID 280782895721-36

  • Nessuna discrasia tra l’Avvocato dell’Immigrazione e il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”

    Nell’opinione pubblica circola talvolta l’idea che un avvocato che tutela i diritti degli stranieri non possa, allo stesso tempo, promuovere un paradigma che introduce il principio: chi si integra resta, chi non si integra torna.

    Si tratterebbe – secondo questa critica – di una contraddizione insanabile, quasi una forma di schizofrenia professionale.

    In realtà, questa presunta discrasia non esiste.

    Anzi: è proprio l’esperienza quotidiana di un avvocato dell’immigrazione a dimostrare quanto sia urgente e necessario ridefinire le regole secondo il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”.

    1. La funzione dell’avvocato dell’immigrazione

    L’avvocato che si occupa di immigrazione non è un “avvocato di parte” nel senso politico del termine. È un garante del diritto:

    1) assicura che i provvedimenti delle Questure e delle Prefetture rispettino la legge,

    2) difende i migranti quando i loro diritti fondamentali vengono violati,

    3) invoca il rispetto delle norme costituzionali, internazionali e comunitarie.

    Questa funzione non significa promuovere una immigrazione illimitata e senza regole, ma esattamente l’opposto: far sì che le regole siano chiare, coerenti e applicate con giustizia.

    2. Il paradigma come evoluzione naturale

    Il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione” nasce da una constatazione giuridica ed empirica:

    A) l’integrazione non è opzionale,

    B) non può esserci diritto a restare in Italia senza un corrispondente dovere di aderire ai valori fondamentali della società ospitante.

    Chi meglio di un avvocato immigrazionista può osservare i casi concreti in cui integrazione e radicamento funzionano – lavoro, famiglia, vita sociale – e quelli in cui, invece, l’assenza di integrazione produce marginalità, devianza, conflitto?

    Il nuovo paradigma non nega la tutela dei diritti: la rende condizionata alla responsabilità individuale.

    3. La sintesi tra diritti e doveri

    Non vi è contraddizione tra il difendere i diritti degli stranieri e chiedere regole più stringenti. Al contrario:

    1) senza diritti, non vi è garanzia di dignità e legalità;

    2) senza doveri, i diritti diventano privilegio e si ritorce contro la coesione sociale.

    Un avvocato dell’immigrazione, che ogni giorno invoca l’art. 19 del TUI, la CEDU o l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, è lo stesso che può affermare: queste tutele hanno senso solo se accompagnate da un impegno reale di integrazione.

    4. La visione politica oltre la professione

    Promuovere “Integrazione o Reimmigrazione” significa spostare il dibattito dall’ideologia alla concretezza:

    A) non più “accoglienza indiscriminata” o “espulsione di massa”,

    B) ma un sistema fondato su parametri chiari, verificabili, misurabili.

    Chi vive quotidianamente i ricorsi, le istanze, le sospensive, conosce i limiti e le potenzialità del sistema.

    L’avvocato immigrazionista non è un “contraddittore del nuovo paradigma”: ne è il testimone più autorevole.

    Conclusione

    Non vi è discrasia, dunque, tra l’essere un avvocato che tutela i diritti degli stranieri e il promuovere il principio “Integrazione o Reimmigrazione”.

    Il primo ruolo è tecnico-giuridico: assicurare che nessuno venga privato di diritti fondamentali in modo illegittimo.

    Il secondo è politico-culturale: indicare una via futura, in cui i diritti si legano ai doveri e l’integrazione diventa obbligo e responsabilità.


    Sono due dimensioni diverse, ma complementari. E solo chi vive entrambe può tradurle in un paradigma credibile e innovativo per l’Italia e per l’Europa.

    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • La protezione complementare come laboratorio del paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”


    Il dibattito europeo sul governo delle migrazioni è oggi attraversato da una linea di frattura: da un lato chi difende un’accoglienza incondizionata, dall’altro chi invoca rimpatri di massa.

    Entrambe le posizioni, tuttavia, risultano incapaci di dare risposte coerenti con i principi costituzionali e con i bisogni reali delle società.

    In questo contesto, la disciplina italiana della protezione complementare (art. 19, commi 1 e 1.1, d.lgs. 286/1998), così come interpretata dalla giurisprudenza, offre un terreno di riflessione per l’attuazione del paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”.

    1. La protezione complementare come categoria giuridica

    La protezione complementare nasce come clausola di salvaguardia: impedire l’espulsione dello straniero quando il rimpatrio comporterebbe la violazione di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, dalla CEDU e dal diritto internazionale (vita privata e familiare, tutela della salute, radicamento sociale).
    Non si tratta di una “sanatoria generalizzata”, ma di un meccanismo caso per caso, che valuta non l’appartenenza etnica o culturale, bensì le condizioni individuali e il grado di integrazione.

    2. Il legame con il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”

    Il paradigma da me proposto si fonda su tre pilastri: lavoro, lingua e rispetto delle regole.
    La protezione complementare, nella sua applicazione concreta, già integra questi elementi:

    1) Lavoro: i tribunali riconoscono il valore del percorso lavorativo regolare come indice di radicamento e di rispetto del principio di dignità.

    2) Lingua e vita sociale: la giurisprudenza valorizza la partecipazione a corsi, attività di volontariato, reti di relazione, segni tangibili di inserimento.

    3) Rispetto delle regole: condanne penali gravi o comportamenti devianti sono valutati negativamente, perché incrinano il rapporto di fiducia con la collettività ospitante.


    Così la protezione complementare non si limita a “proteggere”, ma diventa strumento di selezione positiva: resta chi dimostra di aderire al modello sociale; torna chi rifiuta di integrarsi.


    3. Una procedura che traduce in pratica il nuovo paradigma

    La procedura relativa alla protezione complementare è un esempio di come sia possibile attuare giuridicamente il principio di “integrazione o reimmigrazione”:

    A) Accesso regolato: lo straniero deve formalizzare una domanda e produrre documentazione probatoria (contratti, certificati, relazioni sociali).

    B) Valutazione individuale: l’autorità amministrativa e giudiziaria verifica se sussistono elementi di integrazione concreti e non meramente dichiarati.

    C) Esito binario: se gli elementi sono positivi → rilascio di un titolo di soggiorno; se negativi → rimpatrio, senza ambiguità.

    Questa struttura procedurale si avvicina perfettamente al paradigma: integrazione come obbligo verificabile, reimmigrazione come conseguenza in caso di inadempienza.

    4. Prospettiva europea

    L’esperienza italiana dimostra che il discorso sulla “remigrazione” può essere riportato su un piano costituzionalmente legittimo e socialmente accettabile.
    Il paradigma “Integrazione o Reimmigrazione” si distingue infatti:

    1) dalla retorica etnico-identitaria della destra radicale (che evoca espulsioni collettive),

    2) ma anche dall’approccio lassista di chi trasforma ogni titolo di soggiorno in una sanatoria di fatto.


    L’Europa, nel costruire il nuovo Patto sulle migrazioni e l’asilo, potrebbe mutuare dal modello della protezione complementare una logica di bilanciamento: protezione dove vi è integrazione, rimpatrio dove manca.

    Conclusioni

    La protezione complementare rappresenta oggi un laboratorio giuridico per l’attuazione del paradigma “Integrazione o Reimmigrazione”.
    Non più slogan, ma diritto:

    1) integrazione obbligatoria, verificata con criteri oggettivi;

    2) ReImmigrazione come conseguenza necessaria della mancata adesione al patto sociale.

    Un meccanismo che consente di superare la contrapposizione sterile tra accoglienza senza condizioni e rimpatri indiscriminati, per affermare un principio nuovo, saldo e giuridicamente fondato.


    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Integrazione o Reimmigrazione: il paradigma giuridico-sociale oltre la retorica della “Remigration” tedesca



    Il dibattito politico tedesco degli ultimi mesi ha riportato alla ribalta la parola Remigration, termine adottato e poi ridimensionato dall’Alternative für Deutschland (AfD).

    Il concetto, nella sua formulazione originaria, evocava scenari di rimpatri di massa, estesi persino a cittadini naturalizzati o a persone con radicamento decennale.

    Non a caso, nel 2023 la giuria linguistica tedesca lo ha definito Unwort des Jahres (“parola-mostro dell’anno”), proprio per la sua carica eversiva e per l’eco di deportazioni che la storia europea conosce fin troppo bene.

    Di fronte a critiche istituzionali e timori di incostituzionalità, l’AfD ha parzialmente eliminato il termine dal proprio manifesto politico nel luglio 2025, preferendo un linguaggio più prudente.

    Ma la questione resta aperta: l’opinione pubblica tedesca esprime una forte richiesta di regole chiare sull’immigrazione, mentre le soluzioni radicali vengono respinte come incompatibili con lo Stato di diritto.

    La differenza sostanziale: paradigma identitario vs paradigma giuridico

    La Remigration dell’AfD si fonda su presupposti etnico-culturali: non chi si comporta, ma chi si è. La minaccia dell’espulsione prescinde dal rispetto delle leggi o dal grado di integrazione individuale, per legarsi invece a una visione di “appartenenza originaria” alla comunità nazionale.

    Il paradigma di “Integrazione o Reimmigrazione”, al contrario, nasce da una logica giuridico-costituzionale:

    1) lo straniero che entra in Italia (o in Europa) ha un obbligo positivo di integrazione,

    2) integrazione significa lavoro, lingua, rispetto delle regole,

    3) chi non si integra, pur avendone la possibilità, deve tornare nel proprio Paese d’origine (Reimmigrazione).

    Non è una questione di etnia, ma di comportamento conforme ai valori della società ospitante. Non un destino collettivo, ma una responsabilità individuale.

    Il ridimensionamento tedesco come conferma della validità del paradigma

    Il fatto che l’AfD abbia dovuto attenuare la propria retorica sulla Remigration dimostra che:

    1. Le istituzioni democratiche non tollerano soluzioni radicali che richiamano a discriminazioni collettive.

    2. Rimane, tuttavia, una forte domanda sociale di condizionalità e responsabilità nei percorsi migratori.

    È in questo spazio vuoto che il paradigma Integrazione o Reimmigrazione si inserisce come terza via:

    A) rifiuta le deportazioni di massa,

    B) evita il lassismo di chi considera l’integrazione una scelta opzionale,

    C) propone una via costituzionalmente orientata e politicamente praticabile.

    Verso un nuovo mainstream europeo

    Il concetto di “potenza civile” che ha guidato la Germania nel dopoguerra è oggi in crisi, così come lo sono le vecchie politiche di accoglienza senza condizioni. L’Europa ha bisogno di un linguaggio nuovo e credibile, capace di coniugare diritti e doveri, inclusione e responsabilità.

    “Integrazione o Reimmigrazione” può divenire il paradigma di riferimento:

    diritti fondamentali garantiti,

    obblighi di integrazione verificabili,

    reimmigrazione come conseguenza giuridica della mancata adesione ai valori condivisi.


    Un principio che non divide su base etnica, ma che rafforza la coesione sociale e restituisce fiducia al cittadino.




    Avv. Fabio Loscerbo
    Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea – ID 280782895721-36

  • Integrazione mancata: il vero nodo delle seconde generazioni

    In questi giorni sto leggendo il volume di Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni (Il Mulino, 2020).

    È un testo che affronta con grande rigore, tra l’altro, il tema delle cosiddette seconde generazioni, i figli degli immigrati nati o cresciuti nei Paesi di arrivo. La lettura mi ha spinto a una riflessione che va oltre l’analisi accademica, perché tocca direttamente il futuro della società italiana.

    Non si tratta infatti di una questione marginale o di dettaglio sociologico, ma del vero banco di prova delle politiche migratorie.

    Il modello classico di assimilazione, che prevedeva l’abbandono della cultura d’origine e l’adozione totale di quella della società ospitante, appare ormai superato.

    Ambrosini sottolinea come i processi siano in realtà più complessi e relazionali: non si riducono a una cancellazione delle differenze, ma piuttosto a una continua negoziazione tra appartenenze. Le ricerche sociologiche evidenziano percorsi diversi, alcuni favorevoli all’integrazione, altri invece destinati a produrre conflitti e marginalità.

    È particolarmente interessante il concetto di acculturazione selettiva, ossia la capacità di mantenere legami culturali con il paese d’origine senza rinunciare alla piena partecipazione nella società ricevente.

    Questo modello, più di altri, sembra garantire ai giovani migliori prospettive scolastiche e professionali, ma resta minoritario e fragile, spesso ostacolato da discriminazioni e da politiche poco lungimiranti.

    A pesare in modo decisivo sono la famiglia e la scuola. La prima, quando è stabile e coesa, rappresenta un sostegno fondamentale, ma se fragile o isolata può diventare un limite. La seconda, la scuola, dovrebbe essere il principale strumento di mobilità sociale, e invece in Italia troppo spesso si trasforma in un luogo di esclusione: ritardi scolastici, abbandoni precoci, percorsi formativi ridotti a canali professionali poco qualificanti.

    Non si può quindi parlare di integrazione automatica: anzi, senza adeguati strumenti e percorsi, molte seconde generazioni finiscono per scivolare in quella che la letteratura chiama assimilazione verso il basso, ossia un’integrazione apparente che porta in realtà a precarietà, marginalità e talvolta devianza.

    La riflessione che mi nasce leggendo Ambrosini è chiara: le seconde generazioni non sono semplicemente un gruppo sociale tra gli altri, ma la cartina di tornasole di un intero sistema.

    Esse rappresentano la scelta collettiva che la società italiana deve compiere: o diventano cittadini a pieno titolo, o saranno la prova di un fallimento.

    È qui che si colloca il paradigma della ReImmigrazione. L’integrazione deve fondarsi su tre pilastri precisi – lingua, lavoro e rispetto delle regole – e deve essere un percorso reale, non solo dichiarato.

    Chi vuole integrarsi deve trovare gli strumenti per riuscirci, chi invece rifiuta questa prospettiva non può rimanere in una condizione sospesa che danneggia sé stesso e l’intera collettività.

    L’integrazione mancata non può più essere tollerata come un male minore: o si realizza pienamente, oppure occorre avere il coraggio della ReImmigrazione.

    Avv. Fabio Loscerbo – Lobbista iscritto al Registro per la Trasparenza dell’Unione Europea (ID 280782895721-36) nella materia “Migrazione e Asilo”